domenica 14 dicembre 2014

La pervinca rosa del Madagascar


una pillola verde

Oggi un quarto delle medicine che troviamo in farmacia è a base di principi attivi di origine vegetale. Che arrivano da foreste lontane
Alcuni ormai lo chiamano, senza troppi complimenti, oro verde. Nella realtà, l'oro verde ha nomi poetici, come la pervinca rosa del Madagascar. Vagamente familiari, come la Salvia miltiorrhiza. Oppure esotici, come il neem che viene dall'India, o il bintangor che arriva dalla Malesia. Ma oro verde, tutto sommato, rimane una buona definizione: sarà sbrigativa ma, in compenso, fa capire subito che, in questo caso, a contare non è la delicatezza dei petali, né l'eleganza delle foglie. Conta il loro valore tradotto in dollari. Sì, perché si tratta di piante medicinali. La Salvia miltiorrhiza, nota alla farmacopea cinese, aiuta a combattere l'alcolismo. Il bintangor si è dimostrato un buon prodotto contro l'Aids. La pervinca rosa è utile nella terapia anticancro e il neem è una pianta magica: cura l'acne e una serie di malattie che vanno dalle infezioni al diabete.

E, per di più, viene impiegata nella composizione di un insetticida efficace quanto il Ddt, che però non provoca danni all'ambiente. I dollari che sgorgano dai petali della pervinca rosa sono tanti. Milioni di dollari. Miliardi di dollari. Lo si capisce da dati e statistiche su cui si riesce a mettere le mani. Secondo stime diffuse dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, i farmaci che hanno una base vegetale e che circolano nei paesi più industrializzati dell'occidente hanno un valore di mercato che va dai 200 ai 1.800 miliardi. Di dollari. C'è di che lavorare sodo. Per tanti motivi. Il primo: oggi i medicinali di origine vegetale sono circa un quarto di quelli che circolano nelle nostre farmacie. Il secondo: il loro numero potrebbe aumentare, e di molto, dal momento che su 248 mila specie di piante esistenti al mondo solo una piccola percentuale è stata studiata. Il terzo (ed è una considerazione tutt'altro che marginale): l'80 per cento della popolazione mondiale si cura "in verde". Se c'è da lavorare sodo per fare soldi, c'è anche molto da viaggiare. Perché nessuno fa mistero del fatto che il mondo è diviso in due. Quello di sopra, ricco di soldi, di scienza e di malattie. E quello di sotto, povero ma ricco di piante medicinali. L'Amazzonia, le Ande, il Borneo, l'India, la Cina, le Filippine, l'Africa: la grande, inesplorata farmacia creata da madre natura è in larghissima misura lì. Chi non vuole parlare di oro verde e preferisce un linguaggio più asettico e scientifico, definisce tutto questa abbondanza come biodiversità.


. E sempre chi vuole usare un linguaggio scientifico, chiama bioprospecting il lavoro di scienziati e ricercatori, che si addentrano nelle foreste pluviali a studiare le foglie della salute. Sulla biodiversità e sul suo valore cresce anche una piccola giungla di opinioni. Alla milanese Indena - tra le aziende più importanti del mondo per la ricerca dei principi attivi nascosti nelle piante - smorzano i toni e affermano che, grosso modo, i medicinali di origine vegetale hanno sempre costituito il 25 per cento dei rimedi disponibili nelle farmacie occidentali. Il professor Antonio Guerci, direttore del dipartimento di Antropologia dell'Università di Genova e conservatore del museo - unico al mondo - di Etnomedicina calca la mano in direzione opposta sostenendo che, in realtà, la ricerca nel campo dei prodotti di sintesi ha il fiato grosso. Racconta che, fino a una decina di anni fa, le industrie del settore dovevano testare 15 mila molecole prima di arrivare a individuarne una utile dal punto di vista terapeutico. Oggi bisogna testarne 25 mila. Un'opinione del genere, a dire la verità, è condivisa da Valentino Mercati, fondatore di Aboca, importante azienda italiana che copre tutto l'arco produttivo, dalla coltivazione di erbe officinali alla preparazione dei derivati. Mercati sostiene che l'industria del farmaco di sintesi deve affrontare costi sempre più elevati. La colpa sarebbe del pubblico, che si è fatto più esigente e non accetta più medicinali di sintesi, sospettati di provocare nell'organismo del paziente troppi effetti collaterali. Per questo, dice, l'etnofarmacologia è la nuova frontiera della farmacologia. Due sono state le tappe del rilancio della ricerca etnofarmacologica, racconta ancora il professor Guerci. Nel 1960 l'Istituto americano per la lotta ai tumori lanciò una ricerca su vasta scala. Migliaia di piante vennero portate in laboratorio e studiate. Risultato: sedici anni più tardi, i ricercatori avevano individuato solo due principi attivi utili. Ma lo studio era stato condotto assolutamente a caso. Nel 1990, l'Istituto americano per la sanità diede vita a un piano quinquennale, questa volta mirato. Migliaia di ricercatori vennero inviati giù, nel mondo di sotto. Pazientemente, umilmente, interrogarono stregoni, sciamani e curanderos. E testarono solo le piante che già facevano parte delle tradizioni mediche, per quanto diverse e fantasiose. Risultato: in cinque anni furono individuati una ventina di principi attivi utili. A ripianare i costi dello studio sarebbe stato sufficiente individuarne un paio. La strada deve essere davvero interessante e promettente, visto che circa i tre quarti dei farmaci a base vegetale in uso oggi derivano da rimedi già noti presso la medicina indigena. Nel frattempo, nei paesi occidentali accade qualcosa di nuovo, che riguarda insieme la politica, l'economia, la scienza e il costume. Cioè: la spesa sociale destinata alla salute viene considerata troppo alta. Deve essere tagliata. Come? Come già accade in larga misura in Francia, Germania e Stati Uniti e, in maniera un po' più ridotta, in Italia: la gente va dal medico a farsi prescrivere un prodotto solo quando sta male sul serio. Altrimenti si cura da sola. Si auto prescrive i farmaci. E dal momento che verde è bello, e non c'è il rischio di effetti collaterali, si preferiscono le erbe. È l'esplosione dei cosiddetti integratori alimentari, che vengono voracemente consumati per controllare il peso, ridurre lo stress, facilitare la digestione, lenire piccoli dolori, curare raffreddori, prevenire rughe e senilità. E così, l'oro verde del mondo di sotto aumenta ancora il numero di miliardi di dollari che è in grado di produrre. A mano a mano che le cifre salgono, sembra delinearsi il profilo di quella che potremmo definire l'ecologia monetaria. La salvaguardia della biodiversità, e dunque delle foreste pluviali, viene invocata in nome della ricchezza. Quei pazzi che disboscano il Borneo e l'Amazzonia per fare soldi con il legname distruggono irreparabilmente una miniera di denaro etnofarmacologico. E per di più, una miniera rinnovabile all'infinito. La misera sorte delle tribù indigene, disperse dalla deforestazione e poi falcidiate dalle malattie e dalla miseria, aggrava il danno, poiché fa evaporare un sapere prezioso per i protagonisti del bioprospecting; è come bruciare un biblioteca. Senza più sciamani e curanderos da interrogare, bisognerà, come fece nel 1960 l'Istituto americano per i tumori, tornare a una ricerca casuale, con i magri risultati che abbiamo visto. "Un importante motivo per conservare le foreste pluviali è il loro valore, attuale e potenziale, per la medicina", spiega un documento dell'Onu, senza fare mistero del fatto che il valore è anche economico. E il problema è tanto più sentito in considerazione del fatto che, nei prossimi anni, le foreste vergini scompariranno da molti paesi. La giungla di opinioni fatta germogliare dall'oro verde e dai millenari e preziosi saperi dei curanderos si infittisce ulteriormente, in base a considerazioni molto semplici. Qualcuno comincia a fare di conto, e a parlare di biopirateria. La pervinca rosa? La casa farmaceutica Eli Lilly di Indianapolis, che ne ha ricavato un prodotto, ci ha guadagnato 160 milioni di dollari nel solo 1993. E al Madagascar, il paese dove la pianta nasce? Neanche una lira. In India il neem viene usato da sempre, ma è stata una multinazionale occidentale a ottenere i brevetti sui metodi usati per produrre l'estratto del seme. In India l'indignazione è alle stelle: è come se un canadese riuscisse a brevettare il metodo per fabbricare gli spaghetti, costringendo gli italiani a pagargli i diritti su ogni piatto di pasta. Molte industrie giurano che sono questioni del passato. Che dal 1992 sono in vigore gli accordi di Rio de Janeiro, in base ai quali le multinazionali, per poter usare erbe e piante trovate nei paesi del Sud del mondo, devono riconoscere loro adeguate royalty. Ma questo non basta affatto a tranquillizzare chi teme che il Sud del mondo diventi vittima di una nuova forma di sfruttamento coloniale, stavolta di carattere biologico, grazie alle tecniche di manipolazione genetica e alla possibilità, decretata dagli Stati Uniti, di brevettare anche le forme di vita purché frutto dell'ingegno umano. L'economista americano Jeremy Rifkin sta lanciando una battaglia a livello mondiale contro il controllo quasi totale sulla natura che questa realtà può consentire a pochissime multinazionali. E avverte: "Molti governi hanno già messo a punto una serie di impianti per lo stoccaggio dei geni, allo scopo di preservare i ceppi rari delle piante con caratteristiche genetiche suscettibili di acquisire, in futuro, un valore commerciale. Il National Seed Storage Laboratory di Fort Collins, nel Colorado, conserva più di 400 mila semi provenienti da tutto il mondo. Molte nazioni stanno cominciando a creare ulteriori banche genetiche, per conservare rari microrganismi ed embrioni surgelati di animali. Nei prossimi anni, il valore commerciale della maggior parte di queste varietà aumenterà enormemente, visto che il mercato mondiale si baserà sempre di più sull'impiego delle nuove tecnologie genetiche".

Ecco alcuni tra i tanti "principi attivi naturali" ammessi (o in procinto di esserlo) dalle farmacopee ufficiali. ANTIMALARICI Gli Incas curavano la "febbre terzana" con la corteccia dell'albero di china. Il principio attivo, il chinino, fu isolato dai chimici solo nel 1820 e tuttora è essenziale contro la malaria. Ancora più antico è il farmaco che cura la malaria cerebrale, una delle forme più gravi: era tra i 52 "rimedi imperiali" scoperti nella tomba di Ma Wangdui, della dinastia cinese Han (I secolo a.C.). I cinesi lo chiamano Qing-Hao-su, gli occidentali artemisia: l'impiego ufficiale contro la malattia è recentissimo. IMMUNOSTIMOLANTI L'Uncaria tomentosa è usata da oltre duemila anni dalla medicina tradizionale peruviana. L'azione contro tumori, infiammazioni, reumatismi ha trovato riscontri scientifici nella presenza di antiossidanti e di immunostimolanti, come gli oxindole. Tanto che, nel '94, l'Uncaria è stata ufficialmente riconosciuta dall'Oms come pianta medicinale. Oggi è usata come rimedio complementare per l'Aids. ANTITUMORALI Dalla Vinca rosea vengono ricavate la vincristina e la vinblastina. Associate ad altri principi attivi di sintesi, rientrano in alcuni protocolli di cure chemioterapiche. ANTIDEPRESSIVI Per le forme lievi c'è l'iperico, o erba di San Giovanni, ricco di flavonoidi e ipericine. Sperimentazioni cliniche Usane hanno dimostrato l'efficacia, "comparabile a quella degli antidepressivi tradizionali", come ha riportato il British Medical Journal. In Germania, l'estratto di iperico copre il 30% del mercato di questi prodotti. ANTIOSSIDANTI Da piante ed erbe vengono estratte (o riprodotte chimicamente) diverse sostanze antiossidanti, impiegate anche come eccipienti nei farmaci convenzionali. In Giappone si usa, per esempio, il Camu-Camu, il frutto di una pianta amazzonica, che agisce a livello surrenale ed è ricco di vitamina C. ANTIDIABETICI Dalle foglie di ulivo deriverebbe uno degli ultimi ritrovati contro il diabete non insulino dipendente. Si chiama O'life, e abbasserebbe i livelli di insulina a digiuno, senza effetti collaterali. Ricercatori di San Francisco stanno invece studiando le proprietà del Pycnanthus angolensis, l'albero africano della noce moscata. Dalle sue foglie sono stati isolati due composti dall'azione antidiabetica, per ora sperimentata solo sui topi. Di entrambe queste sostanze è stata data notizia sul Journal of Pharmacology Therapeutics. CICATRIZZANTI E FLEBOTONICI Molti farmaci destinati a trattare varici e ferite contengono sostanze di origine naturale. Spiccano, tra le altre, la centella asiatica, che contiene un potente cicatrizzante e viene utilizzata nei paesi di origine addirittura per curare le piaghe dei lebbrosi. Dalle foglie della vite (Vitis vinifera), ricche in tannino, zuccheri, colina e vitamina C, vengono estratti principi utili per la cura dei disturbi della circolazione, dalle varici alla fragilità capillare.
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“Industria Derivati Naturali”.

Criteri economici per la gestione sostenibile della biodiversità:

conservazione e valorizzazione di piante medicinali del Madagascar


In Madagascar possiamo rintracciare un grande patrimonio di biodiversità tutto da ammirare. Non a caso infatti i naturalisti definiscono quest’isola “l’ottavo continente”.

Nuovi studi e un centro di ricerca specializzato per la conservazione
della biodiversità nei pressi della foresta pluviale del Madagascar

aiutare a comprendere e gestire i problemi
legati all'uso del territorio e dell'economia

Il Santuario Della Natura
Questo paese, grazie soprattutto alla sua fantastica flora,
si è guadagnato l’appellativo di “Santuario Della Natura”.

Le monache coltivano un’alga per realizzare un integratore


Ecco la dieta anticancro

di Umberto Veronesi
Un'alimentazione ricca di grassi, dolci e bevande gassate favorisce tutti i big killer del nostro mondo. Ma fa anche male al pianeta. Eppure si può cambiare registro per salvare la nostra vita e quella della Terra

Qualche secolo fa, anche le nazioni che adesso chiamiamo i paesi del benessere, facevano la fame. C'erano gli happy few, i pochi felici che mangiavano sontuosamente, e c'era la quasi totalità della popolazione che stringeva la cinghia. Oggi c'è ancora metà del pianeta in quelle condizioni, ma ci si comincia a chiedere se la povertà e la fame dei Paesi sottosviluppati non sia in relazione diretta con il consumismo delle nazioni industrializzate, lo stesso consumismo alimentare, spesso guidato da scelte alimentare sbagliate, che causa i big killer del nostro mondo.

Secondo Jean Mayer, nutrizionista dell'università di Harvard, riducendo del solo 10 per cento l'allevamento del bestiame destinato alle bistecche si potrebbero nutrire con grano e legumi 60 milioni di persone nel mondo. E penso, come molti economisti, che il vegetarianesimo potrebbe essere una delle possibili soluzioni per combattere la fame nel mondo. Intanto, come per una specie di legge del taglione, sono proprio le popolazioni dei paesi ricchi ad ammalarsi per gli stili di vita scorretti (poco movimento, alcol, fumo) e per le cattive abitudini alimentari, le quali sono responsabili addirittura del 30 per cento dei tumori, senza parlare di patologie cardiovascolari come infarto ed ictus. Credo che sia giusto inquadrare in questo contesto iniziative come quella che l'Airc, l'Associazione per la ricerca contro il cancro, riproporrà anche quest'anno con le Arance della Salute, distribuite il 30 gennaio nelle piazze italiane per finanziare i progetti di ricerca, circa 140, e per richiamare tutti al progetto di una vita più sana, in cui l'alimentazione divenga la base della prevenzione.

La relazione tra alimentazione e stato di salute è riconosciuta fin dalla preistoria dall'uomo, che aveva imparato a comprendere l'effetto dei diversi alimenti sull'organismo, evitando l'assunzione di cibi nocivi o tossici, perché l'alimentazione è atto cosciente di assunzione selettiva di alimenti. Bisogna tornare a questa funzione di salvaguardia fornita dall'esperienza e dalla ragione, perché purtroppo negli ultimi decenni è successo proprio il contrario, e il modo di vivere delle società sviluppate minaccia di mandare a male i principi di un'alimentazione sana.


Tra le abitudini nefaste per la salute, c'è la consumazione di bevande gasate, creme ghiacciate, eccesso di dolci, e c'è - soprattutto tra i più giovani - il continuo sgranocchiare di alimenti grassi, che tolgono l'appetito per gli alimenti utili. Intanto si va perdendo l'abitudine ai cibi freschi che forniscono vitamine, come la frutta e la verdura. Le Arance della Salute, arance rosse di Sicilia, servono anche a ricordarci che per stare in salute, secondo le linee-guida dell'Organizzazione mondiale della sanità, è importante mangiare ogni giorno cinque porzioni di frutta e verdura.
Purtroppo possiamo constatare che soprattutto i più giovani non mangiano quasi mai la frutta, ma non è troppo tardi per rilanciare la cultura dei prodotti freschi della terra, dell'olio di oliva al posto dei grassi, e in genere di tutti quei cibi della 'dieta mediterranea' con cui l'Italia ha fatto scuola nel mondo. La nuova sensibilità ecologica può essere volta a una riflessione collettiva sul nostro benessere, perché è un progetto che si pone all'interno di un sistema complesso: riguarda l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il suolo su cui viviamo, e il cibo che introduciamo nel nostro organismo. Dobbiamo essere consapevoli non solo che ci sono stili di vita dannosi per la salute, ma che i troppi consumi impoveriscono il resto del mondo. Non si tratta di acconsentire a una banale colpevolizzazione, ma di acquisire una mentalità aperta e onnicomprensiva, che ci faccia vedere la vita sul pianeta come una rete di interrelazioni, spronandoci a fare la nostra parte.

È questo il senso degli allarmati rapporti delle Nazioni Unite sulla fame nel mondo. Sono rimasto pensieroso e ammirato, nel maggio del 2009, quando mi è arrivata la notizia che la città belga di Gand per prima al mondo aveva deciso di essere vegetariana almeno una volta alla settimana, come riconoscimento dei problemi affrontati da un rapporto dell'Onu. Nelle strade sono comparsi manifesti che invitavano la popolazione a questo appuntamento almeno settimanale, e nelle mense scolastiche c'è da settembre la giornata del pasto vegetariano.
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Le monache coltivano un’alga per realizzare un integratore

Protagonista dell'iniziativa è Cinzia Catalfamo Akbaraly, una milanese, bocconiana, dalla vita assai singolare. 

La mia casa é il marciapiede...

Inizierei con una storia a lieto fine. E devo dire che essermi “imbattuto” in questa situazione ha reso ancora più chiara la fiducia nella grande forza della Vita e nella sua intramontabile Saggezza.
Tahiry, quando l’ho conosciuto, non aveva ancora 4 anni. Dormiva sotto i portici di Analakely, la piazza principale di Antananarivo, e diciamo che era tra i bambini più fortunati: la madre non lo aveva ancora abbandonato. Occorre sapere che le notti d’inverno sono fredde anche qui, soprattutto quando si dorme in strada senza nulla che protegga o solo con qualche doppia maglia.
Molti allora si muniscono di sacchetti di plastica, tipo quelli utili per i rifiuti. Possono così ripararsi almeno un po’ dal freddo. Ed é ancora meglio se accanto al giaciglio si può avere il calore di un pò di carbone ardente, si usa una specie di scaldino e tutti si adagiano attorno e si riscaldano.
Può succedere che durante la notte qualche granello di carbone finisca sui sacchetti di plastica provocando a volte spiacevoli conseguenze. Per Tahiry é andata così: dormiva e si é ustionato. Buona parte del suo fragile corpicino ha subito gravi scottature.
Come mia abitudine, la mattina verso le 7 portavo il pane ai bambini e così ho potuto soccorrere il piccolo Tahiry. Alla fine tutto é andato per il meglio.
Ho avuto modo di incontrarlo altre volte, é cresciuto e per evitare di mendicare lava le macchine dei signori, sempre in piazza ad Analakely. Bene per lui. Solo che la madre lo ha abbandonato.
Le storie dei bambini di strada sembrano tutte uguali: o sono abbandonati dalla madre o abbandonano la madre. Ci sono invece genitori che, per varie ragioni, inviano i loro bimbi a mendicare mentre loro aspettano o in casa, quando hanno una casa, o dall’altra parte del marciapiede. Capita spesso che, se il bambino non consegna la somma prestabilita, é ancora obbligato a cercare denaro anche fino a tarda notte. E così può ancora andare bene, perché a volte capita invece di essere picchiati, e dato che il loro “lavoro” é quello di procurare il denaro per tutta la famiglia, e spesso ci sono anche tanti fratelli da sfamare, per questi bambini non esistono altri diritti come quello di andare a scuola.
Devo dire francamente che non so quale possa essere la soluzione per migliorare l’esistenza di questi marmocchi e forse non é neanche il caso di cercarla, la soluzione. Il fatto é che sembra così profonda la lacerazione presente nella loro flebile esistenza che tutto può apparire importante e poi é come se perdesse senso. Ma poi, di fronte alla contraddizione profonda tra il fare e il riflettere, ecco che salta fuori la forza e l’energia della loro voglia di vivere, i loro occhi si illuminano anche solo di fronte ad un saluto, ad un abbraccio, ad un sorriso. Ed é per questo che é giusto non dimenticarli offrendo loro altre occasioni, altri doni. Una piccola opportunità in più si apre nella loro vita e la sofferenza sembra svanire.
Questo per evitare che, come si dice, il soffermarsi sull’albero possa celare l’esistenza del bosco.
E sapete, molti di loro non hanno neanche l’atto di nascita, insomma, come se non esistessero. E quando invece ne sono in possesso, capita spesso di notare cose del tipo: nato verso il...
Ma questa é un’altra storia.

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Mi chiamo Toni Vasco, sono nato ad Enna
ed ho svolto la professione di psicologo presso
il servizio di salute mentale. Ho lavorato per due
anni a Trieste, ai tempi di Basaglia ed ero stato
catturato dal fervore di quella che si chiamava “antipsichiatria”.

Di Tony Vasco
“… Ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso...”

Guardando l’emblema della Repubblica del Madagascar
é presto chiara l’immagine della testa dello zebù.
Sembra quasi che lo zebù, OMBY in malgascio, porti sulla
sua testa il peso della storia di questo popolo

Di Tony Vasco
Questi occhi belli che chiedono di apprendere, di sperimentare, di vivere.
E questi occhi sono ancora puliti.
E soprattutto esprimono la preziosità di ognuno e di tutti.

La felicità non è reale se non è condivisa”…
e allora mi fermo e racconto con cura e attenzione 

Il crescente numero di lavoratrici del sesso a Toamasina,
tuttavia, non è solo un fenomeno dovuto alla miniera e agli
investimenti, ma è parte di una... tendenza a livello nazionale,
causata dall'aumento della povertà


Lasciate che i bibi vengano a me

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Lasciate che i bibi vengano a me fa il verso alla più famosa frase evangelica che ultimamente si usa spesso, con una emme al centro, in riferimento ai preti pedofili. In realtà, bibi in malgascio significa animale e Tina è già qualche anno che mi chiama “bibi professeur”. E infatti, la molla che mi spinse nell’estate del 2006 a decidere di fare una capatina in Madagascar, dove ero già stato una prima volta nel 2003, prima di affrontare l’Africa vera e propria, furono gli animali, che studio e ammiro fin da bambino. Tuttavia, stante i condizionamenti mentali della mia guida, che riesce ad aver paura anche quando non serve e che mi contagia con le sue paranoie, in questo mio decimo viaggio in Madagascar non sono andato molto alla ricerca di animali e Tina non si sbatte più di tanto per accondiscendere ai miei desideri. La foresta di manghi che abbiamo vicino casa, per esempio, a suo dire è frequentata dai malaso anche di giorno. Figuriamoci di notte. Se dunque posso dire addio ai lemuri notturni come il microcebo murino o al fossa che lemure non è, posso almeno sperare di vedere e magari anche fotografare animali diurni, se non altro quelli che incontriamo durante le passeggiate su percorsi a suo dire sicuri. E’ stato così che abbiamo trovato un grosso granchio sulla spiaggia di Itampolo, che cercava di difendersi dal ragazzino aguzzino di turno, che lo voleva trafiggere con un bastone.

Il bambino non si è lamentato quando gli ho sottratto l’oggetto dei suoi sadici trastulli e nessuno mi ha visto, anche perché il sole stava tramontando e la luce scemava, mentre depositavo il crostaceo lontano, sulla battigia, aspettando che le onde lo recuperassero portandolo nelle sicure, per lui, profondità marine. Anche i due camaleonti che stazionavano ciascuno su un differente albero nel giardino del Sud Sud non ho fatto molta fatica a incontrarli, perché praticamente sono venuti loro a cercare me. Per la verità, a scovarli fra le fronde è stata Tina, con il suo occhio clinico e addestrato, e se non fosse stato per lei io non li avrei notati. Ecco che si evidenzia una dote in più, in Tina, che la renderebbe una guida turistica, nonché naturalistica, perfetta, se solo non fosse così spaventata dai malaso e non si lasciasse andare un po’ troppo, dal mio punto di vista di occidentale, alla diffusa e naturale pigrizia dei malgasci, che con il lavoro e la fatica hanno un pessimo rapporto. Come tutti gli esseri umani del resto.

Quando abitavo ad Ankilibe andavo tutte le mattine in cerca di fossili e altri fenomeni naturali e mi capitava di trovare anche isangorita, i camaleonti. E così anche nella foresta spinosa di Mangily. E così a Betioki. E perfino su una strada di città di Tulear, dove transitavo in bicicletta e c’era una donna che ne stava scopando fuori dal cortile della sua casa un paio, di discrete dimensioni, spostandoli in mezzo alla strada e non facendo loro, così, un buon servizio, dato che le macchine li avrebbero prima o poi schiacciati, sempre che prima non fossero intervenuti i soliti ragazzini aguzzini a farne scempio. L’unico posto dove non mi è mai capitato di incontrare camaleonti è la capitale Tana, che però in questi giorni, a detta del telegiornale, è alle prese con un fenomeno nuovo, insolito e anche un po’ inquietante: l’invasione delle locuste. I camaleonti, in questi miei viaggi in Madagascar, posso dire di averli fotografati in tutte le salse, ma anche di foto di cavallette ne ho una bella collezione. Camaleonti e cavallette, benché siano piuttosto distanti tra loro sulla scala evolutiva, hanno una cosa in comune: non amano farsi fotografare. Quando se ne trova uno su un ramo, si sposta dall’altra parte, si nasconde, e se per un camaleonte, con i suoi occhietti mobili è comprensibile che ci abbia messo a fuoco, noi e la nostra macchina fotografica, non si capisce come le valala possano accorgersi di noi e capire che siamo un pericolo potenziale, con i loro rudimentali sensi, ovvero con quei loro occhietti minuscoli. Riuscire quindi ad ottenere una bella foto, con un camaleonte o una cavalletta in piena evidenza e non celati dietro qualche rametto, è un’impresa non facile.


 Una cosa che non ho mai capito, delle tante che non capisco del comportamento dei malgasci, è perché il governo abbia istituito un ente per la diffusione del veleno anti-valala quando le valala mavo, cioè le cavallette marroni, costituiscono il cibo per gli abitanti della brousse nei periodi di carestia. Lo fanno, evidentemente, perché uno sciame che atterri su un campo di manioca o di mais distrugge il raccolto in pochi minuti, ma se invece di avvelenarle, con i rischi per l’ambiente e non ultima la salute umana che ciò comporta, le si catturasse e le si destinasse all’alimentazione, come già si fa, sarebbe senz’altro più ragionevole. E io, in questo momento, sto ragionando come un ambientalista e non come un animalista, poiché se dipendesse da me lascerei che le valala mavo si mangiassero i raccolti e istituirei un fondo di indennizzi per gli agricoltori colpiti, come si fa in Europa da anni, e da noi in particolare, con gli indennizzi per i pastori a cui lupi e orsi mangino qualche pecora. Il fondo per indennizzare i contadini malgasci sarebbe facilmente trovato impiegando i soldi con cui vengono comprati lussuosi fuoristrada, usati da funzionari nullafacenti e vanagloriosi, ma chiedere uno scatto di lucidità e di intelligenza, ai funzionari preposti a prendere questo genere di decisioni, è pura utopia.

E’ meglio puntare sulla diffusione di insetticidi, che magari nel mondo occidentale sono proibiti da anni, come il famigerato DDT. E’ meglio lasciare che l’ambiente, terrestre o marino, sia devastato dalle mire speculative di privati piccoli e grandi, di funzionari malgasci e di multinazionali estere. Di sicuro le industrie chimiche che producono gli insetticidi sono contente. E’ meglio lasciare che i cinesi, nuovi arrivati, dettino legge in fatto di sfruttamento dell’ambiente e che si portino via tutte le oloturie, le pinne di squalo, dopo che si è dato il permesso a commercianti europei e americani di raccogliere conchiglie per i collezionisti e pesci tropicali per gli amanti di acquariologia. Per non parlare di giapponesi e coreani che scorrazzano in lungo e in largo nel Canale di Mozambico, spazzolando via tutto ciò che trovano e mettendo in crisi la pesca malgascia di piccolo cabotaggio. Se io fossi un pescatore Sakalava andrei a bruciare l’ufficio governativo del ministero della pesca, oppure non voterei più alle elezioni presidenziali, per farmi prendere in giro regolarmente dal politico di turno. Un anno fa i malaso, per fare un dispetto allo Stato, hanno bruciato la foresta del parco nazionale di Ranomafana. E dunque, i criminali dilettanti distruggono, mentre i criminali professionisti si fanno eleggere al parlamento e distruggono ancora di più.

Le cavallette che in questi giorni, prima volta nella sua storia, hanno invaso Antananarivo, si sono permesse di entrare anche nell’ufficio presidenziale, dopo che pochi giorni fa un corto circuito vi aveva provocato un principio d’incendio (sette funzionari dell’azienda idroelettrica furono interrogati dalla polizia, per questo). Questi eventi fortuiti hanno indotto qualcuno a pensare in senso magico che qualche rivale politico di Monsieur Hery si sia rivolto ad un ombiasy cattivo, affinché facesse gri gri al presidente in carica. Ma qualcuno ancora più superstizioso è arrivato a pensare che, prima il cortocircuito, e poi anche le bibliche cavallette, siano un segno di Zanahary, per nulla contento dell’operato del nuovo presidente. Costoro pensano che Hery non sia l’uomo giusto e che le elezioni di dicembre che lo hanno eletto siano state truccate.

Io, da razionalista occidentale, so che le elezioni, truccate o meno che siano, sono immancabilmente una presa in giro per gli elettori, a cui viene fatto credere di contare qualcosa, mentre in realtà non contano una beata oloturia. So che le invasioni di cavallette si verificavano fin dai tempi dei dinosauri e non hanno portato al pericolo di far scomparire la vita sulla Terra. So che il Madagascar, come altre parti dell’Africa, è da sempre soggetto a questi fenomeni periodici, anche se è strano che si siano spinte fino ai 1700 metri di altitudine media di Antananarivo.
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Di Roberto Duria
 “Il personale è politico e il politico è personale”. Cosa
intendessero i “compagni” dell’epoca con tale espressione
non so, di preciso, ma io la interpreto nel senso che
No man is an island, nessun uomo è un’isola

Un progetto di riforestazione del bambù in Madagascar per tutelare
l'ambiente e salvare le due specie di lemure endemiche

È il Madagascar la seconda patria di Carlo Bresciani. Non è una vacanza
Non sono i tesori inimitabili di una natura splendida, selvaggia e incontaminata ad averlo stregato Carlo, originario di Prevalle, si è innamorato della gente. Di quella gente, poverissima e buona.

Di Roberto Duria
Quando Tina me lo indicò, mentre, con un gomito appoggiato
al bancone del bar sorseggiava un Pastis

Conoscete gli animali tipici del Madagascar?
In Madagascar infatti troverete una fauna
estremamente diversa da quella dell’Africa

di Roberto Duria
Melania e Andrea potrebbero andare a Mangily via mare
con la loro lakana, ma finché non impareranno a manovrare
bene quell’imbarcazione a bilanciere tipica delle coste del Madagascar

Ed io, che ero partito quasi solo per stare con lei, ora mi toccherà tornare,
per dire a Fahali che non sono come la neve, ma che esisto anche in Madagascar

Quando Gigi viene punto, poi non riesce più a dormire e così si è alzato

giovedì 27 novembre 2014

Madagascar, la peste è arrivata nella capitale

Oms alza livello d'allarme dopo aumento numero di casi e decessi

Foto ANSA

  • (ANSA) Endemica nelle campagne del Madagascar, la peste bubbonica è arrivata anche nella capitale Antananarivo, provocando un innalzamento dell'allarme oltre che tra le autorità locali anche da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Una giovane donna é morta lo scorso 11 novembre in una bidonville della capitale, metropoli di oltre due milioni di abitanti. E il numero complessivo delle persone contagiate quest'anno è salito a 138. 47 malati sono deceduti.

    "A questo punto esiste il rischio di una rapida diffusione della malattia", ha avvertito l'Oms sottolineando come fattori particolarmente negativi "l'alta densità della popolazione nella città" e la "debolezza e le falle del sistema sanitario del Paese". Il bilancio, affermano dal canto loro le autorità locali, potrebbe diventare molto più pesante anche per la "recrudescenza stagionale" che ogni anno si verifica "tra ottobre e marzo". Il bacillo della peste, che si sviluppa nei ratti, viene poi veicolato dalle pulci. Nell'uomo che è stato punto da una pulce la malattia si sviluppa di solito in forma bubbonica: se il batterio colpisce i polmoni, provoca anche la polmonite e si può trasmettere per via aerea quando il malato tossisce. Diagnosticata in tempo, la peste bubbonica si cura con antibiotici. Ma la forma polmonare, che è una delle malattie infettive più letali, può portare alla morte in sole 24 ore.
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Come si muore di peste in Madagascar

In questi giorni amici e parenti mi hanno interpellato per sapere sulla peste in Madagascar. Ho dato loro delle risposte sommarie senza approfondire l'argomento, infatti non si tratta di una epidemia che si diffonde come l'ebola, ma è una epidemia circoscritta a determinati ceti sociali e a determinate zone della città e la peste è curabile con gli antibiotici.
La peste in Madagascar possiamo dire che è endemica, in quanto anche negli anni passati, in questa, che è la stagione calda,ci sono stati alcuni casi di decesso, ma le autorità sanitarie non le hanno mai segnalato. Quest'anno la stampa ha diffuso la notizia in quanto l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto un comunicato.
I giornali italiani facendo eco a questo comunicato dell'OMS, hanno informato a profusione senza dare le dovute spiegazioni del perchè di queste morti per la peste.
Antananarivo è una metropoli con circa 2,5 milioni di abitanti, molti vivono nelle bidon ville in mezzo a liquami e sporcizie varie. La maggior parte sono arrivati dalla campagna per cercare fortuna e lavoro nella grande capitale, fortuna che non hanno trovato; molte donne incrementano la prostituzione mentre gli uomini si danno a lavori occasionali o alla mala vita con furtarelli per potere sopravvivere.
Tutta questa gente non usufruisce di alcuna assistenza sanitaria (qui la sanità è tutta a pagamento) e quando contrae qualche malattia non puo' comprarsi le medicine o recarsi presso un ospedale per mancanza di soldi.
Per farsi ricoverare in un ospedale è necessario all'ingresso versare una somma a garanzia (circa 200/300 euro), somma che la povera gente non dispone. Poi all'interno dell'ospedale esiste una farmacia dove l'ammalato puo' comprare le medicine che il medico prescrive.
Se ci rechiamo in un qualsiasi ospedale a chiedere quanti decessi per peste ci sono stati negli ultimi tempi, sappiamo già la risposta:ZERO.
Quindi l'epidemia di peste non curata per la povertà della gente, causa il decesso. Segnaliamo che da parecchi anni nella capitale non è stata fatta una derattizzazione e che i principali diffusori della peste sono proprio i ratti. In questo periodo di caldo molta gente dorme anche all'aperto e quindi è facile preda del contaggio.


lunedì 24 novembre 2014

Palermo, una magia


Londinese per nascita, italiana per vocazione, siciliana un po’ per caso, un po’ per scelta. Incontriamo Victoria Menashy e ci facciamo raccontare la sua esperienza palermitana.


Come mai hai scelto di vivere a Palermo e perché ti sei trasferita qui?
«Ho conosciuto l’Italia a diciassette anni, prima di iniziare il mio corso di laurea in mediazione linguistica e musica a Manchester. Desideravo fare un’esperienza nel vostro Paese, quindi mi sono iscritta al conservatorio di Firenze, studiando canto lirico, una delle mie passioni. La scuola lirica italiana, quella del “Bel Canto”, è la migliore, importante e conosciuta in tutto il mondo. Sono stata un anno lì ma è stato difficile perché mi trovavo da sola e senza danari. Sono dovuta tornare a casa perché iniziare l’università era più facile avendo avuto accesso ad una borsa di studio.
Al terzo anno d’università mi trovai a dover scegliere la destinazione per il mio anno di Erasmus, scelsi Palermo, avendo già vissuto al nord mi incuriosiva conoscere la vita del sud Italia. Qui ho conosciuto il mio maestro di canto e sono riuscita a conciliare le mie due passioni: l’insegnamento e il canto lirico, dando anche quattordici materie. Questo mi ha spinto a rimanere qui.
Ho deciso in quel momento che non avrei finito l’università a Manchester,  mi sarei trasferita qui per i miei studi. Ho scelto di terminarli alla Sapienza di Roma».

Quali le tue aspettative quando sei venuta a vivere qui?

«L’Italia mi è piaciuta tanto. La lingua, la cultura, la gente…  Mi sarei aspettata probabilmente un’esperienza simile a quella che avevo fatto a Firenze ma ho trovato una situazione completamente differente. A Firenze ero più giovane, avevo più amici stranieri, parlavo in inglese la maggior parte del tempo; a Palermo, al contrario, la maggior parte degli amici sono siciliani, parlo in italiano e vi è un’altra mentalità».

Cosa ti ha colpito di Palermo e dei palermitani?

«Palermo è una bella città anche se un po contraddittoria: ci sono molte cose che non vanno e che balzano agli occhi e mi fanno sospirare. Ha tanto da offrire e non lo sa. Mi fa male vedere, per esempio, tutte quelle zone vicino al Foro Italico, la spiaggia, e tantissimi altri posti che si potrebbero sfruttare maggiormente a livello turistico. La città è inoltre molto sporca, ed è un peccato vedere quanti turisti ci sono, i loro sguardi rassegnati e quanti di più potrebbero essercene. Al tempo stesso non esistono persone come voi, calorose, aperte, affettuose. Io che sto qui da quattro anni vivendo completamente sola, sono riuscita a legare con un sacco di persone così vicine che ho sperimentato come una famiglia, persone che vogliono aiutarti e che sono solidali».

Quali gli aspetti culturali più bizzarri che hai notato?

«Uno degli atteggiamenti che fatico ad accettare è l’incapacità a fare la fila rimanendo al proprio posto e gestendo la frustrazione. In Inghilterra c’è molto rispetto per lo spazio personale, qui invece lo spazio non esiste; oppure quando guidate per strada riuscite ad essere davvero pericolosi, io ne ho un po’ paura, nonostante abbia la patente non intendo usarla qui. Un’altra bizzarria riguarda le abitudini alimentari… Considera che noi ceniamo alle 18.00, non riuscirei mai a cenare alle 22.00. In Inghilterra è molto forte l’abitudine di uscire a bere… Qui accompagnate sempre con qualcosa da mangiare. Inoltre mangiate un primo di pasta, che già da solo sarebbe pesante, poi carne e dolce, e questo per ogni festa! E’ un concetto stranissimo per noi, se consideri che prima di venire qui avevo mangiato pasta solo tre volte nella mia vita!
Altro fenomeno che mi sembrava, almeno inizialmente, bizzarro erano i ‘mammoni’. Questi ragazzi che stavano a casa fino a quarant’anni… All’inizio non capivo bene come preferissero rimanere coi genitori anziché farsi una loro vita, ma era soltanto perché non conoscevo la situazione economica qui, le condizioni lavorative che vivevano. Dopo quattro anni ho capito bene le motivazioni che spesso fanno preferire ciò. Penso piuttosto che per certi versi sia importante avere una famiglia dietro che ti possa supportare fino a quando ne hai bisogno.
Un aspetto culturale interessante del rapporto coi sessi è che gli uomini sono un po’ diversi qui, più protettivi, gentili; lo si nota quando accompagnano le ragazze a casa, quando non le lasciano sole per strada, in Inghilterra è completamente diverso».

Cosa consiglieresti all’Amministrazione in termini di maggiore vivibilità e accoglienza anche nei confronti dello straniero?

«Ci sono tanti, forse troppi problemi per gli stranieri che vogliono vivere e  lavorare qui, ma anche per il disbrigo delle pratiche più semplici: trafile burocratiche infinite per la residenza, il codice fiscale, per avere un medico, per aprire un conto».

Quale ti sembra sia la ‘visione’ dei siciliani?

«Siete molto lenti, sospirate, non c’è mai fretta nelle vostre azioni, siete legati fortemente alla famiglia».
Quale aspetto ti incuriosisce e piace di più dei palermitani?

«Questa tendenza a prendersi cura e mantenere i legami forti come l’amicizia. Io provengo da una città enorme dove i legami sono più radi e le comunicazioni a causa delle distanze avvengono via web. Qui avete delle comitive, vi conoscete sin dall’infanzia e questo tipo di relazioni ti regala un calore bellissimo».


Il piatto che ti piace di più?

«Risotto alla marinara, broccoletti in pastella, insalata di mare, sarde a beccafico».

Quando torni a casa cosa racconti di Palermo?

«E’ molto difficile spiegare cosa significhi viverci ad una persona che sta fuori. Palermo ha una specie di magia, tutti gli stranieri che vivono qui da un lato vorrebbero andar via, per questioni lavorative e organizzative, dall’altro, nessuno riesce a farlo facilmente… E’ strano ma l’ho notato in tutti. Io stessa vivo una situazione strana, quando torno a Londra è necessario che passi qualche giorno per riabituarmi ai suoi ritmi, profumi, concezioni; è come se Londra non mi appartenesse più».

Consiglieresti ai tuoi connazionali di vivere qui?

«Dipende molto dalla persona che sei. Devi essere particolare, forte e aperta, disposta a cambiare, a cercare  di far parte di questa cultura nuova: non è per tutti».

Se avessi la possibilità di tornare indietro faresti la stessa scelta?

«Odio avere rimpianti, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per un motivo, seguendo l’intuito, non mi piace guardare indietro. Il mio percorso è stato un po’ strano e sicuramente poco convenzionale… La normalità non è la mia strada. Quando hai un obiettivo nella vita continui sempre a combattere, fare sacrifici, a lavorare e studiare per raggiungerlo. Io voglio cantare, è il più grande amore della mia vita».

Faccia a Faccia on line

Incontriamo suor Concetta Zappulla all’Istituto “Suore Cappuccine
dell’Immacolata di Lourdes” di Palermo e non esitiamo a chiederle
della vita che conduce come missionaria.>>>>>>>>continua a leggere

Abbiamo incontrato padre Giuseppe Nicolai, imolese di adozione,
missionario in Madagascar. Gli abbiamo chiesto di parlarci della
sua attività e dei suoi rapporti con il popolo malgascio.

La mia prima casa era nel campo base a circa mezz'ora da Sambava verso Andapa. Mi ricordo un nome " Ambatolokoho "

Intervista a Fabiola Mancinelli, antropologa del turismo che
dopo un passato nella comunicazione e nella ricerca di tendenze
ha deciso di partire per studiare il Madagascar

Il sole, il mare, le spiagge, ma soprattutto la gente
ci ha fatto pensare che la nostra pensione(sic!) che
era  prossima, avrebbe potuto godere di tutto questo

Nosy Be l’Isola dei Sogni

Laureato in Scienze dell'educazione, ho lavorato come educatore

Dario e Valerio hanno creato Peter Pan nella spiaggia più bella del Madagascar
Anakao

49 anni romano ha inaugurato a Sainte Marie il suo nuovo Hotel

Anita Torti, nata in Madagascar, vive a Milano si sta facendo onore sui ring di tutto
il mondo

La cantante malgascia che vive e fa successo in Italia

La storia di un medico che aiuta i bambini poveri del Madagascar

 in Madagascar per insegnare forme alternative di agricoltura

Non esisteva ancora il telefono, le strade erano piste in mezzo alla natura.
Poche capanne, una banca e un ufficio postale.
Quando Massimiliano Felici arrivò a Sainte Marie nel 1993, l’isola era così.
Oggi vive a Ankazoberavina isola deserta situata nella zona nordoccidentale del Madagascar

È titolare di un diving a Nosy Be

Rosario Volpi, 34 anni, ha vinto il Premio volontariato internazionale 2013.

Dal 2007 si occupa di ragazzi


Enzo Maiorca e le sue immersioni

Pino Schintu e le sue fotografie

Dirige il lebrosario di Ambanja

È arrivato in nave e fa sentire la sua voce con radio AVEC

In Madagascar il negozio più bello con i vetri di Murano

Alberto il professionista del turismo

Ha lavorato nel turismo a Nosy Be

Un biologo arrivato da Milano al seguito di una spedizione
di studio della foresta del parco Nazionale di Masoala

Stefano, titolare della « Gelateria Italiana »
a Tulear, “si racconta” come e perchè è arrivato in Madagascar

Manuela fornisce i migliori ristoranti con il gelato italiano

Incontrando gli amici, al rientro dal mio primo viaggio in Madagascar,
alla domanda cosa ti sei portato dal Madagascar, ho risposto:
“la voglia di tornare”.