domenica 14 dicembre 2014

Lasciate che i bibi vengano a me

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Lasciate che i bibi vengano a me fa il verso alla più famosa frase evangelica che ultimamente si usa spesso, con una emme al centro, in riferimento ai preti pedofili. In realtà, bibi in malgascio significa animale e Tina è già qualche anno che mi chiama “bibi professeur”. E infatti, la molla che mi spinse nell’estate del 2006 a decidere di fare una capatina in Madagascar, dove ero già stato una prima volta nel 2003, prima di affrontare l’Africa vera e propria, furono gli animali, che studio e ammiro fin da bambino. Tuttavia, stante i condizionamenti mentali della mia guida, che riesce ad aver paura anche quando non serve e che mi contagia con le sue paranoie, in questo mio decimo viaggio in Madagascar non sono andato molto alla ricerca di animali e Tina non si sbatte più di tanto per accondiscendere ai miei desideri. La foresta di manghi che abbiamo vicino casa, per esempio, a suo dire è frequentata dai malaso anche di giorno. Figuriamoci di notte. Se dunque posso dire addio ai lemuri notturni come il microcebo murino o al fossa che lemure non è, posso almeno sperare di vedere e magari anche fotografare animali diurni, se non altro quelli che incontriamo durante le passeggiate su percorsi a suo dire sicuri. E’ stato così che abbiamo trovato un grosso granchio sulla spiaggia di Itampolo, che cercava di difendersi dal ragazzino aguzzino di turno, che lo voleva trafiggere con un bastone.

Il bambino non si è lamentato quando gli ho sottratto l’oggetto dei suoi sadici trastulli e nessuno mi ha visto, anche perché il sole stava tramontando e la luce scemava, mentre depositavo il crostaceo lontano, sulla battigia, aspettando che le onde lo recuperassero portandolo nelle sicure, per lui, profondità marine. Anche i due camaleonti che stazionavano ciascuno su un differente albero nel giardino del Sud Sud non ho fatto molta fatica a incontrarli, perché praticamente sono venuti loro a cercare me. Per la verità, a scovarli fra le fronde è stata Tina, con il suo occhio clinico e addestrato, e se non fosse stato per lei io non li avrei notati. Ecco che si evidenzia una dote in più, in Tina, che la renderebbe una guida turistica, nonché naturalistica, perfetta, se solo non fosse così spaventata dai malaso e non si lasciasse andare un po’ troppo, dal mio punto di vista di occidentale, alla diffusa e naturale pigrizia dei malgasci, che con il lavoro e la fatica hanno un pessimo rapporto. Come tutti gli esseri umani del resto.

Quando abitavo ad Ankilibe andavo tutte le mattine in cerca di fossili e altri fenomeni naturali e mi capitava di trovare anche isangorita, i camaleonti. E così anche nella foresta spinosa di Mangily. E così a Betioki. E perfino su una strada di città di Tulear, dove transitavo in bicicletta e c’era una donna che ne stava scopando fuori dal cortile della sua casa un paio, di discrete dimensioni, spostandoli in mezzo alla strada e non facendo loro, così, un buon servizio, dato che le macchine li avrebbero prima o poi schiacciati, sempre che prima non fossero intervenuti i soliti ragazzini aguzzini a farne scempio. L’unico posto dove non mi è mai capitato di incontrare camaleonti è la capitale Tana, che però in questi giorni, a detta del telegiornale, è alle prese con un fenomeno nuovo, insolito e anche un po’ inquietante: l’invasione delle locuste. I camaleonti, in questi miei viaggi in Madagascar, posso dire di averli fotografati in tutte le salse, ma anche di foto di cavallette ne ho una bella collezione. Camaleonti e cavallette, benché siano piuttosto distanti tra loro sulla scala evolutiva, hanno una cosa in comune: non amano farsi fotografare. Quando se ne trova uno su un ramo, si sposta dall’altra parte, si nasconde, e se per un camaleonte, con i suoi occhietti mobili è comprensibile che ci abbia messo a fuoco, noi e la nostra macchina fotografica, non si capisce come le valala possano accorgersi di noi e capire che siamo un pericolo potenziale, con i loro rudimentali sensi, ovvero con quei loro occhietti minuscoli. Riuscire quindi ad ottenere una bella foto, con un camaleonte o una cavalletta in piena evidenza e non celati dietro qualche rametto, è un’impresa non facile.


 Una cosa che non ho mai capito, delle tante che non capisco del comportamento dei malgasci, è perché il governo abbia istituito un ente per la diffusione del veleno anti-valala quando le valala mavo, cioè le cavallette marroni, costituiscono il cibo per gli abitanti della brousse nei periodi di carestia. Lo fanno, evidentemente, perché uno sciame che atterri su un campo di manioca o di mais distrugge il raccolto in pochi minuti, ma se invece di avvelenarle, con i rischi per l’ambiente e non ultima la salute umana che ciò comporta, le si catturasse e le si destinasse all’alimentazione, come già si fa, sarebbe senz’altro più ragionevole. E io, in questo momento, sto ragionando come un ambientalista e non come un animalista, poiché se dipendesse da me lascerei che le valala mavo si mangiassero i raccolti e istituirei un fondo di indennizzi per gli agricoltori colpiti, come si fa in Europa da anni, e da noi in particolare, con gli indennizzi per i pastori a cui lupi e orsi mangino qualche pecora. Il fondo per indennizzare i contadini malgasci sarebbe facilmente trovato impiegando i soldi con cui vengono comprati lussuosi fuoristrada, usati da funzionari nullafacenti e vanagloriosi, ma chiedere uno scatto di lucidità e di intelligenza, ai funzionari preposti a prendere questo genere di decisioni, è pura utopia.

E’ meglio puntare sulla diffusione di insetticidi, che magari nel mondo occidentale sono proibiti da anni, come il famigerato DDT. E’ meglio lasciare che l’ambiente, terrestre o marino, sia devastato dalle mire speculative di privati piccoli e grandi, di funzionari malgasci e di multinazionali estere. Di sicuro le industrie chimiche che producono gli insetticidi sono contente. E’ meglio lasciare che i cinesi, nuovi arrivati, dettino legge in fatto di sfruttamento dell’ambiente e che si portino via tutte le oloturie, le pinne di squalo, dopo che si è dato il permesso a commercianti europei e americani di raccogliere conchiglie per i collezionisti e pesci tropicali per gli amanti di acquariologia. Per non parlare di giapponesi e coreani che scorrazzano in lungo e in largo nel Canale di Mozambico, spazzolando via tutto ciò che trovano e mettendo in crisi la pesca malgascia di piccolo cabotaggio. Se io fossi un pescatore Sakalava andrei a bruciare l’ufficio governativo del ministero della pesca, oppure non voterei più alle elezioni presidenziali, per farmi prendere in giro regolarmente dal politico di turno. Un anno fa i malaso, per fare un dispetto allo Stato, hanno bruciato la foresta del parco nazionale di Ranomafana. E dunque, i criminali dilettanti distruggono, mentre i criminali professionisti si fanno eleggere al parlamento e distruggono ancora di più.

Le cavallette che in questi giorni, prima volta nella sua storia, hanno invaso Antananarivo, si sono permesse di entrare anche nell’ufficio presidenziale, dopo che pochi giorni fa un corto circuito vi aveva provocato un principio d’incendio (sette funzionari dell’azienda idroelettrica furono interrogati dalla polizia, per questo). Questi eventi fortuiti hanno indotto qualcuno a pensare in senso magico che qualche rivale politico di Monsieur Hery si sia rivolto ad un ombiasy cattivo, affinché facesse gri gri al presidente in carica. Ma qualcuno ancora più superstizioso è arrivato a pensare che, prima il cortocircuito, e poi anche le bibliche cavallette, siano un segno di Zanahary, per nulla contento dell’operato del nuovo presidente. Costoro pensano che Hery non sia l’uomo giusto e che le elezioni di dicembre che lo hanno eletto siano state truccate.

Io, da razionalista occidentale, so che le elezioni, truccate o meno che siano, sono immancabilmente una presa in giro per gli elettori, a cui viene fatto credere di contare qualcosa, mentre in realtà non contano una beata oloturia. So che le invasioni di cavallette si verificavano fin dai tempi dei dinosauri e non hanno portato al pericolo di far scomparire la vita sulla Terra. So che il Madagascar, come altre parti dell’Africa, è da sempre soggetto a questi fenomeni periodici, anche se è strano che si siano spinte fino ai 1700 metri di altitudine media di Antananarivo.
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