martedì 29 giugno 2010

Gli italiani si distinguono anche in Madagascar


I connazionali tengono alto il prestigio del Made in Italy

di ALDO SUNSERI

Antananarivo

Se qualcuno pensasse che in un’ isola dell’oceano indiano non si trova la pasta Barilla, si sbaglia di grosso.

Nel Madagascar abitano numerosi italiani, che tengono alto il prestigio dell’imprenditoria italiana con il loro lavoro altamente qualificato, e mangiano pastasciutta. Negli anni ottanta è arrivata in questo angolo di oceano Indiano la Casagrande di Pordenone, capofila di un consorzio italo-malgascio, che ha costruito sette stabilimenti per la lavorazione di pellami. Due tra questi erano stati presi direttamente in gestione dalla società friulana e davano lavoro a circa trecento famiglie. Ma le continue lotte per il potere che si sono susseguite in questi anni, hanno generato una tale instabilità politica tanto da costringere la Casagrande a prendere la decisione di abbandonare l’isola. Nonostante tutto il direttore generale della filiale del Madagascar ha scelto di restare per continuare il lavoro della casa madre, dopo essersi dimesso dal suo ruolo e dopo aver acquistato dalla sua ex-azienda i macchinari necessari a riavviare il ciclo produttivo. Si tratta di Pietro Marangi, che oggi ha trasferito la sua industria ad Antananarivo ed esporta in tutto il mondo le pelli conciate, rappresentando uno degli esempi più insigni dell’imprenditoria nostrana all’estero. I prodotti usati per la lavorazione delle pelli arrivano regolarmente dall’Italia, ed è per questo che riesce a produrre nella sua conceria pelli finite di alta qualità. Marangi ha già ricevuto la cittadinanza malgascia ed è sposato con una donna del posto,Anita. Ha tre figli che parlano italiano, francese e malgascio.

Ma le storie dei nostri connazionali in Madagascar non finiscono qui. Paolo Murri è rimasto nei cuori della popolazione autoctona, in quanto la sua impresa “Murri Freres” ha costruito e asfaltato le prime strade locali con i mezzi arrivati dalla penisola. Purtroppo, dopo la sua morte, avvenuta nel 2002, gli eredi non hanno continuato la sua attività, sebbene la moglie Vittoria con tenacia e caparbietà riesca ancora ad alimentare lo staff della sede di Nosy Be per non abbandonare i suoi impiegati. Per non parlare di Maurizio Mastracci, originario di Ceprano, che ha aperto il primo ristorante italiano dove si possono gustare spaghetti e lasagne al forno: la sua attività si trova al centro della capitale,a pochi metri dell’Ambasciata degli Stati Uniti. Accanto al ristorante,Mastracci sta per completare il suo albergo arredato con gusto tipicamente italiano dove troveranno posto circa ottanta clienti, tra i quali anche nostri connazionali. Ma il nostro excursus non può tralasciare Umberto Lanza, che da più di sedici anni risiede a Antananarivo ed è il direttore generale della società di marmi la Magrama, salita agli onori delle cronache in occasione della sciagura aerea nella quale gli amministratori della società hanno perso la vita. Le cave della società, situate vicino Tulear, producono un marmo molto pregiato e richiesto in tutto il mondo: il labradorite.

Un altro italiano insigne è, senza dubbio, Gianfranco Bruscagnin, un geometra veneto purosangue. A Mestre progettava arredamenti per imbarcazioni da diporto, ma da quando si trova in Africa le sue attività sono decisamente diversificate: vanno dalla trasformazione di legni preziosi (ebano) per componenti di strumenti musicali su Tamatave, alle lavorazione e trasformazione di oggettistica in pietre e quarzi locali, passando per l’import di prodotti alimentari italiani che vende alla grande distribuzione. Sul versante femminile, se c’è una donna che dovrebbe portare i pantaloni, questa è Anita Cossettini, alla quale è affidata la direzione del porto di Tulear, che dopo Tamatave è il più importante del sud del Paese. È un vero e proprio pioniere del posto, perché risiede qui da più di venti anni, nel corso dei quali ha ricoperto anche la carica di console italiano dove si è guadagnata la stima di tutti i suoi connazionali. Anche tra gli ordini religiosi l’Italia può dire la sua. Nel giugno 2006 Padre Alberto Pesce ha festeggiato il suo 60° anniversario di sacerdozio dell’Ordine Trinitario in Madagascar. In quella occasione al sacerdote è stata conferita l’alta onorificenza di “Grande Croce dell’Ordine Nazionale”, consegnatagli dal Presidente della Repubblica Marc Ravolamanana, per l’impagabile sostegno materiale e morale fornito sotto la guida dell’arcivescovo Monsignor Odon Marie Arsène Razanakolona. Una cospicua comunità di religiosi italiani, infatti, è giunta in Madagascar dopo l’indipendenza e la successiva partenza dei missionari francesi. IL sacerdote, nato 83 anni or sono a Noicattaro in provincia di Bari, è stato ordinato sacerdote a Roma il 20 aprile 1946 e da allora svolge un’infaticabile opera di missionario, prestando servizio presso le diocesi di Ambatondrazaka e di Antananarivo. Padre Pesce, chiamato da tutti in malgascio Dadabè (“il nonno”), ha presenziato le due cerimonie con la sua tradizionale vitalità e in perfetta forma. Oltre ai connazionali italiani, erano presenti parecchie comunità e congregazioni giunti per l’occasione da tutta l’isola. Loro, a differenza dei francesi che si esprimevano solo nella loro lingua, hanno appreso la lingua malgascia per essere più vicini ai bisognosi. Il riconoscimento ricevuto da Padre Alberto Pesce assume una grande rilevanza per il fondamentale lavoro di sostegno materiale, morale e religioso che in tutti questi anni è stato elargito dai missionari italiani al popolo malgascio cattolico attualmente guidato dall’Arcivescovo Razanakolona. Per non parlare, poi, dello straordinario lavoro svolto dalle suore italiane che hanno creato scuole in tutto il paese e si sono prese cura di molti ospedali. Insomma, possiamo andare fieri e orgogliosi anche degli italiani residenti qui, in questo posto incantevole. La loro volontà e il loro ingegno sono espressione dell’italianità anche in Madadagascar.

DAL MADAGASCAR L’AIM SI ASSOCIA ALLA PROTESTA DELL’INAS SULLA “NO TAX AREA”


ANTANANARIVO\ aise\ - Anche l’AIM, l’Associazione Italiani in Madagascar, si unisce alla denuncia dell’INAS (vedi aise del 21 settembre h.18,22) in merito alla reintroduzione della “no tax area” per gli immobili posseduti in Italia dai nostri connazionali all’estero ad opera del Decreto Bersani – Visco. In una lettera aperta al Presidente dell’Inas Cisl, Giancarlo Panero, l’AIM sottolinea che per i numerosi italiani che vivono in Madagascar con una misera pensione INPS, questa ulteriore imposizione fiscale dello Stato Italiano crea seri problemi di sopravvivenza. Esistono parecchi connazionali che, per non mettere in atto quel taglio del cordone ombelicale con la Madre Patria, possiedono ancora l’abitazione in Italia per poterci forse un giorno ritornare” e che “essendo a conoscenza delle ulteriori imposizioni fiscali riservate ai soli residenti all’estero, potrebbero prendere la decisione di lasciare definitivamente l’Italia e quindi di vendere il bene immobile”.

Con la presente protesta – si legge ancora nella lettera – intendiamo dire “GRAZIE” al Governo Italiano per il trattamento che riserva agli emigrati che, essendo esuli per evidenti motivi di lavoro e di sopravvivenza, continuando anche a pagare le tasse in Italia, senza viverci, vengono colpiti da una ingiusta disparità”.

Facciamo presente – aggiungono dall’AIM – che il Madagascar, essendo un paese extraeuropeo, non ha una convenzione bilaterale con l’Italia per evitare la doppia tassazione, e quindi è una imposizione che riguarda tutti gli italiani. Purtroppo, gli emigrati non sono rappresentati da un sindacato e non hanno avuto la possibilità di fare parte della piattaforma con cui il Signor Prodi ha concordato le varie norme del decreto 223”

Sarebbe gradito – concludono – che gli organi preposti al collegamento degli italiani all’estero con il Governo, e ci riferiamo in particolare al CGIE, che in questi giorni sta svolgendo il proprio lavoro a Roma, si facesse portavoce con il governo di questa protesta” (aise)

L’AIM TORNA A CHIEDERE UNA RAPPRESENTANZA DIPLOMATICA ITALIANA IN MADAGASCAR


ANTANANARIVO\ aise\ - Si è tenuta ieri, 11 gennaio, ad Antananarivo una conferenza stampa dell’Associazione degli italiani in Madagascar, intervenuta per porre all’attenzione generale la questione dell’assenza in Madagascar di una rappresentanza diplomatica italiana.
Dal mese di giugno 2005, infatti il Consolato Onorario ha cessato la sua attività, dopo aver preso il posto dell’Ambasciata Italiana, chiusa a giugno del 2000. In particolare, l’AIM, “che oggi annovera circa 600 aderenti, fondata per volontà di una dozzina di emigrati italiani con l’intenzione di riunire in gruppo i numerosi compatrioti residenti in Madagascar e condividere con loro le esperienze di vivere nella Grande Isola”, “riconosciuta dal Ministero degli Interni Malgascio il 4 settembre 2006”, durante la conferenza di ieri ha voluto ribadire il proprio scopo: “quello di essere un punto di riferimento per i concittadini italiani residenti e per turisti italiani che si trovano temporaneamente in Madagascar; di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica italiana e malgascia sulla vita e sui problemi riscontrati dalla comunità italiana; facilitare i contatti tra gli italiani che si trovano sparsi in tutto il territorio malgascio; promuovere la conoscenza della cultura italiana nel Paese”. “La nostra segreteria, - è stato ribadito – con comunicati settimanali, tiene aggiornati i connazionali sugli avvenimenti più importanti italiani, per mantenere vivo e attivo il legame con la Madre Patria. L’AIM è già intervenuta, appoggiando una iniziativa delle Associazioni che rappresentano i cittadini residenti all’estero, a proposito di un decreto legge del Governo italiano, sulla “No Tax Area”, in cui erano presi di mira con pesanti tasse i residenti all’estero sia pensionati che possessori di beni immobili; a seguito di questa protesta, il decreto legge è stato annullato”. “L’AIM – è stato aggiunto – è stata chiamata in parecchie occasioni a dare soccorso e aiuto ai connazionali. Non ultimo, si è adoperata nella sciagura aerea di Tulear, dove hanno perso la vita tre italiani”. Tuttavia, ha tenuto anche a precisare “questi interventi sono di competenza di una rappresentanza diplomatica e non di una associazione”.
“Gli italiani – scrive Aldo Sunseri, Segretario Generale AIM – si sentono orfani della loro Madre Patria, anche se possono usufruire, in qualità di membri dell’Unione Europea, secondo il trattato di Maastricht, dell’assistenza di uno Stato europeo presente nel Paese. Il Governo italiano, ha stipulato un accordo con l’Ambasciata di Francia, che malgrado tutta la sua buona volontà e impegno, non può risolvere che una piccola parte dei problemi degli italiani, non potendo essere a conoscenza delle problematiche legate alla burocrazia di un altro Paese. L’Ambasciata Italiana territorialmente competente per il Madagascar è l’Ambasciata del Sud Africa con sede a Pretoria, ma i rapporti, data la lontananza, sono molto difficoltosi”.
“Noi – aggiunge – desideriamo far conoscere al Governo, alla gente malgascia e agli italiani questa situazione e i disagi cui siamo costretti da circa due anni. La nostra protesta sull’assenza della rappresentanza diplomatica in Madagascar e stata già inviata a Pretoria e a Roma, ed è stata anche pubblicata da parecchi giornali italiani. Abbiamo appreso da fonti ben informate che il Governo italiano ha già proposto al Governo malgascio il nome della persona che dovrebbe coprire il posto di Console Onorario d’Italia in Madagascar. Per conseguenza, chiediamo al Governo malgascio di volere esaminare il dossier riguardante la nomina del Consolato Onorario. Preghiamo pertanto il Presidente Marc Ravalamana di prendere in esame la nostra situazione con la massima sollecitudine”.
“Noi – precisa ancora Sunseri – teniamo a segnalare che la comunità italiana residente in Madagascar annovera anche dei connazionali che hanno ottenuto la nazionalità malgascia e altri che sono stati insigniti con alte onorificenze dallo stato malgascio. Non dimentichiamo le numerose imprese di italiani nei diversi settori che danno lavoro a migliaia di malgasci, oltre alle numerosissime congregazioni religiose che danno un valido aiuto alla comunità”. “Il popolo italiano residente in Madagascar, - conclude – oltre a tenere alto il prestigio dell’imprenditoria italiana nelle molteplici attività intraprese nel Paese, dà lavoro a migliaia di malgasci, contribuendo allo sviluppo economico e sociale. Noi abbiamo la convinzione che con la nomina della nuova Rappresentanza diplomatica Italiana potranno migliorare i rapporti con l’Italia per un interesse comune”.
(aise)

Storie di periferia

ANTANANARIVO – L’Associazione Italiani in Madagascar torna a denunciare i forti disagi che gli italiani in Madagascar devono affrontare per sbrigare le più comuni pratiche burocratiche a causa della mancanza di un’ambasciata italiana in loco.
“Il Ministero degli Affari Esteri italiano – ricorda l’AIM – ha deciso nel giugno 2000 di chiudere l’Ambasciata Italiana in Madagascar per ragioni di bilancio, dando incarico all’Ambasciata di Pretoria (Sud Africa) di occuparsi anche del Madagascar tramite un consolato onorario, che proprio perché onorario, non può che espletare dei servizi minimi di passa carte con l’Ambasciata del Sud Africa, lasciando i connazionali italiani in grave difficoltà quando devono risolvere problemi di carattere consolare”. Una situazione molto grave in un’ “isola grande due volte l’Italia”, dove “vivono e lavorano circa 2mila italiani: fra laici, impegnati in varie attività (dal turismo all’industria mineraria, dall’artigianato alla ristorazione) e circa 500 religiosi, preti e suore, impegnati in attività educative e caritative. Poiché il Madagascar – afferma l’associazione – è una meta preferita dal turismo italiano, il Paese vede aumentare ogni anno il flusso di turisti: quindi la presenza media mensile di italiani può essere valutata mediamente a circa 2.500 persone”.
“La semplice iscrizione all’AIRE – prosegue – o la registrazione di una nascita o un matrimonio o il rinnovo di un passaporto o un visto per un coniuge che non ha ancora la nazionalità italiana, diventa una pratica molto difficoltosa perché bisogna inviare la documentazione a Pretoria, in Sud Africa; senza parlare dei problemi più gravi che sorgono in caso di decesso e rimpatrio delle salme. Se poi un turista perde i documenti è una vera tragedia.
Di questi disagi è stato più volte informato il nostro Governo, sono state promosse interpellanze parlamentari, petizioni alla Farnesina al Ministero degli Esteri, ai vari Ministri per gli italiani nel mondo. Abbiamo chiesto più volte, non la riapertura dell’Ambasciata, ma semplicemente un piccolo consolato di carriera, che possa rispondere su piazza alle necessità consolari degli italiani residenti, fra cui la possibilità di esercitare il diritto di voto. Questo consolato non avrebbe nemmeno il problema della sede, in quanto l’Italia possiede ad Antananarivo, capitale del Madagascar, uno stabile, ex sede dell’Ambasciata, che rimane lì chiusa e in rovina sin dall’anno 2000”.
“Le risposte – precisa l’AIM – sono state sempre diplomatiche, e di rinvio a tempi migliori, poiché le famose necessità di bilancio non permettono di sostenere il costo di un consolato che si aggirerebbe a circa 200mila euro annui. Si fa però notare, che come previsto dalla legge sul diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero (legge 459/01 art. 20), non essendoci un consolato qualificato, chi volesse votare deve rientrare in Italia e avrà diritto al rimborso del 75% del biglietto aereo”. “I funzionari della Farnesina – secondo l’AIM – saranno dei bravi diplomatici, ma non sono altrettanto forti in matematica. Il costo del biglietto aereo dal Madagascar per l’Italia, che è una tratta tra le più care al mondo, infatti, in bassa stagione turistica costa circa 700 euro. Tralasciando la considerazione che le date delle elezioni non sono scelte sulla base dell’alta o bassa stagione. Per andare a votare, il nostro governo deve rimborsare ad ogni cittadino italiano, come minimo, la somma di circa 525 euro, corrispondente al 75% del biglietto aereo. Ipotizzando che un 40% dei residenti decidesse di recarsi in Italia per votare, il Ministero dovrebbe sostenere una spesa pari a 420mila euro. Nel 2006, ci sono state le Elezioni Politiche ed il Referendum, per cui lo Stato Italiano ha speso circa 840mila euro. Conclusione: per una manifesta mancanza di fantasia, i ragionieri della Farnesina preferiscono spendere dai 400mila agli 800mila euro all’anno solo per il diritto di voto, piuttosto che spenderne 200mila e dare un servizio completo ai connazionali”.
“Pensiamo – conclude l’associazione – che ogni commento sia superfluo”.

IT.CARD Il bluff del Governo Italiano

ROMA, 2007(Italia Estera) – Da Aldo Sunseri Segretario Generale Associazione Italiani in Madagascar http://www.aim.mg riceviamo e pubblichiamo:

Il 28 maggio scorso alle ore 11,30, il Vice Ministro Danieli ha presentato alla stampa mondiale la “it.card” con lo slogan “Per vivere più Italia”. La card, rilasciata gratuitamente dagli uffici consolari, permette ai connazionali all’estero che si recano in Italia di fruire di una serie di benefici su una vasta gamma di servizi, “auspicabilmente” ampliati in futuro. Noi italiani, che viviamo in Madagascar, siamo venuti in possesso della it.card solamente a fine agosto; l’isola in cui viviamo è nell’oceano Indiano ed un container spedito dall’Italia impiega circa un mese per raggiungerla, ma per le it.card sono stati necessari tre mesi!

Lo scrivente, che è il Segretario Generale dell’Associazione Italiani in Madagascar, si è recato in Italia il 15 settembre, arrivato alla stazione Centrale di Milano alle ore 20, si è presentato alla biglietteria con la it.card, chiedendo lo sconto sull’acquisto di un biglietto ferroviario per Venezia. L’addetto alla biglietteria, dopo aver controllato, afferma che non è previsto alcuno sconto con quella carta.Vista la mia insistenza e avendo mostrato il depliant, dove TRENITALIA sta al primo posto nella Guida dei servizi, il bigliettaio va a chiedere ragguagli al Capo Servizio e subito dopo mi conferma che con quella carta non ho diritto ad alcuno sconto ne’ agevolazione. Dopo alcuni giorni ho ripresentato la it.card alla biglietteria della stazione di Mestre, ed ho avuto la stessa risposta di Milano: “ Con questa carta non ha diritto ad alcuna agevolazione”.

Signor Vice Ministro, noi del Madagascar siamo ormai abituati ad essere trattati da cittadini italiani di seconda categoria, in quanto è da più di due anni che il nostro governo ci lascia abbandonati senza alcuna rappresentanza diplomatica, ma essere presi in giro in questo modo ci da proprio fastidio.

La nostra associazione ha distribuito agli italiani residenti in Madagascar 60 it.card con allegato il foglietto illustrativo “Guida ai servizi”

TRENITALIA sta al primo posto nella Guida ai servizi e sta scritto: <Agevolazioni sui trasferimenti ferroviari >

Vorremmo sapere: “Ai connazionali a cui abbiamo consegnato le it.card ed ai connazionali di tutto il mondo, cosa dobbiamo dire ?”

Sul depliant che è stato consegnato unitamente alla carta viene riportato:

La presente carta di sconto denominata IT.CARD, permette di usufruire in Italia e all’estero di una vasta gamma di benefici fruibili a semplice presentazione della stessa .

Per favore Senatore Franco Danieli, ci dica quali sono questi benefici. (Italia Estera).

C’è voluto quasi un anno, ma la risposta è arrivata, eccola:

Ambasciata d’Italia

Pretoria

Si trasmette qui di seguito, con preghiera di darne la massima diffusione tra i connazionali, una comunicazione relativa ad una modifica alle procedure per poter accedere ai benefici concessi ai possessori delle it.card.

Con effetto immediato i titolari delle it.card potranno recarsi direttamente nelle biglietterie ferroviarie e nelle agenzie di viaggi convenzionate ed ottenere biglietti scontati del 20% mediante esibizione della propria tessera e di un documento di identita’ in corso di validita’.

Trenitalia ha inoltre deciso di estendere alcuni vantaggi prevedendo sia l’abolizione dei limiti di eta’ per ottenere lo sconto di cui trattasi sia la limitazione dei posti disponibili su talune tratte.

Pretoria, 02.09.2008

l’Incaricato d’Affari a.i.

(Marco Giungi)

"PERCHE' DISDIRE LA CONVENZIONE SCONTO IT CARD FERROVIE DELLO STATO"

DAL MADAGASCAR

Lettera aperta al Direttore di Trenitalia

Gentile Direttore di Trenitalia, lo scrivente è un italiano che da parecchi anni vive all'estero e che ha plaudito per l'iniziativa che l'allora Ministro degli Italiani all'Estero Senatore Franco Danieli aveva avuto nel presentare alla stampa la it.card, anche se è dovuto passare più di una anno per essere riconosciuta dal personale di TRENITALIA e avere concesso ai possessori uno sconto del 20%."Lo scrive Aldo Sunseri Segretario Generale Associazione Italiani in Madagascar il quale chiede conto al Direttore di Trenitalia
Infatti, è dell'ottobre 2008 una mia protesta con una lettera aperta inviata tramite la stampa al Ministro Danieli che trascrivo integralmente qui di seguito: il 28 maggio scorso alle ore 11,30, il Vice Ministro Danieli ha presentato alla stampa mondiale la "it.card" con lo slogan "Per vivere più Italia".
La card, rilasciata gratuitamente dagli uffici consolari, permette ai connazionali all'estero che si recano in Italia di fruire di una serie di benefici su una vasta gamma di servizi, "auspicabilmente" ampliati in futuro.
Noi italiani, che viviamo in Madagascar, siamo venuti in possesso della it.card solamente a fine agosto; l'isola in cui viviamo è nell'oceano Indiano ed un container spedito dall'Italia impiega circa un mese per raggiungerla, ma per le it.card sono stati necessari tre mesi!
Lo scrivente, che è il Segretario Generale dell'Associazione Italiani in Madagascar, si è recato in Italia il 15 settembre, arrivato alla stazione Centrale di Milano alle ore 20, si è presentato alla biglietteria con la it.card, chiedendo lo sconto sull'acquisto di un biglietto ferroviario per Venezia.
L'addetto alla biglietteria, dopo aver controllato, afferma che non è previsto alcuno sconto con quella carta.Vista la mia insistenza e avendo mostrato il dépliant, dove TRENITALIA sta al primo posto nella Guida dei servizi, il bigliettaio va a chiedere ragguagli al Capo Servizio e subito dopo mi conferma che con quella carta non ho diritto ad alcuno sconto ne' agevolazione. Dopo alcuni giorni ho ripresentato la it.card alla biglietteria della stazione di Mestre, ed ho avuto la stessa risposta di Milano: " Con questa carta non ha diritto ad alcuna agevolazione".
Signor Vice Ministro, noi del Madagascar siamo ormai abituati ad essere trattati da cittadini italiani di seconda categoria, in quanto è da più di due anni che il nostro governo ci lascia abbandonati senza alcuna rappresentanza diplomatica, ma essere presi in giro in questo modo ci da proprio fastidio.
La nostra associazione ha distribuito agli italiani residenti in Madagascar 60 it.card con allegato il foglietto llustrativo "Guida ai servizi" TRENITALIA sta al primo posto nella Guida ai servizi e sta scritto: "Agevolazioni sui trasferimenti ferroviari "
Vorremmo sapere: "Ai connazionali a cui abbiamo consegnato le it.card ed ai connazionali di tutto il mondo, cosa dobbiamo dire ?"
Sul dépliant che è stato consegnato unitamente alla carta viene riportato: "La presente carta di sconto denominata IT.CARD, permette di usufruire in Italia e all'estero di una vasta gamma di benefici fruibili a semplice presentazione della stessa . Per favore Senatore Franco Danieli, ci dica quali sono questi benefici."
Dopo circa un anno dalla pubblicazione di questo scritto, l'Ambasciata Italiana di Pretoria ci comunica:
“Con effetto immediato i titolari delle it.card potranno recarsi direttamente nelle biglietterie ferroviarie e nelle agenzie di viaggi convenzionate ed ottenere biglietti scontati del 20% mediante esibizione della propria tessera e di un documento di identità in corso di validità.
Trenitalia ha inoltre deciso di estendere alcuni vantaggi prevedendo sia l’abolizione dei limiti di età per ottenere lo sconto di cui trattasi sia la limitazione dei posti disponibili su talune tratte."
Afferma, poi, Sunseri "Molti nostri connazionali in questo periodo essendosi recati in Italia hanno usufruito di questo sconto e hanno spesso preferito viaggiare nel romantico treno anziché volare".
Oggi, ci giunge notizia che “Trenitalia SpA, Ente associato al progetto IT Card ha disdetto la convenzione con IT Card dal 31/12/2009. I titolari della IT card non potranno quindi più’ usufruire dei vantaggi derivanti dalla predetta Convenzione a partire dal 01/01/2010”. Gli italiani residenti all'estero sanno benissimo che non sono più trattati come italiani, anche se in tanti continuano a pagare le tasse in Italia senza usufruire dei benefici dei residenti, ma che una iniziativa tanto lodevole, come quella della it.card, dopo appena un anno dall'entrata in vigore venga abolita è veramente una pulcinellata non degna di un ente che si chiamava Ferrovie dello Stato, in cui lo Stato eravamo noi italiani."(27/11/2009-ITL/ITNET)

domenica 27 giugno 2010

IL FARITANY DI TULEAR

LA COSTA DEI PESCATORI VEZO

(da Speciale Madagascar i Quaderni di Berenice)

Quando, nell’estate del 1986, ricevetti una telefonata, con la quale mi veniva richiesta la disponibilità per assumere la responsabilità scientifica di un progetto per l’aiuto alla pesca artigianale nel Faritany di Tuléar in Madagascar, chiesi un giorno di tempo per rispondere.

Immediatamente dopo, esaminai con cura cartine e documenti della mia biblioteca, tentando di capire di quale angolo di quella enorme isola si trattasse: era il grande sud, che sulla mappa appariva quasi sprovvisto di vie di comunicazione. Un’ulteriore telefonata: un mese per sistemare i lavori in corso in Italia, presso il mio istituto di ricerca a Messina poi via, di nuovo in Africa dove ero cresciuto.

In effetti con una buona dose di incoscienza, avevo accettato uno dei lavori più affascinanti che io abbia fatto sinora. Si tratta di fornire alla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri uno strumento-quadro per programmare eventuali aiuti al settore della pesca artigianale in una delle zone teoricamente più depresse del Paese ma, anche, quella con le maggiori prospettive di sviluppo.

Certamente, le mie precedenti esperienze africane e l’assoluta predisposizione a coinvolgermi in culture diverse, con il massimo rispetto per le stesse, mi hanno fatto programmare ed eseguire questo lavoro in maniera tale da ottenere risultati interessanti.

Quando sono arrivato per la prima volta ad Antananarivo, sull’altopiano malgascio, era un caldo pomeriggio d’agosto del 1986 e la prima che mi colpì fu l’atmosfera che mi circondava e gli atteggiamenti della gente.

L’atmosfera del Madagascar è “magica”: è fatta di sensazioni forti, di odori, di colori e di suoni, ma è l’insieme che la rende diversa dalle tante situazioni similari che si hanno in vari punti del continente africano.

È l’isola continente, nel suo essere tale, pur nel suo gigantismo, a svolgere un ruolo chiave, racchiudendo quest’atmosfera tra i mari che la circondano. Le specie animali e vegetali che la abitano ed i forti contrasti del suo paesaggio non fanno altro che accrescere le sensazioni.

La gente, poi, è incredibile: i malgasci, strana mescolanza di almeno 18 etnie locali e di un numero imprecisato di apporti genetici stranieri, ha una vitalità ed una gentilezza difficilmente riscontrabili in altri popoli. Gli sguardi intensi e vivaci, hanno nei bambini una espressione di felicità e curiosità incredibili.

Eppure, la maggior parte dei malgasci ha una vita non facile e l’economia del paese è una delle più povere e disastrate del mondo, nonostante il Madagascar non sia assolutamente povero di risorse naturali.

Qui, infatti, la natura è stata creativa e generosa: c’erano foreste immense e ricche di specie vegetali ed animali, mancano completamente gli animali feroci , ci sono essenze arboree preziose (quali il teak, il palissandro, l’ebano e il legno di ferro) la frutta ha una varietà cospicua ed è saporitissima, verdure e cereali richiedono tanto lavoro, ma crescono bene, gli zebù sono presenti ovunque e hanno carni gustose, il terreno è ricco di minerali e di giacimenti di pietre preziose e semi-preziose, il Canale di Monzambico nasconde giacimenti di petrolio, le acque che circondalo l’isola sono ricche di pesci e di crostacei , solcate da capidogli, balene e delfini.

Molte tra le specie animali e vegetali che vivono nell’isola-continente sono endemiche ed esclusive ed alcune hanno forme bizzarre: l’Ave-Aye, il lemure notturno dal grande dito, ne è il simbolo più rappresentativo. Tra le 12 specie di baobab conosciute, ben 10 sono tipiche del Madagascar, mentre lemuri e camaleonti hanno qui la loro terra ideale.

Eppure, il Madagascar aveva ed ha una economia disastrata, che lo pone tra gli ultimi paesi al mondo in termini di reddito. I pirati prima, le grandi potenze poi, i regimi corrotti e collegati ad interessi stranieri più recentemente, hanno fatto sì che questa isola ricchissima accumulasse un’enormità di problemi, dove quelli ambientali non sono tra gli ultimi.

Ben l’80% della foresta primaria originale è ormai scomparsa, scoprendo il suolo e rendendolo improduttivo dopo qualche anno,: le risaie producono un riso di buona qualità ma costituiscono un luogo ideale per le zanzare ed il Madagascar ha tutti i ceppi di plasmodio conosciuti, anche i più letali; i parassiti sono diffusissimi, così come molte malattie tropicali, portando l’aspettativa di vita, allora sotto i 27 anni.

Ecco, tutto questo insieme mi avvolge completamente, quel lontano giorno del 1986.

Guidavo una missione composta da un ingegnere(Giorgio) e da un logistico (Giuliano), quest’ultimo molto esperto di paesi difficili. Avevamo scelto di non abitare in albergo, ma di affittare un piano di una palazzina nel centro di Antananarivo, di proprietà di un inglese un po’ matto (Mike Swatton), a pochi passi dal palazzo presidenziale, per sentirci a casa e per compenetrarci meglio nella realtà locale. Arrivammo lì che era già tardo pomeriggio e l’accoglimento del personale di servizio (tantissimi !) ci fece dimenticare il lungo viaggio.
Pian piano iniziammo a predisporre la missione: grazie a Mike, superammo infiniti ostacoli ministeriali, fatti spesso di burocrazia apparentemente complessa.

Ci richiesero una quantità inimmaginabile di foto-tessera: ne servivano otto per ogni permesso o qualunque documento e penso che ce ne siamo ancora mucchi delle mie in chissà quanti uffici pubblici malgasci.

L’Ambasciatore italiano ci accolse familiarmente, così come le funzionarie dell’Ambasciata, gentili e carine: eravamo un gruppo un po’ atipico e squinternato tanto che una di loro ci prestava spesso la sua jeep con targa diplomatica, per i nostri giri serali cittadini.

Nell’affitto della casa era prevista anche una vecchia jeep Toyota Land Cruise passo lungo, serie anni 50, di colore arancio scuro, con il tetto bianco: tutti la conoscevano a Tanà e diventò la nostra compagna fedele di tanti giorni e notti in città.

Con molta pazienza, dopo aver ottenuto montagne di permessi e l’appoggio della Direzione Generale delle Acque e delle Foreste, organizzammo la spedizione sul terreno che doveva esplorare in dettaglio l’intera costa del FARITANY DI TULEAR.

Una mattina alle primissime luci dell’alba, iniziammo la nostra lunga avventura: avevamo una jeep Toyota Land Cruise passo lungo, nuova, e con aria condizionata, seguita da un camioncino 4x4 Kia, entrambe cariche di carburante, tende, attrezzature e viveri in quantità sufficiente per oltre 45 giorni. L’equipaggio era formato, oltre a Giuliano, Giorgio e me, da un personaggio incredibile , il cuoco (Papa), un vecchio malgascio sopravvissuto a se stesso, altissimo, magro ieratico e dalla risata contagiosa , un autista portoghese, certamente figlio di parenti di pirati ed un secondo autista malgascio.

Decidemmo di iniziare dalla parte più a nord del Faritany, ponendo una prima tappa a Morondava, sul canale di Monzambico, alla foce del fiume omonimo. Costeggiando il massiccio dell’Ankaratra (2642 m), iniziammo a percorrere l’altopiano in direzione sud, passando per Ambatolampy, cittadina famosa per le cascate e, soprattutto, per i gamberi di fiume e le rane, dirigendoci poi per Antsirabe, la vecchia residenza del re. Da qui, seguimmo la strada verso est, iniziando la lunga discesa verso la costa.

L’altipiano malgascio è un susseguirsi di boschetti e di risaie, di alti alberi e vestigia di una foresta che c’era, con rilievi ricoperti di terra rossa, spesso solcata ferocemente dall’acqua che da un aspetto rugoso al terreno. La abitazioni sono particolari, spesso a più piani, fatte di mattoni crudi e rivestiti di terra rossa, con piccole finestre e tetti di paglia. Qualcuno ha sostituito la paglia con la lamiera ondulata: ne fanno un punto d’orgoglio, ma la casa non respira più. La gente ha abiti colorati, spesso con copricapo piccoli, che qualche volta ricordano quelli andini. La musica non è rara: si sentono flauti e strumenti a corda, ma anche piccoli tamburi. Sono nenie struggenti e dolci, che si sposano benissimo con l’ambiente e che danno la misura del modo di vivere di questa gente.

Ad un certo punto, passiamo accanto ad una sorta di processione, fatta di gente che balla e che suona, vestita con colori allegri, ma alcuni trasportano un corpo avvolto in teli: si tratta di una cerimonia animistica tipica del Madagascar, che consiste nel disseppellire il congiunto defunto, cambiare i teli che lo avvolgono e portarlo in giro per il villaggio, per tenerlo al corrente delle novità, una cerimonia che si conclude solitamente con il sacrificio di uno zebù, mangiato da tutto il villaggio.

Proseguiamo sulla strada, sorpassando camion Mercedes che un tempo erano di colore verde scuro, carichi oltre ogni possibile immaginazione, nascosti da cortine fumogene che vengono dagli scappamenti esausti.

Nella discesa verso la costa, passiamo sul lungo fiume Mania, laddove questo si congiunge con il Tsiribihina, dando luogo ad un corso ampio e ricco d’acqua con larghe pozze ove si concentrano uccelli acquatici ed anfibi. Prima di arrivare a Morondava, attraversiamo vaste distese di alberi isolati e di palme, suggestivi nella luce del tramonto.

Morondava è un porto importante per la comunità Vezo, i pescatori nomadi del sud del Madagascar: qui c’è un cantiere navale, ove si costruiscono barche a vela, con uno o due alberi, per il trasporto delle merci sul piccolo cabotaggio e, in prossimità del cantiere, c’è anche una grande cella frigorifera, gestita allora da una piccola società franco-malgascia, dove viene accumulato e smistato il pesce portato dalle piroghe.

Lungo la riva destra della foce del fiume Morondava c’è il villaggio dei pescatori Vezo, con le loro capanne, le loro attività e i loro mastri d’ascia.

Qui vengono costruite le famose piroghe: ci sono quelle Monoxile, scavate in un unico tronco, lunghe, strette e filanti, atte a contenere da uno a due pescatori, con loro corpi leggeri ed atletici. Vengono utilizzate per la pesca costiera, sia con reti da posta che con lenze a mano, ma anche lungo i corsi d’acqua più calmi e nelle lagune. Manovrarle richiede doti di equilibrio notevoli e devono sperare di non avere mai problemi. All’epoca una piroga del genere, ben fatta e con un remo, costava l’incredibile cifra di circa 5 dollari. Ma le piroghe più belle sono quelle tradizionali a bilanciere, ove si concentrano secoli di sapere marinaresco. Su uno scafo monoxile di base, vengono poi aggiunte delle tavole da murata, alle quali si aggancia, con un complesso sistema di legature ed incastri, il pesantissimo bilanciere, fatto in legno massiccio e duro. Al centro della piroga si colloca una strana tavola a cinque fori, nei quali vengono posti i due pali che sorreggono la vela. Le manovre si attuano cambiando la posizione dei due “alberi” tra i fori. La vela è spesso una semplice “lamba”, il telo di cotone multiuso tipico dell’abbigliamento malgascio: serve da pareo per le donne, per trattenere al corpo i bimbi più piccoli, per trasportare merci ed oggetti, come coperta leggera, e, anche, come vela.

Queste piroghe sono caratteristiche dei pescatori Vezo: si vedono filare veloci lungo la costa o al largo, con le piccole vele. Quelle di dimensioni minori sono utilizzate per la pesca, altre più grandi per il trasporto del pesce dai villaggi alle zone di concentrazione del pescato, quelle molto grandi servono da trasporto merci o per le occasioni in cui l’intero villaggio decide di spostarsi, inseguendo i pesci lungo le loro rotte.

L’attività del villaggio Vezo di Morondava è quella tipica, con le piroghe che prendono il largo alle prime luci del giorno ed i pescatori che rientrano nel pomeriggio con il loro carico di pesce, che viene poi trasportato dalle donne. I grossi pesci vengono portati in equilibrio sulla testa, talvolta con un seguito di bimbi festanti.

All’epoca Morondava aveva due alberghi, uno fatto di bungalow tra le palme, gestito da un francese (dove noi alloggiammo, per via dell’ottimo cibo, e l’altro, il Grand Hotel (!!!!), gestito dall’inglese, che ci ospitava a Tanà. Questo albergo era tipicamente coloniale, in legno e con arredi tipici malgasci, ma il suo confort era più che discutibile, così come le frequentazioni: l’ampia hall era affollata di giovanissime donne, talvolta avvolte nei loro coloratissimi lambauani dentro strettissime T-shirt di cotone, souvenir di precedenti “amici” europei. L’atmosfera era allegra, seppure ricoperta da un manto di umida decadenza, nella penombra costante, rotta dal lento roteare delle pale del ventilatore a soffitto.

Questo primo contatto con la comunità Vezo ci introdusse immediatamente nel loro mondo, fatto di conoscenza di mare e delle specie, di credenze e paure, di lunghe giornate solitarie in mare e da notti intorno al fuoco. Importanti e preziose per il nostro lavoro furono le chiacchierate, tramite il nostro interprete, con il presidente dei pescatori del villaggio e con i mastri d’ascia, persone che conoscevano in dettaglio la vita anche delle comunità vicine.

Questo metodo d’indagine si rivelò essere il migliore: per tutta la durata del viaggio continuammo a chiedere informazioni ai pescatori, soprattutto in merito ai villaggi vicini, in modo tale da sovrapporre le informazioni ed i dati e confrontarli con i rilievi diretti.

Da Morondava decidemmo di spostarci subito verso nord. Dapprima in jeep, verso Belo Tsiribihina, una cittadina piccola e tranquilla, posta alla foce del fiume omonimo. In effetti, però, la foce nell’ultimo tratto diviene un ampio delta, ricco di piante e uccelli acquatici, tra i quali aironi e garzette la fanno da padroni, ma anche gli ibis sono abbastanza frequenti. Il villaggio è pulitissimo, con gruppi di maiali in libertà che provvedono ai bisogni di nettezza urbana, eliminando qualsiasi tipo di rifiuto. Allora c’era un piccolo albergo dimesso, con un bar e un ristorante non più in funzione, delizioso nel suo stile coloniale in legno e muratura, con elementi di preziosità artistica piuttosto rari da quelle parti ed un vasto cortile interno. La gente è ospitale e tranquilla, la frutta abbondante e profumata, le papaye raccontano poesie di gusto, i granchi abbondano, ma abbondano anche le zanzare che, sul far del crepuscolo, assumono comportamenti tipici delle squadre d’assalto. Gli effetti, purtroppo, si vedono, data l’ampia diffusione della malaria.

La strada che collega Belo a Morondava ha una foresta secondaria a fusto alto, piuttosto “secca”, ma gli alberi brulicano di vita, mentre i lemuri Tsifaka riposano tranquilli tra i rami o saltano come molle da un albero all’altro, leggeri quasi fossero fatti di piume ed elegantissimi nella loro livrea candida e con il volto circondato da peli colorati.

Tornati a Morondava, decidemmo di risalire la costa in una zona dove non esistevano piste praticabili e, quindi, la piroga era l’unico mezzo possibile.

Con una lunga navigazione, arrivammo in prossimità della foce del Manambolo, dove un improvviso fortunale ci costrinse a fermarci in un piccolo villaggio stagionale di nomadi Vezo, posto lungo una spiaggia surreale. Qui la bassa marea schiudeva alla vista uno spettacolo che non avrei mai più rivisto:un fondale di sabbie e lamelle di mica , che riflettevano la luce del sole come uno specchio, in modo abbagliante. La gente del villaggio, poverissimo, ci accolse con estrema gentilezza e curiosità, mentre i bimbi ci saltellavano intorno, curiosi e spaventati. Restammo al villaggio due giorni, dormendo nella migliore capanna, coprendoci con vele indurite dalla salsedine e condividendo con i pescatori e le loro famiglie, un caffé fatto con acqua salmastra, dove le zanzare affogavano lente, ma che al mattino, ci sembrava quello buono del bar sotto casa (cosa è capace di fare la nostra mente!). I pescatori del villaggio affidavano il pescato di gamberetti alle mogli, che provvedevano a spanderlo sulle sabbie caldissime della parte alta della spiaggia. Qui, in questo che io chiamai “ il campo dei gamberi, i piccoli crostacei si essiccavano in fretta e, dopo qualche giorno, venivano recuperati setacciando al vento la sabbia finissima. Altrove, vicino alle piroghe, c’era una sorta di grande stenditoio, con appesi pesci ad essiccare, tenuti aperti da piccoli pezzi di ramoscelli.

In effetti questo era il modo migliore per rendere trasportabile il pesce e i crostacei, dato che, una volta essiccati, potevano essere portati ovunque nel paese, senza bisogno di ulteriori accorgimenti di conservazione. L’economia del troc, in questa piccola comunità, era basata sullo scambio di questi prodotti, dai quali ricavavano anatre, attrezzi da pesca e vestiario.

Quando il vento e il mare ritornarono calmi, riprendemmo la via del sud per tornare a Morondava e ricordo ancora l’emozione di vedere tutti gli abitanti del villaggio, uomini e donne, circondati da tanti bambini festanti, schierati lungo la spiaggia, spesso con l’acqua sino alla vita, che ci salutavano quasi come si saluta un parente: “celoma”, carissimi amici del mare, spero che la vostra vita scorra dolce come l’acqua del mare tra la sabbia.

A Morondava, intanto, il nostro equipaggio aveva completato le provvigioni, rimpinguate anche con anatre e galline vive. Insieme a Giuliano prendemmo la decisione di non seguire necessariamente la pista principale ma di tentare di seguire il profilo della costa, in modo tale da poter raggiungere tutti i villaggi di pescatori. Gli autisti non erano per nulla contenti, poiché immaginavano le difficoltà e gli ostacoli di un percorso spesso inesistente: il segnale più brutto fu quando tornarono alle auto con la faccia cupa, dopo aver comprato una quantità spropositata di pezze per le camere d’aria, dicendoci che sicuramente non sarebbero state sufficienti!

L’unico sereno e allegro era Papa, il cuoco, felice di poter vedere una parte del suo Paese che lo incuriosiva: era una sorta di monumento vivente e così sarebbe quasi diventato una leggenda! Il suo volto ieratico era illuminato da uno sguardo acuto e gioioso, pieno di curiosità: era lui che incitava tutti gli altri, lui che ci avrebbe accudito e coccolato con i suoi manicaretti improvvisati nei posti più impensabili.

Da questo momento in poi, sino a Tulear, tutto sarebbe stato all’insegna dell’improvvisazione organizzata! La pista che si diparte da Morondava è affascinante in molti tratti, tra i giganteschi baobab (ADANSONIA GRANDIDIERI) che si slanciano verso il cielo. I saggi chiamano il baobab “il grande padre della foresta” e narrano che un giorno, tanti secoli or sono, fosse un albero splendido ed enorme, con una grande chioma rigogliosa. La sua bellezza gli faceva dichiarare sfrontatamente di esser l’albero più bello e questo fece irritare Dio che, in preda all’ira, lo estirpò piantandolo sottosopra: secondo la leggenda, è proprio questa la leggenda del baobab!

Lungo il percorso, se ne trovano di enormi, con un tronco di svariati metri di diametro, mentre altri si abbracciano in modo inconsueto, dando luogo a forme strane.

Le piste sono dure, difficili, pericolose, solitamente solitarie. Talvolta, però, si incrociano pick-up Peugeot stracarichi di viaggiatori: erano un pericolo per sé e per gli altri, anche se i guidatori avevano l’abilità dei funamboli.

Ankevo è stato uno dei primi villaggi incontrati, pulito e ordinato, con le sue capanne e le sue piroghe, su una spiaggia biancastra racchiusa da basse rocce. La pista per Belo, invece scompare presto in una vasta zona di sabbie frammiste a mangrovie, impossibile da percorrere con le alte maree. Quando la bassa marea, invece fa ritirare le acque, ecco comparire migliaia di granchi violinisti, timidi e sfacciati nello stesso tempo, che rendono il terreno brulicante. Belo ha anche delle piccole saline, importanti per l’economia e la salute del Madagascar.

Proseguendo per Antoba, gli insabbiamenti sono sempre più frequenti e le forature iniziano a diventare quasi costanti. I panorami sono belli ed inconsueti, dai colori forti e con tanti spunti per fotografie. L’arrivo in ogni villaggio di pescatori è circondato da una curiosità notevole: in alcuni posti avevano visto un bianco oltre vent’anni prima, quindi il nostro passaggio fa notizia.

Prima di partire dall’Italia, mi ero posto il problema di cosa portare in omaggio nei vari villaggi, sapendo che si trattava di aree dove mancava quasi tutto. La mia filosofia di vita mi ha sempre imposto il massimo rispetto della dignità di ogni persona ed un umile approccio con le culture locali. Decisi, quindi, di portare con me una serie di regali utili: per i capi villaggio o per i presidenti delle comunità di pescatori avevo una scorta imponente di coltellini multiuso cinesi, una copia praticamente identica di quelli svizzeri, più famosi e molto più costosi; per la comunità, invece, avevo preparato delle buste di plastica, con dentro un buon assortimento di ami e diverse matasse di vario spessore di filo da lenza. Inoltre, pacchi e pacchi di matite e di penne biro, più varie confezioni di block-notes.

La scelta fatta si dimostrò vincente e valida: i capi villaggio ed i presidenti dei pescatori erano fierissimi del loro coltellino multifunzione, mentre i pescatori apparivano entusiasti per il dono degli ami e delle lenze. Quando ebbi modo di ritornare in qualche villaggio, dopo qualche anno, mi spiegarono che quel piccolo dono aveva significato un aumento notevole della capacità economica del villaggio e, in alcuni casi, la comunità ne aveva tratto vantaggi impensabili.

Infatti (ma di questo non ero assolutamente a conoscenza prima del mio lungo girovagare), i Vezo non hanno materia prima per costruirsi attrezzi da pesca ( ad eccezione di qualche nassa) e, quindi sono costretti ad acquistarli o ad inventarseli con materiale di fortuna.

Per acquistarli, normalmente si rivolgono a commercianti locali che sono spesso collegati alle poche società commerciali che raccolgono il pesce e lo veicolano all’interno del Madagascar o anche all’estero. In questo caso, le attrezzature vengono date ai pescatori a fronte di un impegno a fornire il pescato in modo esclusivo.

Per “crearli”, invece, attendono la buona sorte. Particolarmente apprezzati sono i vecchi pneumatici radiali, talvolta trovati semi-distrutti lungo la pista, qualche volta portati dalle violenti mareggiate e provenienti da chissà dove. Il pneumatico viene immediatamente aggredito e si iniziano a recuperare i fili di materiale sintetico che costituiscono la struttura del radiale. Questi, quindi, sono utilizzati per annodare una rete, normalmente di piccole dimensioni. I galleggianti sono sostituita da piccoli pezzi di legno leggero, mentre i piombi sono sostituite da conchiglie, spesso piccoli Turbo. Talvolta, per assicurare alla rete una colorazione scura, si utilizza il lattice di una pianta grassa, che viene spalmato sui fili e che,quando si asciuga, assume una colorazione bruno nerastra, I nostri pescatori, abituati a strumenti sofisticati, inorridirebbero davanti ad una rete del genere, ma loro non sono riusciti ad inventarsi niente di meglio.

Per gli ami, invece, occorre aspettare che il mare o la sorte facciano arrivare un pezzo di legno con i chiodi. In tal caso, questi vengono lavorati dal pescatori, ribattendoli sino a trasformarli in ami di varie dimensioni.

Sinceramente sono condizioni inimmaginabili per noi.

A causa della impossibilità materiale di proseguire lungo la costa, decidemmo di addentrarci all’interno, per sostare a Manja, dove arrivammo in tarda serata. Qui c’era una capanna con la scritta “Hotely”, dove ci installammo, con tutto il nostro seguito. Ma quale fu la sorpresa degli abitanti quanto Papa, vanesio come un tacchino, decise di prepararci la cena con in testa il suo cappello bianco da cuoco! In pochi minuti, gran parte degli abitanti si radunarono fuori dall’Hotely, la cui proprietaria si mostrò imbarazzatissima: non aveva compreso l’importanza dei suoi ospiti! Dopo cena, a me toccò un comodo letto (dopo tante notti sotto la tenda), nella cipollaia dell’Hotely, una sorta di capanna divisa in due, dove venivano ammonticchiate cataste di cipolle odorose. Fu una notte indimenticabile, l’ideale per un entomologo, soprattutto scuotendo gli scarponi al mattino prima di indossarli. La pioggia di grandi scarafaggi che ne venne fuori mi fece comprendere che il luogo era molto frequentato e apprezzato, anche da questo tipo di ospiti!

L’attraversamento del fiume Mangoky fu difficilissimo, dato che le rive sabbiose erano una sorta di barriere insormontabili. I nostri due mezzi si tiravano fuori dalla sabbia a vicenda, ma talvolta era necessario farlo a forza di braccia: ci vollero diverse ore, prima di arrivare alla chiatta che, uno alla volta, li traghetto dall’altra parte, mentre Giuliano, Giorgio ed io attraversammo il fiume a nuoto, per abbassare la temperatura corporea e per eliminare la sabbia che le ruote dei mezzi interrati ci avevano spruzzato ovunque.

Dopo Andronopasy, Ambohimbo, Ankarona, nel delta del Mangoky, Morombe ci accolse con una nebbia degna della Bassa Padana, con il mare in tempesta, in un ambiente quasi surreale e ovattato. Qui la barriera corallina ha subito gli assalti dei raccoglitori di conchiglie e di oloturie, le prime dirette ai mercati italiani, e le seconde a quelli asiatici. Faceva un po’ pena vederla così spoglia, tra le acque poco trasparenti per via degli apporti dei fiumi, ma era ancora un sito pieno di pesci ed i Vezo sembravano apprezzarlo moltissimo.

Si attraversavano ambienti estremamente vari, passando dai baobab agli alberi bottiglia (talvolta ricoperti da centinai di piccoli pappagalli verdi), dagli alberi del viaggiatore alla foresta spinosa di Didieracee, dai mangrovieti della costa alle distese di piante acquatiche dei grandi delta, dalle palme da cocco delle grandi spiagge ai piccoli fiori tra le rocce e le sabbie. Spettacoli naturalistici indimenticabili, racchiusi tra albe dai colori intensi e tramonti tropicali che andavano dall’arancio al rosso al viola, in un caleidoscopio affascinante. Talvolta, le piste (ma chiamarle così è un complimento!) erano scavate da una pioggia improvvisa e si trasformavano in sentieri sconnessi, altre volte occorreva fare attenzione alle grandi tartarughe radiate (una specie minacciata e protetta), che decidevano per la via più comoda che era proprio il solco della pista: passarci sopra avrebbe significato forse la loro morte e certamente il capovolgimento del nostro mezzo.

E la gente dei vari villaggi, dove talvolta vedevi dei visi intensi e solcati dalla salsedine dei pescatori, ma dove potevi incrociare lo sguardo dolcissimo e languido di una splendida fanciulla distesa all’ombra della sua capanna, in prossimità della spiaggia. Avevamo riscoperto l’enorme importanza dell’albero del villaggio, spesso un gigantesco mango, sotto il quale, all’ombra, un maestro teneva le sue lezioni ai bimbi o dove gli anziani (ma erano poco più che miei coetanei, purtroppo!) tenevano il consiglio.

Foca, Ambavadoca, Befandela, Ambohitsabo, Solary, Tsifoka, Monomio, Andavo, Ifaty, i villaggi scorrevano uno dietro l’altro, come i giorni e le notti. In ogni posto un incontro, lunghi scambi di informazioni, sorrisi e gentilezze, , ma per me si trattava di un mondo che mi si apriva dinanzi, ricco di cultura e saggezza marinara.

Poi finalmente Tulear, la cittadina attraversata dal Tropico del Capricorno, con i suoi venditori di conchiglie intorno alla piazza della strada principale, i suoi pousse-pousse, la sua vita quasi frenetica, dopo tanti giorni di piste e silenzio. Finalmente un albergo, una doccia, un letto con lenzuola. Nel giardino un Lemur Catta con cui giocare festosamente, corrompendolo con le piccole banane dolci, mentre saltava veloce ovunque, per mostrarsi vezzosamente con la coda ad anelli bianchi e neri.

Tulear in effetti, è la capitale dei Vezo, sede di una Università importante e di una storica Stazione di biologia Marina, dove con l’aiuto di esperti della FAO e di università europee, si studiano i complessi meccanismi della ricchissima barriera corallina che si trova a sud della città, una delle più affascinanti dell’Oceano Indiano, particolarmente ricca di specie per via della particolare idrografia del canale di Monzambico.

Dopo esserci ritemprati, avere acquistato qualche nuova camera d’aria per le ruote dei nostri mezzi di trasporto e dopo una serie interminabile di incontri ufficiali con le autorità locali e con i colleghi della FAO, ricominciamo il cammino lungo la strada dell’estremo sud, spesso tra le foreste spinose dotate di un fascino estremo. Una notte ad esempio abbiamo la ventura di sentire un po’ di pioggia sulle nostre tende, niente di particolare. Ma la mattina, una volta arrivata la luce dell’alba, intorno a noi si aprì un mondo incantato, dove le secche piante spinose della sera prima, si erano trasformate in verdissimi esseri pieni di foglioline sottili. Al termine della giornata soleggiata, molte specie avevano anche dei fiori, generalmente piccoli e vistosi. Leggendo sui libri è una cosa, ma vedere questo spettacolo dal vero si ha la stessa impressione di trovarsi in un luogo magico e incantato.

Anakao è un importante villaggio Vezo subito a sud di Tuléar, al di là dell’ampia foce del fiume Onilahy, nella Baia di St.Augustin. Già nel 1986 c’era una piccola attività turistica, gestita da un francese piuttosto noto nella zona, che poi morì tragicamente e romanzescamente qualche anno dopo, chiudendo in modo coerente la sua travagliata esistenza. Lui gestiva le piroghe che portavano i turisti da Tuléar ad Anakao ed un piccolo lodge con capanne per turisti sulla spiaggia, ma era ovunque famoso per la sua importante collezione di conchiglie, dovuta all’opera incessante dei suoi amici pescatori.

Le isolette a sud di Anakao hanno ancora i resti di qualche tomba dei pirati, che frequentavano queste acque soprattutto nel ‘700, ma sono altrettanto note per l’elevata qualità delle vongole, comunissime sui bassi fondali che le circondano verso terra.

Da queste parti sopravvivono le vecchie tradizioni Vezo e non è infrequente vedere una fila di piroghe, dalla quale si propaga una musica ritmata, che accompagna la sposa ed i suoi familiari al villaggio dello sposo, per il rito e la festa.

La strada statale passa all’interno, troppo per le nostre necessità e, quindi decidiamo di tentare la pista costiera, dove esiste. La pista del sud è molto difficile e raggiungere Beheloko, Anja Belitsaka ed Itampolo ci fa comprendere che il tratto che ci aspetta ci riserverà molte sorprese. Qui i villaggi sono sempre più brulli, le capanne risentono della temperatura spesso elevata, ma la gente è sempre cordiale. Intorno ai villaggi, spesso, ci sono piccoli cimiteri, pieni di steli lignei scolpiti, una caratteristica del sud. Vederli significa fare un tuffo nella vita del passato, dato che ogni stele rappresenta alcune delle scene più peculiari della vita del defunto.

La caccia delle grandi tartarughe marine (generalmente la tartaruga verde) è praticata con alcune precauzioni. Anche i Vezo comprendono che non si possono sterminare le tartarughe marine, malgrado per alcuni villaggi questa si una delle poche opportunità di mangiare carne. Per questo alcuni adottano una tecnica, che può apparire crudele a noi occidentali urbanizzati, ma che ha un profondo senso di rispetto per gli animali e gli abitanti del villaggio. Quando una tartaruga viene catturata e uccisa, la carne viene distribuita tra gli abitanti e dura per diversi giorni. Se, per caso, fosse possibile catturare una tartaruga nello stesso periodo, questa verrebbe trattenuta sulla spiaggia, viva, all’ombra di una vela, per vari giorni, costituendo una riserva di cibo importante. I bimbi, in tal caso, provvedono a bagnarla periodicamente, e le regole non scritte dei pescatori dicono che non è consentito catturare più di una tartaruga per volta, oltre quella che sta per essere consumata.

Arrivare ad Androka è un’impresa, soprattutto quando le piogge ingrossano il Linta, il più importante fiume del sud. Il guado è impraticabile ed abbiamo due alternative: fermarci per un numero indefinito di giorni, aspettando tempi migliori, o tentare di trovare un guado a monte, fuori pista. Scegliamo la seconda opzione, ma sconsiglierei a chiunque di seguire la nostra strada. Passiamo da un villaggio tipico del sud malgascio a contrafforti rocciosi densi di vegetazione. I nostri mezzi sobbalzano sulle pietre e siamo costretti a fermarci più volte, per riparare le gomme, squarciate in più punti. Ormai, siamo diventati velocissimi esperti e smontare un pneumatico, ripararlo e rimontarlo per noi non rappresenta più incognite. Infine, utilizzando torrenti secchi e sconnessi come se fossero autostrade e con l’indispensabile aiuto di un poverissimo pastore, vestito solo di un perizoma, che non aveva mai visto un’automobile e che ne era, al tempo stesso, terrorizzato e incuriosito, riuscimmo a guadare il Linta, con l’acqua allo sportello.

Ma il profondo sud del Madagascar aveva in serbo per noi una fantastica sorpresa, che ci avrebbe ricompensato di qualunque sforzo. Un giorno passando da un villaggio all’altro e parlando con i pescatori, qualcuno disse che esisteva un piccolissimo villaggio di pescatori di aragoste, che loro con superiorità, definivano “selvaggi” e “primitivi”. La cosa ci incuriosì e così iniziammo a chieder informazioni sempre più precise. Finalmente, qualcuno riuscì ad indicarci la via per raggiungere il villaggio misterioso, non segnato sulle carte.

Dopo varie ore di percorso su un tratto di costa periodicamente sommerso dal mare, dove non esisteva alcuna traccia di pneumatico di passaggio, raggiungiamo un cimitero poverissimo, con steli chiaramente molto vecchie e consumate dal tempo. Proseguiamo con estrema difficoltà e rischiamo anche che il nostro pick-up ci abbandoni, essendo precipitato in una buca piuttosto profonda.

Riusciamo con molta fatica a recuperarlo e procediamo0 verso la duna costiera. Dietro di essa, tra il mare ed un’altra fascia dunale, finalmente scorgiamo il villaggio. Ma è vuoto: gli abitanti, impauriti si sono nascosti nella vegetazione del bush, ne intravediamo qualcuno. Il villaggio è incredibile: le capanne sono fatte di sterpi ammonticchiati, mentre le aperture sono coperte con carapace di tartarughe verdi.

Le tartarughe sembrano essere le uniche fornitrici di utensili del villaggio: sono catini e bacinelle, palette e contenitori, ma anche feticci sui pali. Dopo aver fotografato tutto ed aver cercato invano di far comprendere agli abitanti che avevamo intenzioni tranquille, l’unica decisione possibile era quella di andarcene, restituendo a quella gente il proprio mondo inviolato.

Nell’andar via, Giorgio, Giuliano ed io decidemmo di non rivelare mai il nome del villaggio e la sua collocazione geografica, al fine di proteggere la privacy di quegli abitanti particolari, che evidentemente non avevano contatti con la modernità. Ognuno di noi ha rispettato il patto e, da quel che mi risulta, il villaggio non è ancora sulle carte. Significa che nessuno ha più disturbato i suoi abitanti e spero che possano continuare a lungo nel loro isolamento, anche se temo che possa durare poco.

La costa del sud ha il suo apice rappresentativo qualche decina di chilometri prima di Betanty (Faux cap), un capo che è la parte più meridionale del Madagascar. Qui, di fronte all’Oceano, ci sono alte dune fossili, dove si trovano i resti delle uova del grandissimo uccello fossile Aepyrnis maximus. Le sabbie compatte sono ripide sul mare cristallino, dove alcuni ragazzi si bagnano. Splendida, anche la zona di Italy, un bel villaggio di pescatori in una baia dai colori incredibili, circondata da vegetazione, poco prima di arrivare a Tolanaro (Fort Dauphin). Finalmente un’altra cittadina ed un altro albergo, di proprietà del francese che gestisce la riserva del Berenty, famosa per i lemuri. Anche la ragazza dell’albergo è famosa per la sua bellezza europea, occhi color del mare e capelli biondissimi, che contrasta con le tante bellezze locali. Le strade di Fort Dauphin sono affollate, la gente commercia frutta, verdura, pesci e carne, in un “baillame” di abiti colorati. I fili elettrici tra i pali della luce sono ricoperti da migliaia di grandi ragnatele, creati da ragni dalle zampe lunghissime e dal corpo colorato. La baia in cui si trova Fort Dauphin è splendida, ma il mare è spesso mosso, agitato dai venti che percorrono la zona. Qui c’è la pesca delle aragoste, fatta con le nasse, che dà una buona varietà di specie: quelle verdi, che vivono nelle scogliere più superficiali, poco apprezzate; quelle rosse, di rocce più profonde, piuttosto gustose, e quelle nere, di zone ancora più profonde, da gran gourmet.

A nord di Tolanaro, la vegetazione è completamente diversa. Tutto è lussureggiante e verde, segno evidente della maggiore quantità di pioggia che caratterizza la zona. Ci spingiamo sulla strada costiera, superando Mamantenina. Qui è necessario attraversare un gran numero di corsi d’acqua, tra le rive colme di vegetazione. I traghetti sono delle chiatte, che si muovono lungo un cavo, talvolta a forza di braccia.

Qui, alla foce dei fiumi, vive ancora il dugongo, il grande sirenide erbivoro che sta progressivamente scomparendo dall’Oceano Indiano, cacciato ed ucciso per le sue carni saporite e per l’olio raffinatissimo che si ricava dal suo grasso. Cerchiamo di vederne uno, ma è assolutamente impossibile, anche se in diversi villaggi ci dicono di conoscerlo e di vederne qualche esemplare di tanto in tanto.

Lungo la costa del sud est del Madagascar, i villaggi sono poverissimi e l’abbondanza di piogge rende ancora più evidente la condizione di indigenza. I più poveri sono i villaggi dei carbonai, povera gente che vive vendendo o scambiando i resti delle foreste bruciate con qualcosa da mangiare o da indossare. Questi villaggi hanno capanne piccolissime ed ovunque si nota un velo di caligine. I villaggi più “benestanti” sono quelli dei pescatori di aragoste, dove, però, il tasso di alcolismo è elevato, dato che i commercianti (almeno allora!) usavano ricompensarli con il rhum, invece che con i soldi.

Al confine nord del Faritany decidiamo di rientrare a Fort Dauphin. Qui incontriamo due ragazze emiliane piuttosto mal messe, senza quattrini e disperate per una serie di disavventure e decidiamo di dar loro un passaggio sui nostri mezzi, mentre noi torniamo a Tanà con l’aereo, dopo circa un mese e mezzo di jeep.

Dopo quella ed altre due missioni, riesco a redigere un rapporto dettagliatissimo sui pestatori del Faritany di Tulèar, sui mezzi a loro disposizione, sulle loro attività e le catture e, grazie ad alcuni economisti, anche sulle loro necessità. Una copia dei dati li regalai ai colleghi della FAO che operano in Madagascar: per loro si tratta di un regalo importante, dato che, malgrado sforzi di anni, non erano mai riusciti a fare una analisi così dettagliata, per via delle difficoltà e del costo.

Purtroppo, erano gli anni della Cooperazione perversa, quando i Paesi donatori donavano soprattutto a sé stessi: il mio programma fu “abbellito” con ponti, strade, centrali elettriche, ed un sacco di altri inutili orpelli, tanto da divenire enorme ed ingestibile. Con l’Ambasciatore italiano dell’epoca, con un biologo della World Bank e con i colleghi della FAO e del PNUD tentammo di far finanziare almeno quei piccoli programmi che riguardavano sul serio i pescatori artigianali, cose semplici ma vitali, che avrebbero potuto contribuire veramente al loro sviluppo, nel rispetto delle tradizioni e della loro autonomia culturale. Ma così non è stato: o tutto o niente e, mancando i soldi per coprire tutto (o magari perché il Madagascar non era strategico!), niente. Da allora, sono tornato tante volte in Madagascar, per vari incarichi. Insieme all’Acquario di Genova, abbiamo stretto un accordo di cooperazione scientifica con l’Università di Antananarivo, nel cui ambito stiamo riproducendo con successo numerose specie animali protette, al fine di evitarne l’estinzione.

Ho girato il Paese in lungo ed in largo, vedendo isole, laghi, monti, cascate, foreste, animali e soprattutto, la gente. Ho parlato con Ministri, Direttori Generali, Ambasciatori, Rettori, contadini e pescatori, ritrovando ovunque contatti umani forti e sinceri.

Il Madagascar, purtroppo, ha avuto un problema dietro l’altro nell’indifferenza generale: deforestazione selvaggia, tifoni devastanti, malaria, epidemie ed anche la peste, con una recentissima lotta per il potere presidenziale, che ha causato molte vittime tra la povera gente.

Il Madagascar è un paese magico, ma tutte le magie hanno bisogno di particolari condizioni per continuare a ripetersi. Non sarebbe una responsabilità di noi Paesi ricchi fare in modo che la magia possa continuare, aiutando questa gente meravigliosa a ritrovare se stessa ed i suoi valori, che nulla hanno da invidiare ai nostri?

Dott. Antonio Di Natale, responsabile scientifico dell'Acquario di Genova

Antonio Di Natale è responsabile scientifico dell'Acquario di Genova, Direttore dell'Istituto di Ricerca Aquastudio e vice-Presidente del Comitato scientifico della Pesca della C.E., oltre che componente di numerosi comitati scientifici di Enti internazionali e nazionali. E' autore di circa 200 pubblicazioni sulla gestione delle risorse e su specie marine ed ha esperienze in decine di Paesi. Si occupa da anni di conservazione e gestione delle risorse acquatiche e tutela dell'ambiente.

“MADAGASCAR NATURELLEMENT” Di Liliana Mosca

Verso la metà degli anni ’70, si è avuto un moltiplicarsi di lavori di studiosi malgasci e stranieri sulle singolari condizioni ambientali ( biodiversità terrestre, acquatica, continentale o costiera e marina, zone umide e zone aride, foreste secche, foreste di montagne, ecc.) dell’isola del Madagascar.

Per la varietà della fauna, della flora e del suo particolare ecosistema la Grande Isola dell’oceano Indiano è considerata appartenere al patrimonio mondiale dell’umanità per cui, nel 1990, è stata approvata la Carta dell’Ambiente nella quale si è affermata la necessità di un equilibrio duraturo ed armonioso tra i bisogni dell’uomo e la difesa dell’ecosistema.

Gli stessi studiosi, però, hanno lanciato un grido d’allarme per l’avanzato stato di degrado della sua ricchezza biologica, alla cui rovina hanno concorso sia fenomeni d’origine naturale sia l’azione dell’uomo. In particolare gran preoccupazione ha destato il depauperamento del patrimonio forestale, nonostante l’attenzione rivolta al problema sia al tempo del regno merina, che nel periodo coloniale e all’indomani dell’indipendenza.

Si ricorda, infatti, che durante il regno del Grande Re Andrianampoinimerina, che governò dal 1797 al 1810, il sovrano stabilì delle misure per proteggere la foresta; ancora oltre si spinsero le autorità merina che all’art. 105 del codice emanato nel 1881, previdero la condanna alla pena delle catene per colui che fosse stato sorpreso a tagliare alberi per coltivare riso, mais o fare qualsiasi altro tipo di coltura.

Nel 1927, le autorità coloniali approvarono un decreto sull’istituzione delle riserve naturali, in seguito riconosciute riserve naturali integrali.

A partire dalla fine degli anni ’50, le autorità hanno approvato delle norme per l’istituzione di parchi nazionali e di riserve speciali. Questi sforzi, per quanto meritevoli si sono rivelati inadeguati a bloccare l’avanzare del degrado ambientale; di qui la necessità di fissare, nel 1988, una strategia nazionale di conservazione nota come Piano d’Azione ambientale, la cui esecuzione si è avuta dopo l’approvazione per legge, il 21 dicembre 1990, della Carta dell’Ambiente.

La Carta ha sancito che l’ambiente è una delle priorità dello stato malgascio. Essa ha anche riconosciuto che la politica ambientale deve mirare ad un equilibrio duraturo ed armonioso tra i bisogni dell’uomo e la difesa dell’ecosistema.

Le norme per la protezione della natura sono, tuttavia, oggetto d’aspre critiche da parte della popolazione malgascia, che ha messo in guardia le autorità contro uno sviluppo ancora non abbastanza attento al patrimonio di conoscenze trasmesso dagli avi ed ha rivendicato il diritto a preservare il suo modus vivendi soprattutto sulle terre degli antenati o tanindrazana.

Si è, così talvolta, di fronte ad una contrapposizione tra il diritto consuetudinario con il continuo appello all’osservanza di riti, raccomandazioni, regole, divieti, ecc. Ed il diritto moderno, con delle ricadute, non di certo positive, sul nascente diritto ambientale. Diritto ambientale che, si deve misurare con problemi legati, talora, all’incompetenza delle persone preposte a farlo rispettare come alla mancanza di mezzi, ma ancora più disastrosi sono i problemi legati alla stessa gestione delle risorse naturali dell’isola.

L’atteggiamento ostile della popolazione malgascia è giudicato da osservatori stranieri come retrogrado ed antiprogressista, in sostanza di pregiudizio allo sviluppo del paese.

È proprio così? E’ possibile che la civiltà malgascia, che si regge sull’ordine e l’armonia, rappresenti un pericolo per l’ambiente e che realmente il Madagascar rischi di vedere distrutta la sua biodiversità?

Quali sono questi usi e costumi dei malgasci? Quali sono queste tradizioni, la cui origine si perde nella notte dei tempi e che sarebbe irrispettoso trasgredire, pena la sopravvivenza dell’individuo ma soprattutto del gruppo?

I malgasci concepiscono la natura come un luogo santo, un santuario. Da una parte essa comprende uomini, animali e piante e dall’altra abbraccia forze invisibili, potenze misteriose e divinità. Tra i vari elementi esiste una stretta relazione, inconsciamente nota ai malgasci e di cui non sono in grado di dare una spiegazione razionale. I malgasci, tenendo conto delle affinità e delle differenze tra loro e la natura che li circonda, giungono comunque a creare il loro equilibrio personale.

Nella pratica si ha quindi un’interazione che talvolta può manifestarsi in una forma benigna, si pensi ad esempio all’azione della natura nel ristabilire la salute dell’uomo, oppure negativa quando la morte la porta via. Tale interazione però qualche volta è ambigua, perché l’uomo è spesso in lotta con la natura, come accade durante le intemperie, i cicloni, ecc., ma poiché la sua sopravvivenza dipende da essa ci può essere la necessità di dominarla. Ecco che allora egli si vede costretto ad eliminare, per quanto possibile, tutto ciò che gli può arrecare danno.

Il malgascio ha, come detto, un ancestrale senso di conservazione e sacralità della natura in tutte le sue manifestazioni: la foresta, le montagne, i fiumi, i laghi, ecc. Di qui l’importanza dei precetti trasmessi di generazione in generazione dai razana gli antenati ai discendenti.

Porterò ora qualche esempio: sull’altopiano, come altrove, si continuano a venerare dei luoghi, dove hanno abitato o sono sepolti, secondo la tradizione, i Vazimba, i primi abitanti dell’isola; luoghi che, ancora oggi, sono oggetto di culto, come la località d’Andranoro, dove si trova la tomba di Ranoro.

Da parte loro le genti betsimisaraka del nord ogniqualvolta devono arare un campo nel quale vi è una tomba fanno precedere l’aratura da offerte ai defunti le Tsaboraha, invocandone la benedizione. Tradizione non meno importante è quella delle genti masikoro che, nella speranza di potere coltivare un terreno fertile, danno feste il Tampoke in onore degli esseri soprannaturali; così come l’usanza delle popolazioni del lago Alaotra, che per ottenere piogge abbondanti necessarie per un ricco raccolto di riso, immolano uno zebù, chiedendo la benedizione divina e degli antenati Joro orana, Asarabe Alakaosy.

Che dire delle genti bara la cui armonia spirituale, culturale ed economica è generata dalla sua stretta relazione con lo zebù, fattore di unione tra il mondo dei vivi e quello degli antenati?

Del divieto di penetrare nella foresta sakalava, che accoglie i resti mortali dei re maroseranana?

Dell’interdizione di uccidere alcuni animali, com’è il caso della tartaruga nel sud del Madagascar, perché l’anima dei re o delle persone morte abitino in questo animale? O dei sacrifici di zebù che le genti antankarana fanno a favore dei coccodrilli, che popolano il lago di Anivorano, non lontano dalla città di Antsiranana, perché la leggenda tramanda che quegli animali sarebbero loro lontani antenati?

Ancora del divieto di pesca nel lago Kinkony, nord ovest del Madagascar, che le genti sakalava religiosamente rispettano? E della venerazione per l’albero sacro o hazomanga, simbolo del potere trasmesso dagli antenati ai discendenti? O del culto degli alberi di tamarindo o di baobab, considerati spazio sacro, luoghi sacri, dove le genti vanno a deporre le offerte per gli spiriti?

Esiste allora realmente una frattura fra tradizione ed ambiente nel Madagascar? L’una è davvero in contrasto con l’altra?

Il ricordato Piano d’Azione Ambientale è giunto oggi alla sua ultima tappa: la terza fase e complessivamente si può dire che sono stati fatti degli effettivi progressi per superare il contrasto diritto consuetudinario-diritto ambientale al fine di fare convivere tradizione e sviluppo.

Un esempio in tale senso può essere l’inaugurazione, il 29 ottobre 2004, di un Centro di Studio, all’interno del Parco Nazionale dell’Andrigitra, nella località di Namoly, lì dove si trova la tomba dell’antenato Vazimba Rekedy e di sua moglie. Su tale evento Hanta Rabetaliana, capo della regione si è così espressa :

« Ce centre d’interprétation constitue un moyen adéquat à la sensibilisation de la population à la préservation de l’environnement et à la promotion de l’écotourisme dans la région. Les enfants et les jeunes sont les cibles du projet, ainsi la priorité doit être donnée à l’éducation environnementale pour que la valeur du parc soit bien respectée. »

Chi ha una qualche nozione della cultura malgascia sa che tale risultato è stato raggiunto per l’amore che i malgasci hanno per gli antenati, per la terra, per la terra degli antenati ed infine per il fihavanana, che è il momento in cui la famiglia, e per traslazione la nazione, si unisce in uno spirito di conciliazione ed anche di riconciliazione, superando tutte le contrapposizioni.

L’umanità ha da sempre tratto benefici dalla biodiversità. Questo è profondamente vero per l’isola del Madagascar, anche se, ancora oggi, una larga parte della popolazione dipende per abitare, per mangiare, per abbigliarsi, per curarsi e per tutti i suoi bisogni primari dalle risorse naturali.

L’ambiente ha, quindi, un ruolo fondamentale nella vita dei malgasci, come ci ricorda la loro civiltà, i cui riti e tradizioni hanno quale obiettivo principale proprio la protezione e la conservazione del territorio, che il Presidente Ravalomanana ha fatto proprie, inserendo nel piano di sviluppo del paese il suo sogno di: “MADAGASCAR NATURELLEMENT