È il Madagascar la seconda patria di Carlo Bresciani. Nella
grande isola africana, così misteriosa, così affascinante, ha scelto di vivere.
Non è - e non sarà - per lui, una vacanza. Anzi. Non sono i tesori inimitabili
di una natura splendida, selvaggia e incontaminata ad averlo stregato. Carlo,
originario di Prevalle, si è innamorato della gente. Di quella gente,
poverissima e buona.
Tutto comincia quando, poco più che ventenne, matura la
decisione di compiere un’esperienza come volontario nel Terzo mondo. La
destinazione è proprio il Madagascar, dove opera un missionario gavardese, don
Sandro Mora, della congregazione degli Orionini. L’esperienza è dura, ogni
giorno a combattere la miseria, la fame, la malattia al fianco degli ultimi,
dei dimenticati. L’esperienza è dura, eppure Carlo non si scoraggia. Ne esce,
anzi, fortificato. Torna a casa, ma ben presto deve fare i conti con un disagio
che non lo abbandona. Raggiunge la consapevolezza che la comoda vita di qui non
fa più per lui.
Si rimette così in viaggio per una seconda esperienza,
stavolta nelle Filippine, meta un centro di accoglienza per bambini orfani e
disabili. Dopo un anno rientra in Italia, ma ormai la scelta è compiuta. Carlo
Bresciani ha deciso da che parte stare. Con i poveri, i più poveri del mondo. E
riparte per il Madagascar, il «suo» Madagascar.
Lavora, sempre a stretto
contatto con don Sandro Mora, in un dispensario gestito da suore a Miandrarivo,
una cittadina della regione di Vakinankaratra, nel cuore più profondo
dell’isola, quasi completamente isolato (basti pensare che la più vicina strada
asfaltata dista ottanta chilometri). Qui si vive con un pugno di riso e qualche
patata, la denutrizione e le epidemie sono la norma, la mortalità è altissima.
Il dispensario rappresenta per la gente del posto una
speranza, anche se i mezzi sono pochi, anche se non c’è neppure un medico
fisso, ma ci si affida a una dottoressa italiana, Daniela Piacentini, che però
deve dividersi tra Miandrarivo e altre realtà dove serve la sua presenza. «La
mancanza di strutture, di educazione e di medicine - spiega il giovane
volontario prevallese - fa sì che la popolazione si sia quasi abituata a vivere
sul labile confine tra la vita e la morte ».
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