Rosario Volpi, 34 anni, ha vinto il
Premio volontariato internazionale 2013. Dal 2007 si occupa di ragazzi in un
piccolo villaggio dell'isola. Ecco la sua storia
Il vincitore del Premio volontariato internazionale 2013 ci ha raccontato la sua storia. Che
non è come tutte le altre: ci voleva un “quid” di sensibilità in più per mollare
la sua vita in Sicilia e spostarsi, giovanissimo, in un’isola molto più a Sud
–il Madagascar- a intraprendere il mestiere di educatore
ad Ambalakilonga,Comunità per ragazzi
adolescenti.
Oltre all’impegno e al sacrificio
–caratteristiche imprescindibili per chi tutti i giorni pone se stesso al
servizio dei più bisognosi- emerge dalle parole di Rosario Volpi la dote più importante di tutte, senza
la quale il lavoro quotidiano non potrebbe poggiarsi su basi solide: l’umiltà. Occuparsi della formazione di giovani
uomini malgasci con la consapevolezza
che il vero educatore sta lassù, ed è lui a dettare i precetti
che tutti sono chiamati a seguire, senza distinzione di censo o di razza: questo
è ciò che distingue un buon volontario cristiano rispetto a un collaboratore
qualunque.
Si schermisce, Rosario, prima di cominciare la
chiacchierata. Sostiene di “non essere portato per le interviste”. Le righe
seguenti dimostrano l’esatto contrario: oltre ad essere un ottimo educatore, è capace
come pochi di raccontarsi a cuore aperto. Il buon esempio
–questo è l’insegnamento che da lettori ne traiamo- viene da un
trentaquattrenne originario della provincia di Trapani.
Cosa ti ha spinto molti anni fa
ad avvicinarti a Educatori Senza Frontiere?
«Uno tsunami, sì lo tsunami del Sud-est asiatico
del dicembre 2004. Furono proprio quelle immagini che mi scossero. Da lì che
cominciai a chiedermi quale aiuto può portare un educatore in contesti
devastati dalla natura, dalla povertà, dalla guerra, dall’uomo. Cosa possiamo
fare in queste occasioni? A noi tocca il compito di “ri-costruire”
l’uomo, ridare fiducia e speranza nella vita. A noi tocca il
coraggio di guardare negli occhi gli uomini e donne, vittime degli tsunami o
degli uragani e tempeste della vita, e dire che si può sempre ricominciare».
Hai accettato subito con
entusiasmo la proposta di partire per il Madagascar?
«Era febbraio del 2007, ad Ambalakilonga c’era bisogno di un educatore.
Cristina, la nostra responsabile di ESF,
mi chiese una disponibilità di due anni. Ci volevo pensare, così mi sono preso
un po’ di tempo per decidere. Dopotutto anche a Palermo, dove lavoravo, c’era
bisogno di educatori. Mi piaceva il mio lavoro tra i ragazzi e i bambini della
periferia della città, Zen e Borgo nuovo. Alla fine decisi che a 27 anni si può fare le
valigie e partire».
Come si svolge il lavoro dentro
Ambalakilonga?
«Ambalakilonga è un piccolo villaggio al cui interno si trovano: una
comunità, che accoglie ragazzi orfani, ex ragazzi di strada e
giovani in difficoltà; un centro di formazione professionale che
forma gli allievi in cinque specialità, carpenteria, falegnameria, saldatura,
elettricità e informatica; un piccolo dispensario a servizio dei giovani
della comunità e degli allievi della scuola, ma anche punto di
riferimento per gli ammalati dei villaggi limitrofi. All’interno di queste tre
macro aree s’inseriscono poi tutte le attività educative e formative che il
nostro Centro propone al territorio».
In questo momento qual è la
sfida principale che ti tiene impegnato?
«In questi giorni siamo alle prese con la formazione
di 40 educatori che provengono dagli altri centri della città e
che fanno parte della rete di protezione dei minori. La formazione è sempre un
momento affascinante in cui ci si misura e ci si confronta con le esperienze
umani e professionali dei tuoi colleghi nei contesti più disparati».
Quali sono le principali
difficoltà che dovete fronteggiare giorno dopo giorno?
« La difficoltà maggiore credo che sia non
farsi schiacciare dal peso dei problemi che la gente viene a presentarci. Certi
giorni ti sei fermato ad ascoltare i problemi delle persone, le difficoltà dei
nostri ragazzi, le loro delusioni, le loro domande da adolescenti, le loro
sfide. Allora ti domandi: ma io cosa posso fare? Come posso farmi carico di
tutto questo? Come posso trovare vie nuove per aiutare tutte queste persone?
Si, la sfida maggiore è trovare sempre le risorse necessarie, nel
confronto e nella collaborazione con le persone che condividono con te lavoro e
vita. Certamente negli ultimi tempi risentiamo della crisi
economica globale: trovare i fondi per arrivare a fine mese ti
toglie il sonno».
La tua giornata tipo come è
strutturata?
«Mi sveglio alle 5.30, vado a messa nella vicina
parrocchia dei Salesiani. Dopo colazione accolgo gli studenti della nostra
scuola professionale: è un modo per conoscerli tutti, per memorizzarne i nomi e
i volti. Poi mi occupo delle faccende burocratiche: questo lavoro d’ufficio
viene continuamente “interrotto” dalle persone che vengono ad Ambalakilonga per
essere ascoltate, sfogarsi, chiedere un aiuto (devo ringraziare i miei due colleghi educatori Jacques e Jocelyn che
in questo mi danno una grande mano). Nel pomeriggio, quando posso, resto in Comunità
a seguire tante piccole attività: mi improvviso cuoco, architetto,
allevatore e approfondisco i metodi di coltivazione. Alle cinque del pomeriggio
chiudo tutto e mi dedico ai ragazzi: a loro disposizione per dialogare e anche
per giocare. Il fulcro della settimana è poi la “parola” -momento in cui noi educatori e i
ragazzi ci guardiamo negli occhi per dirci il bello e il brutto dei giorni
trascorsi insieme. Ogni sera, infine, ci troviamo in cappella
per pregare il Padre Nostro e ricordarci le responsabilità e gli appuntamenti
dell’indomani. Infine la cena e, se tutto va bene -se cioè non arriva nessuno a
chiamarci per un parto urgente- possiamo andare a dormire».
È mai capitato, anche solo per
un attimo, di sentire dentro di te la tentazione di mollare?
«Credo che il senso di fallimento sia il
compagno di viaggio per chi fa esperienze come la mia. Le incomprensioni, un
certo senso di impotenza, le solitudini e le frustrazioni non mancano
mai. Ci si trova spesso davanti a situazioni di sofferenza assurde, davanti a
storie di uomini e donne più grandi di te. Come se ne esce? Imparando a fidarti di Dio, a capire che non
tocca a te salvare l’umanità perché ci ha già pensato Lui. Non ti resta che essere una carezza,
si, la sua carezza nel mondo; fare un pezzo di strada accanto agli atri,
semplicemente amando».
Facendo un bilancio di sei anni
in Comunità, riesci a estrapolare qualche episodio particolarmente
significativo?
«Non dimenticherò mai quando Donnè,
uno dei nostri ragazzi, dopo aver ascoltato una mia telefonata con i miei, mi
disse “tu sei fortunato, tu hai qualcuno che puoi chiamare mamma”. Fu grazie a quelle parole, credo, che
decisi di restare, per donare attraverso il mio ruolo da educatore quel senso
di paternità e maternità che potesse far sentire i nostri ragazzi accolti ed
amati da qualcuno.
Qual è il premio più bello per
chi come te vive la propria vita a servizio dei più deboli?
« Il nostro lavoro di educatori è un lavoro
di semina: altri raccoglieranno i frutti, quindi non possiamo godere di
soddisfazioni immediate. Proprio per questo, abbiamo imparato a gioire di
abbracci, sorrisi; abbiamo imparato che asciugare
una lacrima, stringere mani, camminare insieme, sono il dono più bello. In un momento, in un incontro, c’è già
il germoglio della felicità. Piccole cose, gioia grande».
A chi dedichi il Premio del
volontariato internazionale?
« L’elenco sarebbe lunghissimo, ma
certamente le prime persone a cui vorrei dire la mia gratitudine sono mia
madre, mio padre e i miei fratelli: ognuno a modo loro mi ha
amato e mi ha insegnato ad amare; a don
Francesco Campo che
mi ha educato nella fede e ha seminato nel mio cuore la gioia di chinarmi sugli
altri; a sorella Alba, la prima che mi
ha “solleticato i piedi” e trasmesso il desiderio di andare, di mettermi in
cammino; a don Antonio Mazzi, Cristina e tutta ESF che mi hanno dato la possibilità di
vivere questa esperienza che si è fatta vita. Lo dedico a Jacques, Jocelyn e tutti i volontari che
hanno fatto questo pezzo di strada insieme a me. E sicuramente ad
ognuno dei nostri ragazzi, figli e fratelli di
quest’isola unica».
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