domenica 14 dicembre 2014

La pervinca rosa del Madagascar


una pillola verde

Oggi un quarto delle medicine che troviamo in farmacia è a base di principi attivi di origine vegetale. Che arrivano da foreste lontane
Alcuni ormai lo chiamano, senza troppi complimenti, oro verde. Nella realtà, l'oro verde ha nomi poetici, come la pervinca rosa del Madagascar. Vagamente familiari, come la Salvia miltiorrhiza. Oppure esotici, come il neem che viene dall'India, o il bintangor che arriva dalla Malesia. Ma oro verde, tutto sommato, rimane una buona definizione: sarà sbrigativa ma, in compenso, fa capire subito che, in questo caso, a contare non è la delicatezza dei petali, né l'eleganza delle foglie. Conta il loro valore tradotto in dollari. Sì, perché si tratta di piante medicinali. La Salvia miltiorrhiza, nota alla farmacopea cinese, aiuta a combattere l'alcolismo. Il bintangor si è dimostrato un buon prodotto contro l'Aids. La pervinca rosa è utile nella terapia anticancro e il neem è una pianta magica: cura l'acne e una serie di malattie che vanno dalle infezioni al diabete.

E, per di più, viene impiegata nella composizione di un insetticida efficace quanto il Ddt, che però non provoca danni all'ambiente. I dollari che sgorgano dai petali della pervinca rosa sono tanti. Milioni di dollari. Miliardi di dollari. Lo si capisce da dati e statistiche su cui si riesce a mettere le mani. Secondo stime diffuse dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, i farmaci che hanno una base vegetale e che circolano nei paesi più industrializzati dell'occidente hanno un valore di mercato che va dai 200 ai 1.800 miliardi. Di dollari. C'è di che lavorare sodo. Per tanti motivi. Il primo: oggi i medicinali di origine vegetale sono circa un quarto di quelli che circolano nelle nostre farmacie. Il secondo: il loro numero potrebbe aumentare, e di molto, dal momento che su 248 mila specie di piante esistenti al mondo solo una piccola percentuale è stata studiata. Il terzo (ed è una considerazione tutt'altro che marginale): l'80 per cento della popolazione mondiale si cura "in verde". Se c'è da lavorare sodo per fare soldi, c'è anche molto da viaggiare. Perché nessuno fa mistero del fatto che il mondo è diviso in due. Quello di sopra, ricco di soldi, di scienza e di malattie. E quello di sotto, povero ma ricco di piante medicinali. L'Amazzonia, le Ande, il Borneo, l'India, la Cina, le Filippine, l'Africa: la grande, inesplorata farmacia creata da madre natura è in larghissima misura lì. Chi non vuole parlare di oro verde e preferisce un linguaggio più asettico e scientifico, definisce tutto questa abbondanza come biodiversità.


. E sempre chi vuole usare un linguaggio scientifico, chiama bioprospecting il lavoro di scienziati e ricercatori, che si addentrano nelle foreste pluviali a studiare le foglie della salute. Sulla biodiversità e sul suo valore cresce anche una piccola giungla di opinioni. Alla milanese Indena - tra le aziende più importanti del mondo per la ricerca dei principi attivi nascosti nelle piante - smorzano i toni e affermano che, grosso modo, i medicinali di origine vegetale hanno sempre costituito il 25 per cento dei rimedi disponibili nelle farmacie occidentali. Il professor Antonio Guerci, direttore del dipartimento di Antropologia dell'Università di Genova e conservatore del museo - unico al mondo - di Etnomedicina calca la mano in direzione opposta sostenendo che, in realtà, la ricerca nel campo dei prodotti di sintesi ha il fiato grosso. Racconta che, fino a una decina di anni fa, le industrie del settore dovevano testare 15 mila molecole prima di arrivare a individuarne una utile dal punto di vista terapeutico. Oggi bisogna testarne 25 mila. Un'opinione del genere, a dire la verità, è condivisa da Valentino Mercati, fondatore di Aboca, importante azienda italiana che copre tutto l'arco produttivo, dalla coltivazione di erbe officinali alla preparazione dei derivati. Mercati sostiene che l'industria del farmaco di sintesi deve affrontare costi sempre più elevati. La colpa sarebbe del pubblico, che si è fatto più esigente e non accetta più medicinali di sintesi, sospettati di provocare nell'organismo del paziente troppi effetti collaterali. Per questo, dice, l'etnofarmacologia è la nuova frontiera della farmacologia. Due sono state le tappe del rilancio della ricerca etnofarmacologica, racconta ancora il professor Guerci. Nel 1960 l'Istituto americano per la lotta ai tumori lanciò una ricerca su vasta scala. Migliaia di piante vennero portate in laboratorio e studiate. Risultato: sedici anni più tardi, i ricercatori avevano individuato solo due principi attivi utili. Ma lo studio era stato condotto assolutamente a caso. Nel 1990, l'Istituto americano per la sanità diede vita a un piano quinquennale, questa volta mirato. Migliaia di ricercatori vennero inviati giù, nel mondo di sotto. Pazientemente, umilmente, interrogarono stregoni, sciamani e curanderos. E testarono solo le piante che già facevano parte delle tradizioni mediche, per quanto diverse e fantasiose. Risultato: in cinque anni furono individuati una ventina di principi attivi utili. A ripianare i costi dello studio sarebbe stato sufficiente individuarne un paio. La strada deve essere davvero interessante e promettente, visto che circa i tre quarti dei farmaci a base vegetale in uso oggi derivano da rimedi già noti presso la medicina indigena. Nel frattempo, nei paesi occidentali accade qualcosa di nuovo, che riguarda insieme la politica, l'economia, la scienza e il costume. Cioè: la spesa sociale destinata alla salute viene considerata troppo alta. Deve essere tagliata. Come? Come già accade in larga misura in Francia, Germania e Stati Uniti e, in maniera un po' più ridotta, in Italia: la gente va dal medico a farsi prescrivere un prodotto solo quando sta male sul serio. Altrimenti si cura da sola. Si auto prescrive i farmaci. E dal momento che verde è bello, e non c'è il rischio di effetti collaterali, si preferiscono le erbe. È l'esplosione dei cosiddetti integratori alimentari, che vengono voracemente consumati per controllare il peso, ridurre lo stress, facilitare la digestione, lenire piccoli dolori, curare raffreddori, prevenire rughe e senilità. E così, l'oro verde del mondo di sotto aumenta ancora il numero di miliardi di dollari che è in grado di produrre. A mano a mano che le cifre salgono, sembra delinearsi il profilo di quella che potremmo definire l'ecologia monetaria. La salvaguardia della biodiversità, e dunque delle foreste pluviali, viene invocata in nome della ricchezza. Quei pazzi che disboscano il Borneo e l'Amazzonia per fare soldi con il legname distruggono irreparabilmente una miniera di denaro etnofarmacologico. E per di più, una miniera rinnovabile all'infinito. La misera sorte delle tribù indigene, disperse dalla deforestazione e poi falcidiate dalle malattie e dalla miseria, aggrava il danno, poiché fa evaporare un sapere prezioso per i protagonisti del bioprospecting; è come bruciare un biblioteca. Senza più sciamani e curanderos da interrogare, bisognerà, come fece nel 1960 l'Istituto americano per i tumori, tornare a una ricerca casuale, con i magri risultati che abbiamo visto. "Un importante motivo per conservare le foreste pluviali è il loro valore, attuale e potenziale, per la medicina", spiega un documento dell'Onu, senza fare mistero del fatto che il valore è anche economico. E il problema è tanto più sentito in considerazione del fatto che, nei prossimi anni, le foreste vergini scompariranno da molti paesi. La giungla di opinioni fatta germogliare dall'oro verde e dai millenari e preziosi saperi dei curanderos si infittisce ulteriormente, in base a considerazioni molto semplici. Qualcuno comincia a fare di conto, e a parlare di biopirateria. La pervinca rosa? La casa farmaceutica Eli Lilly di Indianapolis, che ne ha ricavato un prodotto, ci ha guadagnato 160 milioni di dollari nel solo 1993. E al Madagascar, il paese dove la pianta nasce? Neanche una lira. In India il neem viene usato da sempre, ma è stata una multinazionale occidentale a ottenere i brevetti sui metodi usati per produrre l'estratto del seme. In India l'indignazione è alle stelle: è come se un canadese riuscisse a brevettare il metodo per fabbricare gli spaghetti, costringendo gli italiani a pagargli i diritti su ogni piatto di pasta. Molte industrie giurano che sono questioni del passato. Che dal 1992 sono in vigore gli accordi di Rio de Janeiro, in base ai quali le multinazionali, per poter usare erbe e piante trovate nei paesi del Sud del mondo, devono riconoscere loro adeguate royalty. Ma questo non basta affatto a tranquillizzare chi teme che il Sud del mondo diventi vittima di una nuova forma di sfruttamento coloniale, stavolta di carattere biologico, grazie alle tecniche di manipolazione genetica e alla possibilità, decretata dagli Stati Uniti, di brevettare anche le forme di vita purché frutto dell'ingegno umano. L'economista americano Jeremy Rifkin sta lanciando una battaglia a livello mondiale contro il controllo quasi totale sulla natura che questa realtà può consentire a pochissime multinazionali. E avverte: "Molti governi hanno già messo a punto una serie di impianti per lo stoccaggio dei geni, allo scopo di preservare i ceppi rari delle piante con caratteristiche genetiche suscettibili di acquisire, in futuro, un valore commerciale. Il National Seed Storage Laboratory di Fort Collins, nel Colorado, conserva più di 400 mila semi provenienti da tutto il mondo. Molte nazioni stanno cominciando a creare ulteriori banche genetiche, per conservare rari microrganismi ed embrioni surgelati di animali. Nei prossimi anni, il valore commerciale della maggior parte di queste varietà aumenterà enormemente, visto che il mercato mondiale si baserà sempre di più sull'impiego delle nuove tecnologie genetiche".

Ecco alcuni tra i tanti "principi attivi naturali" ammessi (o in procinto di esserlo) dalle farmacopee ufficiali. ANTIMALARICI Gli Incas curavano la "febbre terzana" con la corteccia dell'albero di china. Il principio attivo, il chinino, fu isolato dai chimici solo nel 1820 e tuttora è essenziale contro la malaria. Ancora più antico è il farmaco che cura la malaria cerebrale, una delle forme più gravi: era tra i 52 "rimedi imperiali" scoperti nella tomba di Ma Wangdui, della dinastia cinese Han (I secolo a.C.). I cinesi lo chiamano Qing-Hao-su, gli occidentali artemisia: l'impiego ufficiale contro la malattia è recentissimo. IMMUNOSTIMOLANTI L'Uncaria tomentosa è usata da oltre duemila anni dalla medicina tradizionale peruviana. L'azione contro tumori, infiammazioni, reumatismi ha trovato riscontri scientifici nella presenza di antiossidanti e di immunostimolanti, come gli oxindole. Tanto che, nel '94, l'Uncaria è stata ufficialmente riconosciuta dall'Oms come pianta medicinale. Oggi è usata come rimedio complementare per l'Aids. ANTITUMORALI Dalla Vinca rosea vengono ricavate la vincristina e la vinblastina. Associate ad altri principi attivi di sintesi, rientrano in alcuni protocolli di cure chemioterapiche. ANTIDEPRESSIVI Per le forme lievi c'è l'iperico, o erba di San Giovanni, ricco di flavonoidi e ipericine. Sperimentazioni cliniche Usane hanno dimostrato l'efficacia, "comparabile a quella degli antidepressivi tradizionali", come ha riportato il British Medical Journal. In Germania, l'estratto di iperico copre il 30% del mercato di questi prodotti. ANTIOSSIDANTI Da piante ed erbe vengono estratte (o riprodotte chimicamente) diverse sostanze antiossidanti, impiegate anche come eccipienti nei farmaci convenzionali. In Giappone si usa, per esempio, il Camu-Camu, il frutto di una pianta amazzonica, che agisce a livello surrenale ed è ricco di vitamina C. ANTIDIABETICI Dalle foglie di ulivo deriverebbe uno degli ultimi ritrovati contro il diabete non insulino dipendente. Si chiama O'life, e abbasserebbe i livelli di insulina a digiuno, senza effetti collaterali. Ricercatori di San Francisco stanno invece studiando le proprietà del Pycnanthus angolensis, l'albero africano della noce moscata. Dalle sue foglie sono stati isolati due composti dall'azione antidiabetica, per ora sperimentata solo sui topi. Di entrambe queste sostanze è stata data notizia sul Journal of Pharmacology Therapeutics. CICATRIZZANTI E FLEBOTONICI Molti farmaci destinati a trattare varici e ferite contengono sostanze di origine naturale. Spiccano, tra le altre, la centella asiatica, che contiene un potente cicatrizzante e viene utilizzata nei paesi di origine addirittura per curare le piaghe dei lebbrosi. Dalle foglie della vite (Vitis vinifera), ricche in tannino, zuccheri, colina e vitamina C, vengono estratti principi utili per la cura dei disturbi della circolazione, dalle varici alla fragilità capillare.
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