“progetto
Jatropha Madagascar “
«Produrre
l’energia elettrica in giardino».
La storia
della coltivazione della Jatropha in Madagascar è cominciata alcuni anni fa e
questo articolo che segue ne è una testimonianza. Solo che il lavoro svolto dalla
Missione dei Frati Minori Cappuccini è stato molto approssimativo e l’arrivo di
Fabio Tinti in
Madagascar
è stato determinante per portare a termine un progetto della Delta Petroli
Italiana.
Ho avuto
uno scambio di corrispondenza con Fabio Tinti e l’ho incontrato
personalmente quando è arrivato in Madagascar per constatare lo stato del
progetto che era stato affidato ai Frati Minori Cappuccini.
Dopo
quell’incontro un dirigente dell’AIM (Associazione Italiani in Madagascar) ha
preso a cuore il progetto di Fabio Tinti ed è riuscito a
completare l’iter burocratico ed ha ottenuto tutte le autorizzazioni per
iniziare la coltivazione della Jatropha in Madagascar.
Il biodiesel dei missionari
L’energia
verde cresce nei paesi poveri e a promuoverla sono i missionari e le
missionarie. Parecchie missioni e villaggi, infatti, coltivano già la Jatropha
Curcas: una pianta robustissima i cui semi, spremuti a freddo, producono un
olio combustibile che non fa fumo né anidride carbonica. E anche l’industria
chimica comincia a fiutare l’affare. Il Progetto Jatropha Madagascar è un progetto
già operativo in fase di completamento per la produzione di semi oleosi (non
alimentari) con proprietà energetiche per la cogenerazione e la produzione di
biodiesel. Il progetto è realizzato dalla Delta Petroli (divisione energia da
fonti rinnovabili) in partnership con la Missione dei Frati Minori Cappuccini
della Provincia del Madagascar. La Delta
Petroli ha investito sul progetto Jatropha Madagascar sulla base della
condivisione del principio di una
impresa etica che sta nascendo in Madagascar grazie all’azione dei Frati
Cappuccini. Il progetto permette di affrontare il tema della lotta alla povertà
con l’aiuto alle opere sociali portate avanti dal lavoro dei missionari;
aiutare i paesi poveri a produrre
energia con tecnologie da fonti rinnovabili; aiutare i paesi europei a produrre
fonti rinnovabili senza speculazione sui prodotti di origine alimentare.
Soprattutto il progetto Jatropha Madagascar permette di riforestare un’area di 30.000 ettari dove c’era una foresta
tropicale pesantemente distrutta.
Le sorelle
Vincenziane a Minga, un villaggio nella foresta tropicale della Tanzania del
Sud, a pochi chilometri dal confine con il Mozambico, raccontano con semplicità
di «produrre l’energia elettrica in giardino». I Padri missionari in Guinea
Bissau la coltivano da anni. I Frati Cappuccini Minori hanno avviato in
Madagascar un progetto con la Delta Petroli. I missionari dell’Aefjn (Africa
Europe faith and justice network), una rete di 43 congregazioni religiose
maschili e femminili presenti in Europa e in Africa, l’hanno piantata in Togo,
Ghana, Senegal, Mali, Costa d’Avorio e Niger: stiamo parlando della Jatropha
Curcas grazie alla quale tantissime missioni e villaggi dei Paesi in via di
sviluppo si sono resi autosufficienti dal punto di vista energetico.
«Tre semi
per la green economy»: uno slogan efficace se riferito a questa pianta
originaria dei Caraibi e appartenente alla famiglia delle Euforbiacee.
Traghettata nelle colonie in tutto il mondo dai marinai portoghesi da cui
veniva usata per costruire recinzioni a protezione di orti e giardini e,
addirittura, per recintare tombe e cimiteri, solo di recente ne sono state
scoperte le preziose e molteplici qualità. Ogni frutto contiene tre semi che,
dopo la semplice spremitura a freddo, producono un olio combustibile che –
quando brucia – non produce fumo ed ha un impatto zero in termini di emissioni
di anidride carbonica.
Può essere
coltivata in condizioni di scarsa piovosità, sopravvive anche a due anni di
siccità e vive in ogni tipo di terreno, persino nelle zone in prossimità del
deserto dove non si riesce a coltivare altro. È quindi accessibile anche nelle
zone rurali più povere e, a differenza della maggior parte delle altre piante
che producono semi oleosi (grano, mais, soia, eccetera), non è commestibile, né
per gli uomini né per gli animali. I residui dei semi spremuti sono un ottimo
fertilizzante e le sue radici proteggono il terreno e con l’olio si fabbricano
saponi. Ha una vita media tra i 40 e i 50 anni.
Può esser
piantata in posizione ravvicinata con una maggior resa: un ettaro coltivato a
Jatropha può produrre fino a 1900 litri di olio combustibile, quasi quattro
volte più della soia e dieci volte rispetto al mais. Infine sul suo fusto si
arrampica come pianta parassita la vaniglia: un connubio che potrebbe rivelarsi
ulteriore fonte di guadagno. Non è un caso che questa pianta abbia destato
anche l’interesse di molte nazioni, come l’India, che l’ha inclusa nel piano
per l’indipendenza energetica entro il 2012: nel solo Stato del Chhattisgarh ne
verranno piantate 160 milioni di esemplari. Ma anche il mondo delle industrie
ne sta facendo oggetto di ricerca e di sviluppo: la società finlandese Wärtsilä
ha dato avvio alla prima centrale elettrica a biocarburante a Merksplats in
Belgio.
Nata da
una joint venture con la Thenergo, società belga di progetti di energia
sostenibile e le aziende agricole locali, sarà una centrale da 9 Megawatt per
un costo di 7 milioni di euro. «Inizialmente – ha detto Ronald Westerdijk,
responsabile dello sviluppo della Wartsila – l’impianto produrrà energia
elettrica per 20.000 abitazioni mentre il calore prodotto verrà utilizzato da
agricoltori locali per riscaldare le serre ed in particolari processi di
asciugatura di fertilizzanti».
In
Sardegna il gruppo internazionale Icq ha presentato un progetto per trasformare
e riavviare la centrale elettrica della ex cartiera di Arbatax utilizzando
l’olio vegetale a basso tasso di inquinamento ricavato dalla Jatropha, che già
coltiva in Benin e Brasile su una superficie di mezzo milione di ettari. In
provincia di Ascoli Piceno la Jatropha Curcas verrà utilizzata per un’altra
centrale: la società impiantistica Troiani e Ciarocchi di Monteprandone ha
stipulato un accordo con il governo del Madagascar per la coltivazione di
100.000 ettari a Jatropha.
L’investimento
ammonta a 5 milioni di euro grazie ai quali si prevede di poter ricavare
300.000 tonnellate di olio vegetale. «L’obiettivo – spiegano i titolari
dell’azienda – è quello di poter favorire entro due o tre anni la costruzione
nel territorio ascolano di tante centrali elettriche di piccole dimensioni,
alimentate proprio con quest’olio».
Gli espedienti di chi è davanti
Per chi
sta davanti, l’operazione di acquisto, affitto, ecc. delle terre è una
questione d’investimento, cioè di “incremento dei beni capitali, di
acquisizione o creazione di nuove risorse da usare nel processo produttivo per
ottenere un maggior profitto futuro”. L’obiettivo è palese: i massicci
investimenti servono per la realizzazione di piantagioni industriali di monocolture
destinate all’esportazione. Le dichiarazioni d’intenti sfiorano l’ipocrisia
quando mettono al primo posto la sicurezza alimentare e lo sviluppo locale dei
Paesi “oggetto” d’investimento. La monocoltura – si sa –, la Rivoluzione Verde
dovrebbe averlo insegnato, distrugge la biodiversità perché geneticamente
uniforme e intacca la sovranità alimentare delle comunità locali, sottrae
risorse idriche, compromette i sistemi agricoli tradizionali. Cosa fa la Banca
Mondiale di fronte a questa distruzione? È spettatrice e complice allo stesso
tempo. Nel 2010, il rapporto “Rising Global Interest in Farmland” era
particolarmente atteso perché doveva fornire un quadro esaustivo
dell’accaparramento di milioni di ettari di terre in Africa, Asia ed America
Latina. Ciò significa che oltre ai dati numerici riferiti agli ettari ceduti,
affittati, acquistati (peraltro già noti), il rapporto avrebbe dovuto fornire
indicazioni sulla tipologia di investitori, sui loro obiettivi e sulle loro
strategie. Nessun accenno. Da sempre favorevole alle privatizzazioni, la Banca
Mondiale appoggia gli investimenti in agricoltura nei paesi del Sud, convinta
che il meccanismo regolatore del mercato libero porti con sé sviluppo, ovunque:
è figlia del Nord che l’ha generata. Via Campesina e le altre organizzazioni
contadine le sono ostili. Paradossalmente, la Banca Mondiale recepisce le
provocazioni trovando modo di trasformare gli evidenti rischi e pericoli per la
piccola agricoltura in opportunità: gli investimenti possono contribuire a rilanciare
economie deficitarie e ad aumentare la produttività agricola. Da qui la
scrittura e pubblicazione di alcuni “princípi per investimenti responsabili in
agricoltura” (RAI): tra questi, rispettare e riconoscimento dei diritti
esistenti di accesso alla terra e alle risorse naturali; non intaccare la
sovranità alimentare; assicurare processi di accesso alla terra trasparenti e
monitorati; generare impatti sociali desiderabili e distribuibili senza
aumentare la vulnerabilità. Imbarazzanti princípi di carta. Quale giustizia ne
assicura il rispetto?
Una corsa contro la sovranità alimentare
Olivier De
Schutter, relatore speciale sul diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite
dal 2008, è convinto che gli investimenti su larga scala in agricoltura non siano
per forza una cosa buona. È critico nei confronti dei RAI della Banca Mondiale;
la sua lista di principi, sottoposta al Consiglio per i Diritti Umani delle
Nazioni Unite, è molto diversa: la terra non deve essere ceduta senza l’accordo
delle comunità locali; gli investimenti devono essere a beneficio delle
popolazioni locali; una percentuale della produzione deve essere venduta sui
mercati locali, ecc. (in .pdf, articolo in inglese). Inoltre, l’istituzione di
un processo trasparente di informazione sui progetti e sulle condizioni di
realizzazione non è una condizione sufficiente perché le popolazioni locali
possano dare il loro consapevole consenso. Permangono forti asimmetrie di
potere a sfavore di chi non ha alternative, depauperato, vulnerabile. Nel frattempo
la corsa avanza e chi sta davanti è sempre più irraggiungibile. Avanza
l’insicurezza alimentare e arretra la sovranità alimentare, in alcuni casi fino
a ritirarsi dalla gara. Capitali transnazionali senza scrupoli e governi
nazionali opportunisti stanno depauperando intere regioni rurali del pianeta.
Laddove l’agricoltura di sussistenza è il principale motore dell’ordinamento
territoriale, l’agro-business è un nemico da respingere perché minaccia il
diritto di decidere cosa, come e per chi produrre. Il diritto al cibo ed alla
sovranità alimentare è minacciato dalle pratiche di land grabbing: il riso
prodotto da Malibya sulle terre dell’Office du Niger prende il volo per la
Libia, come pure quello coltivato in Etiopia è destinato all’Arabia Saudita. Nello
specifico del caso africano, la disponibilità di terre ancestrali sulle quali
le comunità locali praticano un’agricoltura pluviale di tipo tradizionale
(mais, miglio, sorgo o altri cereali antichi come il fonio, Digitaria exilis)
diminuisce progressivamente di fronte all’avanzata tecnologica delle
piantagioni di jatropha o altri vegetali destinati alla produzione di
agrocarburanti. Queste espansioni agricole sottraggono alla piccola agricoltura
quel margine di sicurezza minimale che – fatte salve le eccezioni
pluviometriche negative – ha da sempre consentito di riempire i granai di
miglio. Si forzano le economie locali verso le esportazioni, lasciandole prive
di margini di beneficio e quindi di opportunità di sviluppo e di sopravvivenza.
Secondo Via Campesina “l'agricoltura e l'alimentazione sono fondamentali per
tutti i popoli, sia in termini di produzione e disponibilità di quantità
sufficienti di alimenti nutrienti e sicuri, sia in quanto pilastri di comunità,
culture e ambienti rurali e urbani salubri. Tutti questi diritti vengono erosi
dalle politiche economiche neoliberiste che con crescente enfasi spingono le
grandi potenze economiche come gli Stati Uniti e l'Unione Europea, attraverso
istituzioni multilaterali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO),
il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Mondiale. Invece di
garantire l'alimentazione per tutta la gente del mondo, questi organismi
presiedono un sistema che moltiplica la fame e diverse forme di denutrizione,
con l'esclusione di milioni di persone dall'accesso a beni e risorse produttive
come la terra, l'acqua, le sementi, le tecnologie e le conoscenze” (.doc in
italiano).
Paola Scarsi www.reginamundi.info/
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