giovedì 19 settembre 2013

Il biodiesel dei missionari

“progetto Jatropha Madagascar “
«Produrre l’energia elettrica in giardino».
La storia della coltivazione della Jatropha in Madagascar è cominciata alcuni anni fa e questo articolo che segue ne è una testimonianza. Solo che il lavoro svolto dalla Missione dei Frati Minori Cappuccini è stato molto approssimativo e l’arrivo di Fabio Tinti in Madagascar è stato determinante per portare a termine un progetto della Delta Petroli Italiana.
Ho avuto uno scambio di corrispondenza con Fabio Tinti e l’ho incontrato personalmente quando è arrivato in Madagascar per constatare lo stato del progetto che era stato affidato ai Frati Minori Cappuccini.
Dopo quell’incontro un dirigente dell’AIM (Associazione Italiani in Madagascar) ha preso a cuore il progetto di Fabio Tinti ed è riuscito a completare l’iter burocratico ed ha ottenuto tutte le autorizzazioni per iniziare la coltivazione della Jatropha in Madagascar.




Il biodiesel dei missionari

L’energia verde cresce nei paesi poveri e a promuoverla sono i missionari e le missionarie. Parecchie missioni e villaggi, infatti, coltivano già la Jatropha Curcas: una pianta robustissima i cui semi, spremuti a freddo, producono un olio combustibile che non fa fumo né anidride carbonica. E anche l’industria chimica comincia a fiutare l’affare. Il Progetto Jatropha Madagascar è un progetto già operativo in fase di completamento per la produzione di semi oleosi (non alimentari) con proprietà energetiche per la cogenerazione e la produzione di biodiesel. Il progetto è realizzato dalla Delta Petroli (divisione energia da fonti rinnovabili) in partnership con la Missione dei Frati Minori Cappuccini della Provincia del Madagascar.  La Delta Petroli ha investito sul progetto Jatropha Madagascar sulla base della condivisione del principio di una  impresa etica che sta nascendo in Madagascar grazie all’azione dei Frati Cappuccini. Il progetto permette di affrontare il tema della lotta alla povertà con l’aiuto alle opere sociali portate avanti dal lavoro dei missionari; aiutare i paesi  poveri a produrre energia con tecnologie da fonti rinnovabili; aiutare i paesi europei a produrre fonti rinnovabili senza speculazione sui prodotti di origine alimentare. Soprattutto il progetto Jatropha Madagascar permette di riforestare  un’area di 30.000 ettari dove c’era una foresta tropicale pesantemente distrutta.
Le sorelle Vincenziane a Minga, un villaggio nella foresta tropicale della Tanzania del Sud, a pochi chilometri dal confine con il Mozambico, raccontano con semplicità di «produrre l’energia elettrica in giardino». I Padri missionari in Guinea Bissau la coltivano da anni. I Frati Cappuccini Minori hanno avviato in Madagascar un progetto con la Delta Petroli. I missionari dell’Aefjn (Africa Europe faith and justice network), una rete di 43 congregazioni religiose maschili e femminili presenti in Europa e in Africa, l’hanno piantata in Togo, Ghana, Senegal, Mali, Costa d’Avorio e Niger: stiamo parlando della Jatropha Curcas grazie alla quale tantissime missioni e villaggi dei Paesi in via di sviluppo si sono resi autosufficienti dal punto di vista energetico.
«Tre semi per la green economy»: uno slogan efficace se riferito a questa pianta originaria dei Caraibi e appartenente alla famiglia delle Euforbiacee. Traghettata nelle colonie in tutto il mondo dai marinai portoghesi da cui veniva usata per costruire recinzioni a protezione di orti e giardini e, addirittura, per recintare tombe e cimiteri, solo di recente ne sono state scoperte le preziose e molteplici qualità. Ogni frutto contiene tre semi che, dopo la semplice spremitura a freddo, producono un olio combustibile che – quando brucia – non produce fumo ed ha un impatto zero in termini di emissioni di anidride carbonica.
Può essere coltivata in condizioni di scarsa piovosità, sopravvive anche a due anni di siccità e vive in ogni tipo di terreno, persino nelle zone in prossimità del deserto dove non si riesce a coltivare altro. È quindi accessibile anche nelle zone rurali più povere e, a differenza della maggior parte delle altre piante che producono semi oleosi (grano, mais, soia, eccetera), non è commestibile, né per gli uomini né per gli animali. I residui dei semi spremuti sono un ottimo fertilizzante e le sue radici proteggono il terreno e con l’olio si fabbricano saponi. Ha una vita media tra i 40 e i 50 anni.
Può esser piantata in posizione ravvicinata con una maggior resa: un ettaro coltivato a Jatropha può produrre fino a 1900 litri di olio combustibile, quasi quattro volte più della soia e dieci volte rispetto al mais. Infine sul suo fusto si arrampica come pianta parassita la vaniglia: un connubio che potrebbe rivelarsi ulteriore fonte di guadagno. Non è un caso che questa pianta abbia destato anche l’interesse di molte nazioni, come l’India, che l’ha inclusa nel piano per l’indipendenza energetica entro il 2012: nel solo Stato del Chhattisgarh ne verranno piantate 160 milioni di esemplari. Ma anche il mondo delle industrie ne sta facendo oggetto di ricerca e di sviluppo: la società finlandese Wärtsilä ha dato avvio alla prima centrale elettrica a biocarburante a Merksplats in Belgio.
Nata da una joint venture con la Thenergo, società belga di progetti di energia sostenibile e le aziende agricole locali, sarà una centrale da 9 Megawatt per un costo di 7 milioni di euro. «Inizialmente – ha detto Ronald Westerdijk, responsabile dello sviluppo della Wartsila – l’impianto produrrà energia elettrica per 20.000 abitazioni mentre il calore prodotto verrà utilizzato da agricoltori locali per riscaldare le serre ed in particolari processi di asciugatura di fertilizzanti».
In Sardegna il gruppo internazionale Icq ha presentato un progetto per trasformare e riavviare la centrale elettrica della ex cartiera di Arbatax utilizzando l’olio vegetale a basso tasso di inquinamento ricavato dalla Jatropha, che già coltiva in Benin e Brasile su una superficie di mezzo milione di ettari. In provincia di Ascoli Piceno la Jatropha Curcas verrà utilizzata per un’altra centrale: la società impiantistica Troiani e Ciarocchi di Monteprandone ha stipulato un accordo con il governo del Madagascar per la coltivazione di 100.000 ettari a Jatropha.
L’investimento ammonta a 5 milioni di euro grazie ai quali si prevede di poter ricavare 300.000 tonnellate di olio vegetale. «L’obiettivo – spiegano i titolari dell’azienda – è quello di poter favorire entro due o tre anni la costruzione nel territorio ascolano di tante centrali elettriche di piccole dimensioni, alimentate proprio con quest’olio».

Gli espedienti di chi è davanti
Per chi sta davanti, l’operazione di acquisto, affitto, ecc. delle terre è una questione d’investimento, cioè di “incremento dei beni capitali, di acquisizione o creazione di nuove risorse da usare nel processo produttivo per ottenere un maggior profitto futuro”. L’obiettivo è palese: i massicci investimenti servono per la realizzazione di piantagioni industriali di monocolture destinate all’esportazione. Le dichiarazioni d’intenti sfiorano l’ipocrisia quando mettono al primo posto la sicurezza alimentare e lo sviluppo locale dei Paesi “oggetto” d’investimento. La monocoltura – si sa –, la Rivoluzione Verde dovrebbe averlo insegnato, distrugge la biodiversità perché geneticamente uniforme e intacca la sovranità alimentare delle comunità locali, sottrae risorse idriche, compromette i sistemi agricoli tradizionali. Cosa fa la Banca Mondiale di fronte a questa distruzione? È spettatrice e complice allo stesso tempo. Nel 2010, il rapporto “Rising Global Interest in Farmland” era particolarmente atteso perché doveva fornire un quadro esaustivo dell’accaparramento di milioni di ettari di terre in Africa, Asia ed America Latina. Ciò significa che oltre ai dati numerici riferiti agli ettari ceduti, affittati, acquistati (peraltro già noti), il rapporto avrebbe dovuto fornire indicazioni sulla tipologia di investitori, sui loro obiettivi e sulle loro strategie. Nessun accenno. Da sempre favorevole alle privatizzazioni, la Banca Mondiale appoggia gli investimenti in agricoltura nei paesi del Sud, convinta che il meccanismo regolatore del mercato libero porti con sé sviluppo, ovunque: è figlia del Nord che l’ha generata. Via Campesina e le altre organizzazioni contadine le sono ostili. Paradossalmente, la Banca Mondiale recepisce le provocazioni trovando modo di trasformare gli evidenti rischi e pericoli per la piccola agricoltura in opportunità: gli investimenti possono contribuire a rilanciare economie deficitarie e ad aumentare la produttività agricola. Da qui la scrittura e pubblicazione di alcuni “princípi per investimenti responsabili in agricoltura” (RAI): tra questi, rispettare e riconoscimento dei diritti esistenti di accesso alla terra e alle risorse naturali; non intaccare la sovranità alimentare; assicurare processi di accesso alla terra trasparenti e monitorati; generare impatti sociali desiderabili e distribuibili senza aumentare la vulnerabilità. Imbarazzanti princípi di carta. Quale giustizia ne assicura il rispetto?

Una corsa contro la sovranità alimentare
Olivier De Schutter, relatore speciale sul diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite dal 2008, è convinto che gli investimenti su larga scala in agricoltura non siano per forza una cosa buona. È critico nei confronti dei RAI della Banca Mondiale; la sua lista di principi, sottoposta al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, è molto diversa: la terra non deve essere ceduta senza l’accordo delle comunità locali; gli investimenti devono essere a beneficio delle popolazioni locali; una percentuale della produzione deve essere venduta sui mercati locali, ecc. (in .pdf, articolo in inglese). Inoltre, l’istituzione di un processo trasparente di informazione sui progetti e sulle condizioni di realizzazione non è una condizione sufficiente perché le popolazioni locali possano dare il loro consapevole consenso. Permangono forti asimmetrie di potere a sfavore di chi non ha alternative, depauperato, vulnerabile. Nel frattempo la corsa avanza e chi sta davanti è sempre più irraggiungibile. Avanza l’insicurezza alimentare e arretra la sovranità alimentare, in alcuni casi fino a ritirarsi dalla gara. Capitali transnazionali senza scrupoli e governi nazionali opportunisti stanno depauperando intere regioni rurali del pianeta. Laddove l’agricoltura di sussistenza è il principale motore dell’ordinamento territoriale, l’agro-business è un nemico da respingere perché minaccia il diritto di decidere cosa, come e per chi produrre. Il diritto al cibo ed alla sovranità alimentare è minacciato dalle pratiche di land grabbing: il riso prodotto da Malibya sulle terre dell’Office du Niger prende il volo per la Libia, come pure quello coltivato in Etiopia è destinato all’Arabia Saudita. Nello specifico del caso africano, la disponibilità di terre ancestrali sulle quali le comunità locali praticano un’agricoltura pluviale di tipo tradizionale (mais, miglio, sorgo o altri cereali antichi come il fonio, Digitaria exilis) diminuisce progressivamente di fronte all’avanzata tecnologica delle piantagioni di jatropha o altri vegetali destinati alla produzione di agrocarburanti. Queste espansioni agricole sottraggono alla piccola agricoltura quel margine di sicurezza minimale che – fatte salve le eccezioni pluviometriche negative – ha da sempre consentito di riempire i granai di miglio. Si forzano le economie locali verso le esportazioni, lasciandole prive di margini di beneficio e quindi di opportunità di sviluppo e di sopravvivenza. Secondo Via Campesina “l'agricoltura e l'alimentazione sono fondamentali per tutti i popoli, sia in termini di produzione e disponibilità di quantità sufficienti di alimenti nutrienti e sicuri, sia in quanto pilastri di comunità, culture e ambienti rurali e urbani salubri. Tutti questi diritti vengono erosi dalle politiche economiche neoliberiste che con crescente enfasi spingono le grandi potenze economiche come gli Stati Uniti e l'Unione Europea, attraverso istituzioni multilaterali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Mondiale. Invece di garantire l'alimentazione per tutta la gente del mondo, questi organismi presiedono un sistema che moltiplica la fame e diverse forme di denutrizione, con l'esclusione di milioni di persone dall'accesso a beni e risorse produttive come la terra, l'acqua, le sementi, le tecnologie e le conoscenze” (.doc in italiano). 
Paola Scarsi www.reginamundi.info/
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