lunedì 10 novembre 2014

Occhi Belli

Questi brevi pensieri scaturiscono dall’incontro con il gruppo di Padova.
Durante la meditazione sono apparsi occhi limpidi, luminosi, occhi di bambini.
Per avere gli occhi belli, chiari e sinceri, occorre avere il cuore con la stessa frequenza. Occorre che il cuore sia onesto e possa così inviare energia buona, quell’energia che può rigenerare e guarire.
Ma cosa rigenera il cuore così da illuminare lo sguardo?
Può rigenerare l’essenza spesso dimenticata, l’unità spesso disgregata, l’appartenenza.
E devo dire che il cuore può salvare la mente, può sanare i nostri pensieri.
E quando questo accade, si genera come una stasi che é creativa, nel senso che offre la possibilità di usare gli occhi per osservare e vedere.
Per osservare e vedere l’altro come specchio di sé, anche di sé bambino, di sé confuso, di sé impacciato.
E’ quello che mi succede quando guardo i bambini che incontro.
Questi bambini che cominciano a desiderare troppo, forse il superfluo, cose che non avrebbero mai immaginato.
Ed io mi chiedo se questo vada bene, o se invece non sia la ripetizione di cose che poi riprodurranno insoddisfazione, delusione, distacco dall’essenza della vita.
E mi chiedo se la Vita dovrà esprimere questo, dovrà mettere tutti di fronte a esperienze simili, per capire.
O forse sarà possibile evitare qualche seppur piccola delusione?
Ed é giusto?
Occuparsi senza preoccuparsi... questo può essere il problema.
Occuparsi donando ciò  che si é imparato, con l’esempio e l’azione. Occuparsi così da restare accanto, attenti, ed evitare ferite evitabili. Con l’umiltà di potere sbagliare, di potere  fallire.
Questi occhi belli che chiedono di apprendere, di sperimentare, di vivere.
E questi occhi sono ancora puliti.
E soprattutto esprimono la preziosità di ognuno e di tutti.

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Mahanoro è una cittadina tranquilla e silenziosa sulla costa est del Madagascar.
Cittadina povera, si vede dai prodotti al mercato, ma non misera.

Per qualcuno questo viaggio era un ritorno a Casa,
per altri la ricerca di una nuova prospettiva, per
altri ancora curiosità che si mischia ad un sogno
e per gli ultimi pura condivisione.
Ognuno con le parole e i silenzi ha provato a raccontarsi

Questa, per ora, è la mia bella famiglia;

la vigilia andrò ad Ampasimanjeva per festeggiare

il Natale con quelli che lo diventeranno quando finirò le lezioni



Sono malato

Mi si dice: “Non parlare di cose personali nel tuo blog!”. Ma io so che fin dagli anni Settanta circolava lo slogan: “Il personale è politico e il politico è personale”. Cosa intendessero i “compagni” dell’epoca con tale espressione non so, di preciso, ma io la interpreto nel senso che No man is an island, nessun uomo è un’isola, e tutto ciò che può interessare a un singolo essere umano, può interessare anche a una più vasta categoria di suoi simili. Dunque, perché dare per scontato che tre mesi ai tropici non possano avere effetti deleteri sulla salute, per l’occidentale medio? Se tra i miei lettori ce ne dovessero essere alcuni che hanno intenzione di affrontare questa o anche altre mete esotiche, è meglio che siano preparati a tutto. Se si può imparare dagli errori degli altri è meglio, no? Io so perché sono malato. Perché le mie energie si sono gradatamente esaurite. Non ho fatto sport eccessivo, non ho fatto lavori pesanti, ma un fattore decisivo, che mi aggredisce ogni volta che vengo in Madagascar, è lo stress. Mi piace quindi analizzare con voi questo fenomeno, senza avere la pretesa d’essere un rappresentante tipico della nostra razza, ma sui generis, molto sui generis.

 
Anzitutto, per una persona civilizzata, che ha interiorizzato i concetti di igiene, raccolta differenziata, affidabilità nei rapporti interpersonali, essere catapultati nella preistoria è senza dubbio un trauma, che pone un primo tassello allo stress susseguente. Ci si salva solo pensando che a una data precisa la nostra macchina del tempo targata Air France ci riporterà indietro ai tempi nostri.

Il secondo tassello, per noi animalisti, è che ci si trova a vivere in mezzo ai macellai. Ovvero, quel gentile signore vicino di casa, che un momento prima è stato amabile e amichevole, subito dopo torna a casa sua, afferra le anatre e le macella. E voi siete rimasti di qua del fragile recinto ad ascoltare impotenti lo starnazzare delle povere bestie e i successivi colpi di coltello sulle loro carni, fatte a brani su un tagliere. I non animalisti (e anche qui ne circolano) non solo non capiscono, ma nella migliore delle ipotesi si mettono a ridere considerandoci ingenui ed esaltati, mentre nella peggiore s’arrabbiano tirando in ballo i problemi più gravi come la denutrizione infantile, adottando quella tecnica psicologica che comunemente viene chiamata “benaltrismo”. Mentre nelle nostre città sappiamo dove si trovino le macellerie ed evitiamo di prendere quella precisa strada, facendo una deviazione per non passarvi davanti, qui non è possibile, giacché ovunque si posi lo sguardo si vedono condannati a morte in attesa di esecuzione, che attraversano la strada proprio quando passano taxi brousse e camion a tutta velocità, aggiungendo la loro parte di stress al quantitativo generale.
Succede raramente che polli e anatre vengano investiti, ma solo perché polli e anatre hanno un padrone che andrebbe risarcito. I cani, invece, nessuno si cura di non investirli. Non c’è nessun padrone da risarcire. Anche quando l’avevo appena conosciuta, Tina non era molto d’accordo che io dessi pane e latte ai cani vaganti. Oggi che accampa su di me il diritto di stabilire cosa posso fare e cosa no, è molto peggiorata. Non vuole che dia da mangiare ai cani dei vicini, magrissimi, perché dice che potrebbero avvelenare il cane, chiamare i poliziotti per far loro constatare il decesso e accusarmi di averglielo avvelenato. Da lì, all’estorcermi denaro, da spartire poi tra poliziotti e vicini di casa, il passo è breve e automatico. Sembra poca cosa, ma anche vedermi negato l’atto pratico di un minimo di semplice zoofilia, genera una frustrazione che va ad aggiungersi allo stress generale. Anche in questo caso, i non animalisti, fregandosene di tutto e di tutti, salvo poi stracciarsi le vesti per “i bambini che muoiono di fame in Africa”, sono avvantaggiati.
 Il cibo. Parlatone a voce con il paramedico che funge da padre adottivo per Odillon e Sammy, Tina mi ha riferito che secondo lui, per rimettermi in forze, dovrei mangiare pesce. Dopo molte ore mi dice che l’infermiere stava scherzando, cioè mi stava prendendo in giro. Sono stato il più attento possibile ad assumere il giusto quantitativo di vitamine, considerato che le uniche frutta disponibili in questa stagione sono arance, mandarini e banane, oltre agli ananas. Purtroppo, come i cani sono competitori per il cibo per i malgasci, così Odillon, Sammy e Annika sono competitori per la frutta per me. Credete che oggi, che è domenica, ci sia frutta in casa? Non ce n’è perché appena i bambini arrivano Tina s’incarica di metterli a proprio agio con ciò che trova in cucina. Non che la cosa mi dia fastidio, ma oggi sta succedendo con la frutta (mancante) ciò che normalmente mi succede con il credito telefonico. Quando arriva il momento di dover fare una telefonata, non ho più credito perché Tina me l’ha consumato tutto, benché lei abbia il suo cellulare. Dunque, come si può rimediare a questi inconvenienti? Mettendo sotto chiave frutta e telefonino?
Freeanimal

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Incontrando gli amici, al rientro dal mio primo viaggio in Madagascar,
alla domanda cosa ti sei portato dal Madagascar, ho risposto:
“la voglia di tornare”.

Lala e Gianni si sono sposati con il rito malgascio

Dal villaggio si può poi raggiungere la vicina isola di Lokaro, ma anche rimanendo sulla penisola, ci sono belle opportunità per passeggiare, girare in piroga, nuotare e fare un buon snorkeling

Quando Tina me lo indicò, mentre, con un gomito appoggiato
al bancone del bar sorseggiava un Pastis

 L’illusione per questi uomini non è solo quella di risentirsi giovani e cool
ma anche quella di sentirsi ricchi.

di Roberto Duria
Melania e Andrea potrebbero andare a Mangily via mare
con la loro lakana, ma finché non impareranno a manovrare
bene quell’imbarcazione a bilanciere tipica delle coste del Madagascar

Ed io, che ero partito quasi solo per stare con lei, ora mi toccherà tornare,
per dire a Fahali che non sono come la neve, ma che esisto anche in Madagascar



Angady e zebù


In piedi nel campo, una fionda nella mano, un contadino scaccia gli uccelli con colpi precisi e veloci. Uno di loro caccia un urlo e vola via dopo essere stato colpito e il contadino smette un secondo di ridere solo per badare alla pentola di riso che gorgoglia ai suoi piedi.

Si chiama Mami Niriana Rakoto e, come molti altri contadini – e in Madagascar sono contadini otto persone su dieci – vive letteralmente di riso. Ne mangia quasi un chilo al giorno (il 60-70% delle calorie quotidiane) e i suoi guadagni dipendono esclusivamente dal surplus che riesce a vendere. Pianta, coltiva e raccoglie con l’ausilio di un solo attrezzo: l’angady, una vanga fatta a mano. La moglie intreccia cestini per trasportare, insieme ai figli, le piantine di riso per il trapianto. Il loro ettaro e mezzo di terra si trova a un chilometro dalla riserva di Andasibe e, al mattino, Rakoto può sentire i lemuri indiri indiri chiamarsi l’un l’altro, dalle cime ondeggianti dei palissandri.

Quando ha riso da vendere, aggiunge il suo sacco al carro trascinato da un gobbo zebù che il vicino guida fino al mercato di Moramanga. Un altro zebù tira l’aratro nel campo; qui, al contrario di molte altre aree del Madagascar, l’utilizzo dell’attrezzo non è proibito da un complicato sistema di tabù, denominato fady. Nelle aree dove gli aratri sono fady, i contadini fanno semplicemente camminare gli zebù sui campi, con il limitato effetto di areare il fango con gli zoccoli.

La famiglia di Rakoto mangia riso tre volte al giorno: cotto in una zuppa con erbe selvatiche a colazione, condito con peperoncino e sale a pranzo, e, per cena, accompagnato da pollo bollito, uova fritte, lenticchie o foglie di cassava pestate e cotte nell’olio di palma. Si pasteggia normalmente con rano-pangu, l’acqua di cottura del riso, mentre, dopo cena, Rakoto si concede alcuni bicchierini di toka-gasy, una specie di rum dolciastro prodotto in casa (la canna da zucchero cresce in un piccolo campo al limite del suo terreno).

A differenza degli agricoltori, la maggior parte dei malgasci che vivono in città mangiano riso importato. In particolare pakistano, che costa come quello locale (o leggermente di più), ed è più pulito. I locali, infatti, fanno asciugare le spighe sulla terra e usano un mortaio per pilare: il prodotto finale, quindi, spesso ha chicchi rotti e un’alta percentuale di impurità.

Tra le varietà del Madagascar ce n’è una – dal colore rosso scuro – che si vende più facilmente delle altre. Chiamata Varymena nel dialetto locale, è considerata indigena dell’isola. Probabilmente, gli Indonesiani che colonizzarono l'isola nell’anno Mille portarono con sé varietà Japonica bianche della specie Oryza sativa, che si sono poi incrociate con quelle selvatiche e rosse dell'isola. Il risultato è una varietà metà asiatica e metà africana con un gusto ricco e note di nocciola. Ricco di vitamine, secondo le anziane malgasce il Varymena deve essere tenuto da parte per i vecchi, i bambini e i malati.

Rakoto riserva un pezzo del suo terreno al Varymena per la sua famiglia, ma la sua coltivazione è sempre più rara a causa delle rese molto basse (forse legate ai suoi antenati selvatici) e dei prezzi spuntati sul mercato. Quel poco che arriva in città, infatti, viene deprezzato per la lavorazione rustica e imperfetta e vale la metà rispetto al riso bianco importato dal Pakistan.

Tuttavia è stato dimostrato che il Varymena ha le potenzialità per ottenere rese più alte: la combinazione di questa antica varietà con le moderne tecniche agronomiche potrebbe permetterne la coltivazione su scala commerciale. E date le ottime qualità organolettiche, si potrebbe investire in una filiera di qualità, valorizzandolo sul mercato locale e internazionale.
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E’ trasformare una sgualcita maglia da donna in un vestito
con cintura di corda per tua figlia perché non ha vestiti

Quando Gigi viene punto, poi non riesce più a dormire
e così si è alzato


Feci servizio alternativo al militare, quando uscì per la prima

volta una legge che consentiva di evitare l’obiezione alle armi 

Un vino rosso finanzia gli acquedotti in Madagascar


Grazie alla vendita del Merlot Vallombrosa, si è potuto finanziare il progetto sull'isola malgascia. Devoluti oltre 120mila franchi

Dieci anni di collaborazione tra la Tamborini Vini di Lamone con la Fondation Suisse Madagascar (FSM) hanno permesso di destinare oltre 120 mila franchi al progetto “Acqua potabile per tutti”, messo in opera sull’isola malgascia. In totale sono stati costruiti 21 acquedotti in altrettanti sperduti paesini sull’isola Nosy Be, a beneficio di una popolazione totale di circa 30mila persone. Per il finanziamento delle opere (circa 400'000 franchi) la FSM, oltre che alla Tamborini Vini, sponsor privato principale, ha potuto attingere anche ad altri fondi pubblici svizzeri.
La ditta vitivinicola di Lamone ha finanziato questa sponsorizzazione avvalendosi di uno dei suoi prodotti di punta, il vino rosso prodotto sotto l’etichetta della Tenuta Vallombrosa di Castelrotto, in Malcantone. In accordo anche con Manor Ticino che si occupa di una parte della distribuzione, è finora stato possibile destinare alla causa una media di oltre 5 franchi per bottiglia venduta. Importo ovviamente non ricaricato sul costo della bottiglia ma scaturito dalla rinuncia del margine di guadagno da parte del produttore e del distributore.
Nell’arco di dieci anni Tamborini Vini e Manor hanno smerciato 22'990 bottiglie con la particolare etichetta azzurra che riproduce una donna malgascia che trasporta sul capo un rudimentale recipiente per il trasporto dell’acqua.
La FSM, ONG ticinese, dal canto suo non si limita al progetto “Acqua potabile per tutti”, ma è da sempre attiva sull’isola africana anche nel campo sociale, dell’istruzione e della sanità.

Nella foto, da sinistra, Fiorenzo Melera, Mascia Cantoni e Claudio Tamborini qualche giorno fa alla consegna della somma scaturita grazie alle vendite dello scorso anno.

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Nicola, da alcuni anni, è impegnato a salvaguardare, attraverso un piano
di ripopolamento,alcune specie arboree autoctone molto preziose della famiglia dei “palissandri”

un luogo in cui il tempo sembra essersi praticamente fermato
sotto molto punti di vista,primo fra tutti quello naturalistico

la storia di due amiche volontarie nel Madagascar

È il Madagascar la seconda patria di Carlo Bresciani. Non è una vacanza
Non sono i tesori inimitabili di una natura splendida, selvaggia e incontaminata ad averlo stregato Carlo, originario di Prevalle, si è innamorato della gente. Di quella gente, poverissima e buona.

Lui, Nicola Gandolfi è là, per salvare la biodiversità,
in una parte di mondo che viene definita «patrimonio
dell'umanità da salvaguardare»



martedì 28 ottobre 2014

Il Madagascar di padre Giuseppe Nicolai

Dal 1987 il sacerdote dehoniano vive la sua esperienza missionaria nel Paese africano dove vive «un popolo povero ma sempre contento». «Sono disponibile allascolto e a incontrare le necessità materiali e spirituali delle persone»
Abbiamo incontrato padre Giuseppe Nicolai, imolese di adozione, missionario in Madagascar. Gli abbiamo chiesto di parlarci della sua attività e dei suoi rapporti con il popolo malgascio.
Come è nata la tua vocazione ?
Sono in Madagascar dal 1987, da più di 20 anni; sono missionario della congregazione del Sacro Cuore di Gesù, più popolarmente conosciuta come dehoniani.
Ero religioso, diacono. Ad un certo punto ho sentito la necessità di partire per la missione e sono stato inviato in Madagascar dove la mia congregazione era già presente da anni.
Perchè hai rispreso gli studi?
 Andando nei villaggi, dove le persone aspettano e chiedono la presenza del sacerdote, mi sono reso conto delle tante necessità della gente e sentendo il vescovo, che desiderava avere altri sacerdoti per soddisfare il più possibile i bisogni spirituali del suo popolo, ho chiesto di riprendere gli studi. Sono tornato per quasi tre anni in Italia, ho terminato gli studi di teologia e nel 1995 sono ripartito per il Madagascar come missionario sacerdote.
Cosa hai visto in Madagascar?
Nel corso degli anni mi sono convinto che rapportarsi con il popolo del Madagascar significhi soprattutto essere disponibili all’ascolto, pronti a venire incontro alle necessità delle persone. Le necessità sono tante e diverse: da quelle materiali (molti hanno bisogno di vestiti, di scarpe, ecc.) a quelle spirituali. I malgasci hanno bisogno di una guida, della presenza del sacerdote, che sentono come un "inviato di Dio". Per loro il missionario è una persona che lascia la propria terra, i propri affetti per restare con loro e condividere la loro vita. In cambio danno tanta gioia e serenità: è difficile vedere un malgascio triste, cominciando dai bambini ai giovani e agli adulti. Ho visto adulti malati, lebbrosi, malati di tubercolosi ricoverati dalle suore sempre con il sorriso sulle labbra, capaci di esprimere la gioia di vivere. Non si lamentano mai, ma dicono: c’è sempre qualcuno che sta peggio di me.
Quali sono le condizioni di vita dal popolo malgascio?
La vita della gente è molto semplice. Lì si coltiva prevalentemente il riso. Abbiamo insegnato nuove tecniche agricole, portato vari strumenti di coltivazione e proposto altre colture. La terra è molto fertile e i malgasci hanno voglia di lavorare: non si può certo dire che siano pigri: basta vederli lavorare sotto il sole cocente a 40-45 gradi per delle ore per raccogliere il frutto del proprio lavoro. Nella zona in cui vivo c’è anche molta pesca, siamo sul più grande lago del Madagascar, che è molto pescoso e con tante varietà di pesce, che viene anche essiccato e venduto in altre zone. Pure il riso prodotto (la nostra zona è la risiera del Madagascar) serve per il consumo interno e viene esportato, assieme al pomodoro. Il problema maggiore è la mancanza di acqua e per supplire a ciò abbiamo insegnato a scavare pozzi, per cui nei villaggi più grandi vi sono ora pozzi e pompe per l’acqua. Nelle case non c’è acqua corrente. La vita in Madagascar è diversa da quella alla quale siamo abituati in Italia; se un ragazzo mi chiedesse di parlargli della vita dei malgasci gli direi semplicemente: vieni, vedi, sperimenta… e poi fai!
Qual è la situazione sociale?
In Madagascar non c’è una classe media: vi sono i poveri, che sono davvero poveri, e i ricchi.
Il Paese sta vivendo un periodo di trasformazione.
Avete mezzi d’informazione che consentano la conoscenza della situazione reale?
I giornali arrivano solo nelle grandi città, non nei villaggi. L’informazione nei villaggi è possibile solo attraverso la radio; c’è una radio quasi nazionale, gestita dai Salesiani, "Radio don Bosco". La televisione si vede solo nelle città e non nell’interno dell’isola; d’altra parte i televisori costano moltissimo ed i malgasci non possono acquistarli. Nelle città ci sono anche i computer e internet, altrove non ci sono, anche perché non c’è corrente elettrica. Questa comincia ora ad arrivare, per qualche ora al giorno, nei villaggi più grandi.
Quali sono gli impegni nella tua giornata-tipo?
Posso parlare della giornata della piccola comunità in cui vivo. Siamo in tre: io, un sacerdote malgascio ed uno studente che si prepara ad affrontare gli studi di Teologia. La nostra giornata inizia alle 5; alle 5.45 ci sono le Lodi in chiesa con la gente e le suore; poi si celebra la Messa e, dopo la colazione, si inizia il lavoro. Abbiamo un campo da coltivare: il sacerdote e lo studente lavorano lì; io resto in casa per ricevere le persone che vengono continuamente per le loro necessità. Altrimenti vado nella città vicina, che dista 22 chilometri e mezz’ora di viaggio, per varie necessità. Tutti i lunedì ci vado per partecipare alla riunione di tutti i sacerdoti, organizzata dal vescovo. Durante la settimana mi capita di ritornarvi per alcune commissioni: abbiamo una piccola falegnameria ed una piccola officina meccanica e spesso occorrono attrezzi o pezzi per le macchine. Si pranza alle 12, poi si riposa un po’ e si riprendono le attività alle 14, con le visite alle persone, nei quartieri, fino alle 18-18.30. Poi c’è l’Adorazione, il Vespro e la cena. Dopo cena ci si ferma un po’ a parlare e poi si va a dormire.
Come sono organizzate le vostre comunità e le chiese?
Abbiamo venticinque villaggi e venticinque chiese. Nei villaggi i catechisti sono il braccio destro dei sacerdoti e fanno ciò che in Italia fanno solitamente i diaconi, i ministri e gli educatori: si interessano sia delle cose spirituali, sia delle necessità delle persone e fanno fronte alle diverse urgenze. Si occupano della scuola di catechismo, curano la liturgia della Parola nelle varie chiese, dove il sacerdote non può essere presente. C’è poi, in ogni villaggio un comitato, formato da un presidente, un segretario e un economo, che organizza il coordinamento fra tutti gli ambiti della pastorale ed è il punto di riferimento fra la comunità e il sacerdote.
Come valuti, nel complesso la tua esperienza?
Arrivando là mi si sono aperti vasti orizzonti: ho certamente incontrato difficoltà , ma ho trovato anche tanta gioia nella risposta delle persone, e quindi tanta soddisfazione. Ringrazio sempre il Signore per avermi dato l’opportunità di fare questa grande esperienza.
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La mia prima casa era nel campo base a circa mezz'ora da Sambava verso Andapa. Mi ricordo un nome " Ambatolokoho "

Intervista a Fabiola Mancinelli, antropologa del turismo che
dopo un passato nella comunicazione e nella ricerca di tendenze
ha deciso di partire per studiare il Madagascar
                                                                                           
Il sole, il mare, le spiagge, ma soprattutto la gente
ci ha fatto pensare che la nostra pensione(sic!) che
era  prossima, avrebbe potuto godere di tutto questo

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La nazionale di Coppa Davis del Madagascar

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23esimo ritratto di Spazio (all’altro) Tennis tutto dedicato alla realtà tennistica del Madagascar. Ad accompagnarci in questo percorso l’attuale capitano del Team di Coppa Davis Rajaobelina Rija Terry.
Gli inizi e il primo approccio col tennis: “Ciao a tutti, sono Rajaobelina Rija Terry, ho 42 anni e sono nato e cresciuto ad Antananarivo, capitale del Madagascar. Dal momento che vivevamo nelle vicinanze di un Club all’età di 11 anni mi sono deciso a provare questo sport ed essendomene subito innamorato, passavo intere giornate ad allenarmi contro il muro del garage. Così quando i miei genitori si sono resi conto che non riuscivo a staccarmi dal tennis mi hanno portato dal più famoso allenatore della città, Max Randriantefy, dicendomi che “se volevo fare questa cosa, allora avrei dovuto farla al meglio”.
I primi spostamenti e l’incontro chiave con Dally e Natacha Randriantefy: “Un giorno Max mi ha presentato le sue figlie Dally e Natacha (rispettivamente top 50 e top 325 Wta) che erano già indirizzate verso un futuro nel tennis. Dopo qualche allenamento mi ha proposto di unirsi al loro team, ma i miei genitori preferivano che andassi a studiare in un college francese e così ho rinunciato, arrivando poi (con il sogno del tennis sempre in testa) a laurearmi in ingegneria informatica. Pochi anni dopo sia Dally che Natacha incontrarono difficoltà a sostenere economicamente un’intera stagione in giro per il mondo e così ho proposto loro di raggiungermi in Francia per guadagnare denaro su tornei minori, reinvestendoli poi nel circuito maggiore. E’ li che ho iniziato una nuova carriera che mi permetteva di giocare, ma anche di fare da allenatore, dirigente, sparring partner e anche autista!. Ricordo ancora i viaggi che facevamo su questa vecchia auto in giro per i tornei come la parte migliore della mia vita!”.
Uno sguardo completo sul Madagascar, tra fattori socio-economici e tanta voglia di investire sul tennis: “Il Madagascar è uno stato molto grande che può essere paragonato, in termini di superficie, a Francia, Belgio e Olanda, con una popolazione superiore ai 22 milioni di abitanti, una soglia di povertà al 92% e un salario minimo di circa 50 euro. Da queste prime considerazioni potrete ben capire come giocare a tennis sia già una sorta di lusso. Ad Antananarivo abbiamo 8 Club con 7 campi molto ben attrezzati, allenatori competenti e in aggiunta altre piccole strutture sparse per il paese. Mi rendo conto che non è moltissimo e che complessivamente siamo meno organizzati rispetto ad altri Stati, ma quello che ci rende determinati è l’amore per la competizione e lo sport in generale, a cui va ad aggiungersi il sogno sempre vivo di ripetere le gesta della nostra miglior giocatrice, l’ex numero 44 Wta Dally Randriantefy”.
Le difficoltà economiche sulla strada del “sogno”: “Ovviamente dobbiamo scontrarci però con più di una difficoltà, essendo il tennis uno sport costoso ed essendo noi costretti a spostarci dall’isola dove abitiamo per gareggiare nei tornei. Basti pensare che per l’ultima trasferta di Davis in Egitto abbiamo dovuto organizzare una campagna fondi in loco e su facebook a causa dell’impossibilità dell’Associazione Nazionale di pagarci i voli. Tutte queste continue difficoltà psicologicamente sono un freno enorme per i nostri giovani talenti, ben consapevoli inoltre di dover abbandonare molto presto il loro paese se determinati ad impostare la loro vita sul gioco del tennis”.
Capitolo Coppa Davis, tra il passato di Rajaobelina e le sue speranze nel futuro: “Per quanto mi riguarda ho giocato 18 volte in Coppa Davis e non so dirvi quanto mi abbia reso orgoglioso. Stiamo lavorando per ottenere fondi dal governo per la costruzione di un campo nazionale di tennis e speriamo che l’approdo in Madagascar di grandi squadre possa velocizzare questo progetto. Attualmente ho l’onore di essere il capitano di Coppa Davis, ruolo che condivido con la mia compagna Natacha Randriantefy, capitana di Federation Cup. Nel complesso tutta la mia famiglia si sta adoperando con grande passione e dedizione per il futuro tennistico del Madagascar visto che Dally ha il suo Club e sta spingendo per dare luce a qualche Itf e suo padre Max continua ad allenare nella sua Accademia ad Antananarivo”.

-Le conclusioni finali di Terry, con uno sguardo sempre lucido ai progetti futuri:
 “Tenendo sempre ben presenti le notevoli difficoltà economiche del nostro paese direi che complessivamente il tennis è uno sport che si difende bene in Madagascar. Questo ci porta a continuare a lavorare con serietà e grande passione, cullando sempre il sogno di tornare a vedere qualche giovane nostro talento calcare il circuito maggiore e tornare a disputare un torneo del Grande Slam”.

Il tennis in Madagascar
di Enrico Maria Riva
Un polacco che si mette a fare osservazioni sulla complessità di pronuncia di un cognome è un’avvenimento che desta attenzione. Quando Grzegorz Panfil ha confessato di non essere in grado di scandire il nome del suo avversario nella sfida di Davis disputata la settimana scorsa è stato necessario indagare oltre. E’ venuto fuori che aveva ragione: citare Antso Rakotondramanga è lavoro per abili logopedisti. Eppure è la normalità in Madagascar, terra di pochissimi giocatori di tennis, tra cui si annoverano i compagni di squadra di Antso: Ando Rasolomalala, Jacob Rasolondrazana e Lofo Ramiaramanana.
Il Madagascar è un paese africano fino ad un certo punto. E’ distante dal continente, ha risorse scarse rispetto ai vicini continentali ma è meta costante del turismo europeo. Non c’è albergo o resort sull’isola che non abbia un campo da ma difficilmente a giocare ci si mettono anche i locali. Fino agli anni ’90 almeno.

Qualcuno ricorderà la storia di Dally Randriantefy, la 17enne che nel 1995 arrivò sino al terzo turno degli Australian Open, battuta da quella Mary Pierce che alla fine avrebbe sollevato il trofeo, e che raggiunse la posizione numero 44 del mondo. Una storia esemplare su come l’isola sia ancora legata a doppio filo all’Europa: Nick Possa, svizzero proprietario di hotel è in vacanza ad Antananarivo, la vede giocare e capisce di aver trovato un talento e con un gruppo di amici si organizza per trovarle degli sponsor. Grazie ai programmi Itf per lo sviluppo del tennis juniores Dally inizia ad essere seguita da coach professionisti e in breve tempo diventa l’atleta più famosa di sempre in Madagascar. I suoi 7 titoli rimarranno tutti a livello Itf ma è una distinzione a cui pochi prestano attenzione sull’isola.

Speranze per lo più al femminile quelle del Madagascar ma che sembrano mostrare segni di continuità confortante in Zarah Razafimahatratra (nella foto ), due volte campionessa africana junior e con ambizioni da alta classifica. Nata tennisticamente in Sudafrica Zarah ha sfruttato l’onda lunga di Dally con cui il padre Julien si allenava in gioventù prima di diventare coach nel Ambohibao National University Tennis Center. Per anni e sotto diverse Federazioni, il tennis malgascio è evoluto su due binari paralleli. Il primo, altamente infruttuoso, è stato quello di cercare la strada del professionismo da soli, il secondo è invece passato attraverso il Centro ITF di Pretoria, con l’obiettivo di costruire una buona carriera Junior per poi continuare possibilmente in un college americano grazie alle borse di studio.
A livello maschile le cose sono sempre andate maluccio. Rakotondramanga è l’unico giocatore ad avere attualmente una classifica Atp con 1 punto, conquistato peraltro grazie alla sconfitta contro Panfil in Davis. Se si esclude John van Lottum, olandese nato ad Antananarivo e numero 66 del mondo nel 1999, bisogna spulciare sul sito Itf per scoprire due cose: una interessante e una maniacale. La notizia interessante è che il primo giocatore malgascio di cui ci sia traccia ufficiale risale agli anni ’60. Si tratta di Martin Razafindrakoto, si sa che è nato nel ’47 ma non si va oltre. Quella maniacale è che ci sono 18 giocatori nell’elenco ufficiale e di questi 14 iniziano per R (A livello femmninile sono 12 su 13). Vorrà pur dire qualcosa…
Tornando seri, in questo periodo la federazione tennis malgascia non naviga in acque tranquille. Il debito di 47.000$ accumulato tra il 2005 e il 2010 con l’Itf è stato onorato solo parzialmente e i 22.000$ che rimangono ancora da pagare rischiano di bloccare a lungo lo sviluppo del tennis locale. La speranza è quella di mantenere il gruppo II di Davis e per farlo occorrerà sconfiggere il Lussemburgo.
Fonte : http://www.spaziotennis.com/
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sono state le innumerevoli emozioni vissute da me
e i miei compagni nel pescare le acque del Madagascar

MERAVIGLIOSO

“… Ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso...”
Ne é passato di tempo da quando il  “Mimmo nazionale” cantava questi versi. E che nostalgia…
Allora il mondo sembrava veramente meraviglioso, e la gente sorrideva un po’ di più.
Oggi c’é qualcuno che vuole togliere il respiro alla terra e ai suoi abitanti.  C’é chi crede di essere il proprietario della vita e non si accorge che la sta distruggendo.  Ma come si fa ad essere così drammaticamente imbecilli da non rendersi conto che viviamo contro natura e che invece basterebbe poco (si fa per dire...) per riprendere in mano il miracolo della vita.
Disastri, terremoti, alluvioni, i cieli feriti... e adesso anche la neve di plastica!!!
Hanno negato alla terra il bisogno di accogliere l’acqua, ne hanno occlusi i pori così da impedirle il naturale assorbimento... la terra sembra che non abbia più sete...
Il veleno che sgorga dalle menti di questi predatori di coscienze, dai cieli inonda la terra lasciando tracce di dolore per tutti. Incomprensione, stupore e tristezza.
E c’é ancora chi crede di avere il diritto di sottomettere gli altri, di imporre la paura e ne ride anche.
Tutto sembra sotto sopra, ti guardi intorno e vedi sofferenza, disagio, disperazione.
E abbiamo bisogno di questo per realizzare il fatto che in fondo abbiamo anche un cuore. Sembra ridicolo che per l’essere umano sia necessario creare la sofferenza per poi scoprire che é in grado di porgere un conforto. Bizzarro davvero...
E la paura, quella che ti obbliga a guardare in basso, a non sfiorare chi ti passa accanto, a non incontrare lo sguardo dell’altro. Non so, ma forse è proprio vero che quello che facciamo, lo facciamo o per paura o per amore.  O ancora per paura di amare...
Quelli che stanno facendo di questa terra la loro pattumiera, io credo abbiano paura della vita perché la vita li mette alla prova, li costringe a guardarsi allo specchio, a scoprire le loro stoltezze  e nefandezze.  La vita li obbliga al rispetto per qualcosa che preferiscono dimenticare: che la vita é un miracolo. Questi signori della sporcizia preferiscono invece iniettare il terrore nei cuori degli umani perché così potranno poi chiedere di essere ringraziati per avere salvato il salvabile. E così s’inventeranno nuove malattie, nuovi farmaci, nuovi vaccini... nuove prigioni.
Ma c’é chi crede  ancora che questa terra  e questo mondo possano ancora  risorgere, possano ancora risplendere di luce e cantare l’armonia della vita. E dobbiamo crederlo, oltre ogni speranza, con l’azione e il coraggio che possiamo solo trovare nella Vita alla quale apparteniamo.
E così potremo accorgerci di quanto questo mondo possa divenire “meraviglioso”.
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Granello di Senape

Il Granello di senape è presente in Madagascar dal 2003 in due quartieri di Antananarivo (la capitale) e nel villaggio rurale di Antanifisaka, distante circa 45 km dalla città. Si è iniziato ad operare aiutando alcune centinaia di bambini a frequentare la scuola. Negli anni questo intervento si è ampliato e perfezionato: si continua a garantire a circa 400 bambini il necessario per la loro scolarizzazione, la mensa scolastica e le cure mediche; in più si è coinvolta sempre più la popolazione locale (a partire dalle famiglie degli stessi bambini) nel processo di crescita individuale e collettiva e nella partecipazione attiva al miglioramento della qualità della vita.
I progetti che costituiscono il “Piano” sono coordinati da un’equipe locale formata da 5 persone, due volontarie internazionali in loco e un gruppo di progetto in Italia. Oltre a questi, per la gestione delle attività vengono pagati 4 maestri, tre responsabili delle mense e un coordinatore/animatore nel villaggio di Antanifisaka.
Il Piano di intervento si struttura in tre grandi aree:
L'area educativa: riguarda ad oggi 364 bambini scolarizzati grazie alle adozioni a distanza. Il progetto prevede anche attività extrascolastiche per i bambini sia fuori che dentro la scuola. C'è un gruppo di volontari locali che organizzano numerose attività per coinvolgere i bambini su tematiche sociali attraverso i giochi, lo studio, l'analisi dei problemi quotidiani, l'immaginazione di possibili cambiamenti e di come attuarli. Nel suo ambito, vengono gestite 3 mense scolastiche più una in collaborazione con le piccole suore missionarie della carità del don Orione.

L'area sanitaria: assicura l'assistenza ai bambini e alle loro famiglie in caso di malattia. Questo progetto si occupa anche dell’ospedalizzazione di persone in gravi condizioni di bisogno, che richiedono cure specifiche le cui spese sono sostenute dal progetto grazie ad apposite donazioni. Vengono anche organizzate campagne di prevenzione alle malattie più frequenti, iniziative di sensibilizzazione alla cura personale e all'igiene della casa, momenti di educazione-informazione sanitaria all'interno di uno dei maggiori ospedali della capitale, sostegno psicologico di base ad alcune famiglie con bambini ospedalizzati per cause legate alla malnutrizione. Sia nella sede del GdS ad Antananarivo sia ad Antanifisaka c'è un piccolo ambulatorio ed un magazzino di medicine. Attraverso il progetto si sta anche formando un’ equipe di referenti sanitari che collaborano con una dottoressa ed un infermiere professionale alla formazione sanitaria all'interno dei gruppi di famiglie.

L'area di sviluppo delle risorse: affianca i gruppi delle famiglie dei bambini adottati (attualmente 25 gruppi formati da un minimo di 8 persone a un max di 12) per la creazione di nuove attività ed opportunità di lavoro. I gruppi istituiscono una cassa comune per autotassazione, si danno un nome ed uno statuto, si organizzano per fare insieme piccoli lavori cercando così di incrementare i risparmi e aiutandosi in caso di bisogno. Il cammino per raggiungere questi obiettivi è difficile, coronato anche da insuccessi, abbandoni, furto dei soldi, prestiti con mancata restituzione, ma nel complesso molti sono i risultati positivi: la risistemazione e cura del territorio abitativo, l’acquisto in comune di animali per allevamento, i lavori comuni su terreni agricoli e la fabbricazione di mattoni. L’associazione ha anche in progetto di attivare una formazione al lavoro artigianale per i gruppi, in modo che possano partire da cose semplici e organizzarsi per la formazione dei propri familiari.
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