L’avventura raccontata da Davide Boschi
L’avventura raccontata da Davide Boschi è un
capitolo del suo libro In aqua veritas,
pubblicato dal Gruppo Albatros Il Filo, la cui uscita è prevista a settembre. A
Davide, che vive e lavora a Fidenza, chiediamo per quale ragione
all’inizio degli anni Ottanta si trovasse in Madagascar. «Feci servizio
alternativo al militare, quando uscì per la prima volta una legge che
consentiva di evitare l’obiezione alle armi (unica opzione possibile fino al 1980-81
per non svolgere il normale servizio di leva), prestando un servizio appunto
alternativo all’addestramento per l’uso delle stesse, senza per questo
obiettare in coscienza all’impiego delle medesime in senso assoluto. Sembra una
cagata, ma in un Paese come il nostro fu una notevole “evoluzione”.
Sinceramente non so che fine abbia fatto questa legge, ma fu in quel preciso
contesto che la mia partenza ebbe luogo. La mia “ferma” alternativa doveva
durare un minimo di due anni, ma nel mio caso ne durò quattro. Il primo anno lo
passai in Italia, presso le case della carità di don Mario Prandi e una
«scuola» di agricoltura rurale per l’Africa. Questo periodo servì anche
all’organismo di R.T.M. (Reggio Terzo Mondo) per valutare le mie attitudini
psichiche, prima di spedirmi in luogo tanto remoto. I tre successivi li
trascorsi interamente in Madagascar, con base alla Fondation medicale
d’Ampasimanjeva, lungo la costa sud orientale. Una volta, passando per Tanà
(Antananarivo), la capitale, telefonai a casa. Mi costò l’equivalente di
104 mila lire (qualcosa come quattro o cinque mensilità dei miei amici di
Ampasimanjeva). Piangerei ancora oggi dalla rabbia. Non telefonai mai più».
Iaban’i Boto Misa, il contadino malgascio che
«collaborò» con i bianchi del trattore e fu punito dalla sua gente
di Rahalakely Davida *
Lo vedevo arrivare, lungo il sentiero di terra rossa che si
apriva nella fitta vegetazione, con l’inconfondibile incedere di chi aveva
camminato per tutta la vita. Magro come la fame, con le gambe ossute e sottili
come due canne di bambù che gli spuntavano da un perizoma lacero, sotto un
«akanjo be» (copribusto tribale) tessuto con la paglia di rafia.
L’inseparabile machete dal manico lungo, appoggiato a
bilanciere su una spalla, reggeva il fagotto da viaggio, anch’esso intrecciato
con la stessa fibra vegetale del vestito, mentre la vecchia mano color
palissandro, percorsa da mille cicatrici e rughe nere, ne controbilanciava il
peso.
C’era ancora una parvenza di forza che emanava da quella
figura anziana, quella forza che non si vede ma che lascia intuire la sua
presenza. Forse proveniva dai piedi, enormi, a pianta larghissima e decisamente
sproporzionati rispetto al resto del corpo. Le migliaia di chilometri percorse
da quei piedi, che non avevano mai conosciuto calzature, avrebbero disintegrato
qualsiasi pneumatico e, a dispetto delle gambe, nessuno che li vedesse avrebbe
mai osato definirli «dolci». Quando raggiungeva la soglia di casa mia, dopo
aver percorso i 24 chilometri che la separavano dalla sua capanna nel cuore
della foresta, allungava la mano in religioso silenzio per dare inizio al lungo
saluto che dovevamo scambiarci e celebrare sempre, nella circostanza di quegli
incontri.
Si trattava del «Finaritra» (parola intraducibile). Una
serie di domande e risposte rituali che strutturavano questo singolare e
complesso saluto, caratteristico solo della tribù degli Antaimoro. A Finaritra
concluso, talvolta, mi chiedeva educatamente il permesso di potersi sedere per
riposare un po’. Si scusava dicendo che ormai era diventato vecchio, quasi a
lasciarmi intendere che da giovane non si sarebbe certo dovuto riposare dopo
una passeggiatina del genere.
Il suo nome, tradotto in lingua italiana, significa: «Il
padre di Boto Misa» (Boto Misa era il primo dei suoi figli).
Questo perché nella foresta del Madagascar, dove egli era
nato e vissuto, ogni persona col trascorrere degli anni perde progressivamente
il proprio nome di gioventù, assumendo quello dei figli più grandi. Maschi o
femmine che siano. Nella tribù degli Antaimoro la vita umana è considerata un
breve episodio, che può assumere valore in un contesto più grande solo nella
misura in cui prosegue anche dopo di noi, attraverso ciò che abbiamo generato e
lasciato in eredità a questo mondo. I figli, a pieno titolo, fanno parte di
questa eredità.
Iaban’i Boto Misa era considerato da tutti «Olona Masina»
(uomo salato), ovvero: un santo.
Era un profondo conoscitore del rito ancestrale, delle
usanze della tribù, ma la sua straordinaria intelligenza, già intercettata in
passato da un fervido etnologo gesuita, gli aveva consentito di comprendere il
significato della religione cristiana e della sua liturgia. Il suo coraggio
poi, lo aveva spinto a tentare di coniugarne il valore umano con quello del
rito tribale, consacrandolo catechista del villaggio.
La scelta di votarsi in qualche modo al cristianesimo e alla
«cristianizzazione» della sua gente, gli aveva procurato diversi nemici, almeno
fra gli indigeni più conservatori. Infatti, l’animismo originario di questo
popolo era insito in ogni loro quotidiano gesto, dalla coltivazione delle
risaie alla pesca nel mare o nel fiume, fino alle regole che governavano la
convivenza sociale.
Molte delle antiche usanze che riguardavano la coltivazione,
ad esempio, erano anche alla base della deficienza alimentare e delle precarie
condizioni sanitarie in cui versava la popolazione e il tentativo di cambiarle
convertendole in abitudini più sane e produttive spaventava i più timorosi,
così come faceva incazzare i più bellicosi.
Periodicamente qualche bastardo incendiava la casa di
Iaban’i Boto Misa, fatta di legno, cortecce e foglie, oppure dava alle fiamme i
raccolti delle sue risaie, con gli alberi da frutto, le piante di caffè o
quelle di garofano. Questi attentati gli rendevano la vita un vero calvario.
Inoltre, contribuivano ad ingigantire il suo profilo, per così dire spirituale,
sortendo un effetto contrario a quello per il quale venivano concepiti e
portati a compimento. Ormai, per annientare Iaban’i Boto Misa e, quelle
ritenute le sue velleità progressiste, non restava che ucciderlo. E questo, lui
lo sapeva bene. Nonostante ciò, anche quel giorno era venuto fin da noi, alla
Fondation medicale d’Ampasimajeva, per parlare di un progetto che lo riguardava
molto da vicino e del quale gli avevamo già accennato tempo prima: si trattava
di costruire un barrage (uno sbarramento in terra battuta) che avrebbe
racchiuso le acque piovane in un piccolo bacino, il quale si sarebbe formato a
monte delle sue risaie.
Un canale «deversoir» scavato a una certa quota avrebbe
consentito di far defluire a valle delle risaie stesse l’acqua delle grandi
piogge, salvando i raccolti dalle inondazioni, mentre qualche tubo galleggiante
avrebbe attinto l’acqua dal bacino di raccolta per una irrigazione più calibrata
nella stagione secca, convogliandola in un canale più basso che avrebbe
alimentato direttamente i terreni coltivati.
Si trattava insomma di una vera e propria innovazione
tecnologica che non badava certo all’umore degli spiriti e non teneva in nessuna
considerazione il loro eventuale parere. La realizzazione di questa piccola
opera rurale nella foresta, doveva servire come esempio per la popolazione
locale, a dimostrare la possibilità di avere qualche ragione contro le ingiurie
delle stagioni che, già a quei tempi e in quel luogo così remoto della terra,
non erano più quelle di una volta.
Nel contempo però, avrebbe attirato su Iaban’i Boto Misa le
ire e l’invidia dei suoi nemici, pronti ad incolparlo per ogni genere di
disgrazia che fosse capitata alla tribù, dai fulmini alle esondazioni del
fiume, dalle malattie ai decessi, tutto causa il suo atteggiamento poco accorto
al volere degli spiriti degli antenati.
A dire il vero anche altre persone erano in seguito venute a
chiederci di costruire qualcosa di simile sulle proprie risaie, ma noi avevamo
pochissimi mezzi e ancor meno esperienza. Dovevamo provare con gente
affidabile, e su risaie lontane dai villaggi. A riaccendere l’interesse per il
«progetto barrage» era stato l’arrivo dall’Italia del nuovo trattore, con tanto
di escavatore posteriore e pala anteriore, che io e Giorgio eravamo andati a
sdoganare nel lontano porto di Tamatave. Un viaggio epico, durato 15 giorni, di
cui una settimana interamente trascorsa al volante del trattore stesso, sulla
via del ritorno.
A bordo di questo potente prodigio dell’ingegno umano
avevamo fatto un rientro trionfale al nostro ospedale nella foresta,
attraversando il villaggio di Ampasimanjeva con un codazzo di gente e di
bambini pericolosamente appesi ad ogni parte del mezzo agricolo che non
ruotasse.
Cominciammo i lavori in piena stagione secca, l’unica
durante la quale era possibile raggiungere col trattore le terre di Iaban’i
Boto Misa. Quattro ore di viaggio ci separavano da quelle lontane colline di
«brousse» (una sorta di savana malgascia) e le impiegavamo percorrendo
prima la strada lungo il fiume e poi deviando a nord, lungo il tracciato di una
vecchia e ormai invisibile pista risalente ai tempi della colonia. Il percorso
e le condizioni di questa «strada» avrebbero scoraggiato anche un team del
Camel Trophy.
Provvedemmo così a sistemare alcuni guadi e a scavare
qualche passaggio in costa alle colline più ripide, per non dover rischiare di
lasciarci la pelle o anche solo il trattore a ogni viaggio. La capanna di
Iban’i Boto Misa, in mezzo a quell’immensità selvaggia e deserta, si stagliava
all’orizzonte sulla cima di un rilievo erboso, con la tipica «architettura» che
contraddistingue le abitazioni Antaimoro: due costruzioni adiacenti con lo
scheletro in legno, le pareti foderate di corteccia di ravinala (palma a
ventaglio endemica e simbolo del Madagascar) e la copertura del tetto, a doppio
spiovente, rivestita con le grandi foglie della stessa palma. Ognuna con due
ingressi perfettamente orientati sull’asse est ovest, dove la porta occidentale
fungeva da entrata e uscita per i vivi, mentre quella orientale era solo
l’uscita per i morti.
Le due capanne sarebbero state nei giorni a venire il nostro
unico rifugio, la nostra casa. Quella costruita per noi era la più nuova,
profumava ancora di rafia e di rapaka, di stuoie intrecciate da poco, di
vegetazione che l’uomo aveva estratto dall’ambiente naturale che lo circondava
per forgiarla ai suoi bisogni. Un prodigio di simbiosi fra l’essere umano e il
creato. Imparai ben presto ad avere più considerazione degli spiriti degli
antenati, che forse, avevano davvero qualcosa da insegnarci. A ogni viaggio
portavamo con noi un po’ di sale, dell’olio e qualche gallina, con un bel
sacchetto di riso a parte.
La moglie di Iban’i Boto Misa trasformava queste poche cose
in piatti succulenti oltre ogni immaginazione, che divoravamo senza un minimo
di educazione, incuranti del fatto che tali quantitativi di cibo, da quelle
parti, avrebbero sfamato intere famiglie e non due sole persone. All’ora di
pranzo ci sedevamo per terra nella nostra capanna, mentre dall’altra, dove fra
i tre sassi del focolare qualcuno cucinava, arrivavano i bambini che ci
portavano i piatti e le foglie di palma con il riso e il «contorno» di pollo.
Furono giorni indimenticabili, di quelli che lasciano tracce nitide nella
memoria, nelle viscere, e nell’anima.
Il barrage cresceva lentamente. Io con l’escavatore estraevo
la terra dal fianco della collina settentrionale, poi, sollevati i piedi
idraulici del trattore, Giorgio la distribuiva con la pala nell’avvallamento
che la divideva da quella meridionale. La piccola diga avrebbe avuto un fronte
piuttosto corto, ma un’altezza tutto sommato considerevole, nel tentativo di
ottenere un bacino sufficientemente capiente.
Il lavoro durò circa sei mesi, durante i quali partivamo
all’inizio di ogni settimana per recarci sul posto e ritornavamo a casa nostra,
alla Fondation Medicale, al giovedì o al venerdì, per fare rifornimento e
riposare. In quei tre giorni bisognava curasi dalle infezioni, squassarsi di
dosso qualche attacco di malaria, noi non avevamo la tempra degli Antaimoro né
i loro anticorpi. La vita di brousse, lontano dal nostro ospedale, se presa
sottogamba avrebbe anche potuto «ricongiungerci prematuramente ai nostri
antenati…».
A volte, io e Giorgio, ci fermavamo a riflettere sui rischi
che stavamo correndo: anche un banale incidente, là, in mezzo alla savana,
avrebbe potuto trasformarsi in tragedia. Un ribaltamento del trattore, una
frattura, una impantanata nella palude che sfilavamo quotidianamente potevano
essere fatali. Sarebbe bastato davvero poco. Il sito era quasi irraggiungibile
anche con una Land Rover, che avrebbe comunque impiegato non meno di un giorno
per recuperare ed evacuare un ferito. Una pioggia forte e improvvisa avrebbe
trasformato in mille isolette le colline da attraversare (evento del tutto
normale in quei luoghi), impedendo di fatto ogni possibilità di transito. Un
giorno, per esempio, rischiammo di perdere l’intero trattore nella palude.
Il baragge era già piuttosto alto sul livello dell’acqua,
forse un paio di metri, tanto che avevamo già dovuto scavare il canale di
drenaggio per metterci al riparo dalle possibili conseguenze di un acquazzone
fuori stagione. Cosa tutt’altro che infrequente. Giorgio, nel tirare la pala,
si spinse troppo sul bordo del terrapieno, ancora tenero e friabile. Perse il
controllo della motrice nel tentare una frettolosa retromarcia e cominciò a
sprofondare lentamente ma in modo inesorabile verso l’acquitrino fangoso, mentre
le ruote giravano a vuoto scavandosi la fossa da sole. Eravamo disperati,
impotenti di fronte a ciò che stava succedendo. Giorgio aveva perso le staffe e
in quelle condizioni diventava difficile anche solo parlargli, cercare di
calmarlo.
Iaban’i Boto Misa era atterrito. Con il manico dell’angady
(vanga malgascia) stretto fra le mani, quasi fosse l’unico appiglio per salvare
la situazione, non riusciva nemmeno a immaginare l’enorme quantità di denaro
che potesse valere quella macchina che si stava per essere inghiottita dalla
sua terra. Avrebbe forse donato un arto pur di evitare un disastro di quelle
proporzioni. Io quel trattore non lo guidavo quasi mai, la mia postazione era
quella del «Parker», sul sedile dell’escavatore. Quello sapevo manovrarlo come
il mio braccio destro. Merda per merda, rivolgendomi a Giorgio, dissi la mia:
«Mettiti al volante, blocca i differenziali e fai andare la presa di forza. Io
pianto la benna dell’escavatore sul terrapieno e cerco di trascinare sù, il
culo di questo affare».
Giorgio era troppo incazzato per trovare sollievo in un’idea
così strampalata, ma non avendo alternative si affrettò a prendere il suo
posto, pur continuando a scuotere la testa in segno di disapprovazione.
«Gas! Gas! Accellera!»
Il braccio idraulico dello scavatore, piantato sulla terra
più solida, riusciva effettivamente a smuovere l’asse posteriore del trattore
dal pantano e a trascinarlo poco a poco verso l’alto. Le ripetute zampate della
benna, rovinavano in parte il lavoro portato a termine nei giorni precedenti
sul terrapieno, ma, a un certo punto… I grandi pneumatici smisero di girare a
vuoto, i tacchetti agricoli fecero presa su un terreo più solido e, come un
rinoceronte che si rialza da una pozza di fango, la macchina risalì la china,
rimettendosi in piedi. Per un attimo restammo a guardare increduli il nostro
Fiat 880, grondante di melma nera e indifferente al resto del mondo, prima di
abbandonarci alla gioia e alla commozione per lo scampato disastro.
Quando scendeva la sera sulle colline della brousse, il
cielo si tingeva di un rosso infuocato e la luce del tramonto diventava densa
come vernice, colorando tutto ciò che investiva con le stesse tinte
fiammeggianti del cielo. Per un quarto d’ora almeno, ogni cosa, ogni persona,
animale o pianta, diventava di un colore arancio intenso come in un
incantesimo. Sembrava di essere immersi in un bicchiere di Aperol.
Gli Antaimoro dicevano che quello era il momento giusto per
presentarsi alle persone, per andare a chiedere qualcosa a qualcuno, perché quella
luce rendeva tutti più belli e metteva il buon umore anche ai più scontrosi.
Era verissimo. La pelle bruna delle gente diventava dorata, i loro occhi
brillavano come pietre preziose e le giovani ragazze si fermavano sorridenti,
mostrando i seni, col preciso intento di farti innamorare. Io stesso, pallido
al loro confronto e stinto come un cencio, diventavo bronzeo come un guerriero
Sioux. Era divertente guardare il colore delle mie braccia e delle mie gambe,
finalmente un po’ più intonato a quell’ambiente, così lontano dalla terra e
dalla gente che mi aveva generato. Poi, lento e silenzioso sopraggiungeva il
buio, quello vero, rischiarato solo dalle stelle fuori dalla capanna o da una
candela sotto il tetto di foglie. Non c’erano lampadine a rischiarare il
cortile, né rombanti gruppi elettrogeni che le alimentassero. I fruscii della
notte s’impadronivano di tutto, nel vento che alitava ancora caldo, mentre gli
animali notturni lasciavano i loro rifugi per dare inizio alle scorribande di
caccia.
Quando sorgeva, la luna poteva illuminare a giorno quegli
spazi immensi con la sua luce fresca e argentata. Nelle notti di plenilunio si
poteva leggere comodamente anche un libro, senza venir divorati dalle zanzare o
da altre mille falene attratte da luci artificiali. Alla Fondation medicale, lo
spegnersi del generatore sanciva ufficialmente l’inizio della notte fonda, con
un buio improvviso e un «acufenico» silenzio, ma qui, lontano da tutto e da
tutti, la notte arrivava da sola, senza bisogno degli uomini.
A volte, dopo che noi avevamo cenato (lui raramente lo
faceva), Iban’i Boto Misa, veniva a sedere nella nostra capanna, quella che lui
stesso aveva costruito per gli ospiti importanti, come ci riteneva essere, e si
concedeva alle nostre domande. Le più discrete erano quelle di Giorgio, che di
solito giravano un po’ intorno al nocciolo delle questioni, come si usa fare in
Madagascar per essere educati. Un tantino più impertinenti erano invece le mie,
che formulavo in maniera un po’ troppo diretta, in un malgascio ancora
stentato, alle prime armi.
Imperterrito il vecchio saggio rispondeva a tutti e due, non
soltanto in metafore e proverbi, come si conveniva a un vero anziano e come
egli avrebbe ben saputo fare, ma anche in modo esplicito, sfacciato avrebbe
detto un Antaimoro, ma più chiaro e comprensibile per un occidentale.
Una cosa che faceva infuriare i «reazionari» della tribù, e
anche buona parte di tutti gli altri, era proprio che qualcuno, peggio ancora
un saggio, andasse a raccontare a degli stranieri – per giunta bianchi – le
cose «intime» delle usanze e dei riti tribali. Iaban’i Boto Misa non lo faceva
certo per soddisfare la mera curiosità di due europei ficcanaso, ma perché
sapeva benissimo che proprio in quelle credenze stava il nodo cruciale del
problema, e che soltanto comprendendole avremmo capito con che cosa avevamo a
che fare. Il problema infatti, non era costruire uno sbarramento di terra in sé
e per sé, ma piuttosto l’evidente volontà di voler sovvertire la natura delle
cose. Gli antenati non costruivano barrages. Erano forse più stupidi di Iaban’i
Boto Misa?
L’empietà dunque, aleggiava sulla testa di quell’uomo come
una malefica aureola. Non sarebbe mai andata giù a nessuno. Il fatto che poi si
facesse aiutare da dei bianchi con un trattore rombante, poteva solo peggiorare
le cose. Lui rischiava per il bene dei suoi figli, della sua famiglia e di
tutta la sua gente, anche quella che non lo accettava, ma noi due? Perché lo
facevamo? Il sospetto e la diffidenza degli indigeni ci seguiva come le nostre
ombre, ovunque andassimo. Pochissima gente ci poneva la fatidica domanda
verbalmente, salvo qualche ubriaco, esautorato dalle buone maniere per effetto
del suo stato d’ebrezza, ma tutti la pensavano.
Iaban’i Boto Misa era uno dei pochi indigeni a comprendere
lo spirito missionario che animava la vita di Giorgio (io ero solo un giovane
amico che lo aiutava). Egli s’era convertito al cristianesimo da tempo, grazie
all’etnologo gesuita, Père Du Buois, col quale ai tempi della legione straniera
durante la colonizzazione francese, aveva condiviso parte della sua giovinezza.
Père Du Buois, aveva convertito Iaban’i Boto Misa, sì, ma era inesorabilmente
penetrato nei meandri della cultura ancestrale, condotto per mano dall’allora
giovane amico Antaimoro. E, da quell’intricata foresta, non sarebbe mai più
uscito. Suo malgrado, in quanto studioso e religioso, si «guadagnò»
nell’ambiente ecclesiastico l’appellativo un po’ méprisant (sprezzante, ndr)
di: «l’ultimo degli Antaimoro». Ma quella di Père Du Buois è un’altra storia.
Dunque, i veri ostacoli da superare, i nemici da cui
guardarsi, non erano le colline della brousse o le alluvioni dei cicloni
tropicali e nemmeno la malaria, erano l’animismo fideista e la mentalità di
molti uomini della tribù. Troppi, a dire il vero. Se Giorgio e io eravamo visti
male da molti di loro, Iban’i Boto Misa sapeva per certo di essere odiato. Alle
sue spalle tanti dicevano che, una volta morto, non sarebbe rimasto nella tomba
del suo clan per molto tempo, anzi, qualcuno addirittura scommetteva che non vi
sarebbe nemmeno entrato. Se c’è una cosa fra gli Antaimoro, ritenuta più grave
della morte stessa e più grave ancora dell’omicidio, è proprio quella di non
riuscire a entrare nella tomba dei propri avi una volta trapassati e lì, fra le
loro anime, poter riposare per sempre. Pur di riuscire in questo intento un
Antaimoro è disposto a fare qualsiasi cosa, anche a uccidere se è necessario.
Per contro, la presenza di una salma «sgradita», cioè di un defunto che, seppur
discendente di quel clan non è ritenuto degno di restare fra i suoi antenati, è
una faccenda altrettanto ispida e pericolosa. In Madagascar, alla base di ogni
diatriba che finisce nel sangue, c’è sempre una questione di morti e di tombe.
Gli sgarri, gli interessi personali, l’astio verso il nemico, sono soltanto un
contributo aggiunto al motivo principale.
Il vero movente di ogni omicidio, sta sempre già dentro a
una tomba. Oppure nel fatto che, nella tomba, non è potuto entrare.
Una modalità di assassinio che ai nostri occhi occidentali
risulta forse più barbara e bestiale dell’assassinio in sé, è proprio quella
che si adotta in Madagascar per ammazzare un uomo ritenuto «a tal punto
ignobile»: il cadavere viene smembrato, tagliato a colpi di machete in
tanti piccoli pezzi che poi vengono sparsi e buttati in ogni dove, in luoghi
lontani, in mare, dove comunque non possano essere ritrovati e ricomposti.
Ebbene questa non è esattamente «selvaggia barbarie», ma un preciso –
singolarmente «umano» – intento d’impedire l’inumazione.
Forse allora non capivo l’inconsolabile tristezza che si
intuiva negli occhi di Iaban’i Boto Misa, ma col passare del tempo, temo di
esserci riuscito.
Venticinque anni dopo aver concluso i lavori sul nostro
baragge, il Madagascar per me era diventato ormai un lontano ricordo, quando un
giorno, mi arrivò una e-mail, forse dall’ufficio di Reggio Terzo Mondo, la sede
italiana dell’organismo missionario. La lessi e poi mi guardai le braccia,
bianche come due piedi di maiale bolliti che incorniciavano la tastiera; le
gambe grasse, sotto la pancia pingue che per un attimo avevo dimenticato di
avere. Tanto le cose del mio ufficio quanto gli attrezzi del mio laboratorio
riapparvero improvvisamente intorno a me, come se non li avessi mai visti
prima. La mail che sembrava venire dal passato remoto, da un luogo lontanissimo
di questo mondo, era telegrafica: Iaban’i Boto Misa tornato alla casa del
Padre.
Immaginai la strada di terra rossa lungo il fiume che
portava al villaggio di Vohimasina e la pista delle colline, in mezzo ai
Ravinala, con le loro inconfondibili chiome a ventaglio. La gente urlante e
invasata che correva da una parte all’altra, mescolando il chiassoso rito
funerario animista a quello cristiano, più silenzioso e composto. Mi sembrava
di vedere la portantina di legno con il «feretro» avvolto nel drappo rosso che
contraddistingue i Mpanjaka (i re, le persone importanti, quelli che hanno
avuto un peso), sollevata dai giovani sopra le loro teste, sopra le loro stesse
grida. Un funerale Antaimoro bisogna vederlo, non si può descrivere.
Ma quello non era un funerale come gli altri, non avrebbe
potuto esserlo. Le grida e i gli atteggiamenti minacciosi dei giovani nel
corteo, non erano il solito formale «decoro» per enfatizzare e dare importanza
alla cerimonia. Stavolta sarebbero stati cazzi amari sul serio. Durante i
funerali buona parte della gente che segue il corteo è ubriaca, o comunque
fortemente alterata dall’alcol, con tutte le logiche conseguenze. A questa
sostanza vengono attribuite proprietà espiatorie, sia come liquido da
aspersione per i sacrifici, sia per l’effetto disinibente che provoca come
bevanda. Da sobri certe cose non si possono né fare né dire, ma da ubriachi è
un’altra cosa. Si può tutto.
Com’erano lontane da me quelle immagini, disgiunte dal mio
computer, dalle pareti del mio ufficetto, dal portone del mio capannone, così
italiano, così emiliano. Giorgio era sempre rimasto in Madagascar, fin dagli
anni Settanta quando era partito missionario e lo rivedevo solo una volta ogni
tre anni, quando rientrava in Italia per il consueto congé, così non sapevo a
chi chiedere, chi chiamare.
Potevo solo restare davanti a quella pagina di Outlook,
fissando il cursore che continuava a lampeggiare, dopo aver digitato
«rispondi».
Sì, ma a chi?
Passarono altri due anni dalla notizia della morte del
nostro amico prima che Giorgio rientrasse in Italia e gli potessi chiedere di
persona notizie sull’accaduto. Scosse la testa, un po’ più mestamente di quando
il trattore, tanti anni prima, stava per affondare nella palude, e poi disse:
«E come volevi che andasse eh? Hanno profanato la tomba portando via il corpo.
Era logico no? Nella sua famiglia sono disperati, sai bene che là queste cose
non hanno mai fine: si trascinano per generazioni provocando solo disgrazie,
guerre in risposta alle guerre. I figli e i nipoti non si daranno pace fino a
quando non avranno riportato i suoi resti nelle tomba di clan e suoi oppositori
faranno altrettanto e anche di più per tenerlo fuori. Gli Antaimoro non
cambieranno mai, Iaban’i Boto Misa era uno troppo avanti, non so dove trovasse
il coraggio per fare quello che faceva. Un po’ è anche colpa di noi missionari,
bisogna dirlo, ma alla fin fine le scelte credo siano state solo le sue».
Dunque l’incubo di Iaban’i Boto Misa si era avverato. L’ultima
cosa che avrebbe voluto, nella vita come nella morte, era che i suoi figli e i
suoi discendenti pagassero lo scotto delle sue scelte forse troppo ardimentose.
E invece era proprio quello che il destino gli aveva riservato.
Soltanto oggi, a distanza di trent’anni ho sentito il
bisogno di mettere in un file, il nome di questo uomo. Il nome del più grande
rivoluzionario che io abbia mai conosciuto, prima che si potesse perdere per
sempre.
* Davide Boschi
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