lunedì 30 settembre 2013

Senza (s)campo

Chi ruba gli ettari? 5 testimoni svelano la lista nera del land grabbing: dalle multinazionali alle università.


Campi (molto) elisi.  Due emigrati malgasci leggono sul Financial Times che la Daewoo sta comprando metà della superficie coltivabile del Madagascar, il loro paese. L'azienda sudcoreana ha svelato agli investitori gli esiti del bottino, trattato con il governo locale: l'utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari di terra per produrre mais e palma da olio, per 99 anni, a costo zero. Accordo sfumato in seguito al golpe dell'attuale presidente Andry Rajoelina. Lo scoop del Financial Times racconta uno dei tentativi più eclatanti di accaparramento terre (dall'inglese land grabbing) e testimonia il viaggio rocambolesco delle notizie, che rimbalzano nelle borse del mondo molto prima di arrivare a chi, di questi accordi, ne pagherà le conseguenze. Secondo le stime Fao, l'acquisto (solo quello tracciato) di terreni su vasta scala, tra il 2002 e il 2011, ammonta nel mondo a 200 milioni di ettari, sette volte lì Italia.

Il termine land grabbing, ufficializzato nel 2011 dall'International Land Coalition, indica «le acquisizioni di terre effettuate violando i diritti umani, in particolare delle donne, ignorando il principio del consenso delle comunità, l'impatto sociale, economico e ambientale, evitando la conclusione di contratti trasparenti, con impegni vincolanti sulla ripartizione dei benefici». La dimensione dei territori è importante, ma non decisiva, perché land grabbing significa soprattutto erosione del diritto a produrre, che è dimensionato al paese in cui ci si trova. Dalle migliaia di ettari dell'Etiopia, ai sessanta della Sardegna.

Da Wall Street alle fattorie. Dopo l'impennata dei prezzi dei generi alimentari del 2006 e il crack della finanza nel 2008, la terra è diventata merce di scambio per investitori: si ottiene per un pugno di dollari, se non gratis, esentasse, risorse idriche incluse nel pacchetto. Alla ricerca dell'oro verde non ci sono più (solo) le multinazionali dell'agroalimentare, ma ex squaletti di Goldman Sachs e Merrill Lynch, appoggiati da governi più o meno corrotti in cerca di dollari e contatti. «La novità è che il capitale si è spostato dai settori tradizionali alle materie prime alimentari come grano, soia, mais e poi alla gestione diretta della terra» dice Stefano Liberti, giornalista e autore di Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax). Ai summit per investitori, racconta, si sentono slogan come «spianeremo la strada tra Wall Street e le fattorie dell'Africa». Basta cliccare il web di Global AGInvesting per immergersi in praterie bucoliche, solcate da trebbiatrici tirate a lucido.
Alimentare, Watson. Investimenti giustificati dall’allarme lanciato dai dati della Fao, nel 2050 saremo 9 miliardi e non ci sarà cibo per tutti. «Siamo soltanto agli inizi dell’impennata dei consumi», dice Paolo De Castro, presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale dell’UE, agronomo e autore di Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità (Donzelli), «che non è frutto della demografia, ma del cambiamento nelle diete alimentari. Prima eravamo tre miliardi e ora siamo sette, ma abbiamo sempre mangiato. Finché agli asiatici bastava il riso non c’erano problemi, poi il potere d’acquisto è aumentato, sono saliti i consumi di latte e carne ed è scattata la crisi: una proteina animale richiede sette proteine vegetali per essere prodotta. L’Europa è stata formidabile nel lanciare l’allarme dei cambiamenti climatici, ma la sicurezza alimentare arriva prima. I problemi più seri del climate change li avremo a fine secolo, invece non arriveremo a metà che ci saranno guerre. La stessa primavera araba è figlia dell’impennata dei prezzi del pane in Algeria».
I nuovi pionieri. L’accaparramento è venduto come un “baratto” a beneficio di tutti. Terra in cambio di tecnologia, scuole e infrastrutture. «In realtà significa espulsione di sistemi agrari che funzionavano» dice Antonio Onorati, presidente del Centro Internazionale Crocevia, ong che da oltre cinquant’anni lavora sul campo. «C’è una grande superficialità nel dire “tanto anche prima erano poveri”: si giustificano gli atti con il miraggio del better living. Ma lo stile di vita che conducevano queste popolazioni, l’economia che dominavano era un modo dignitoso per vivere, un modo che loro controllavano. La drammatica conseguenza è il sequestro del diritto a produrre, dimensionato al paese in cui avviene. I pastori del Kenya non erano certo lì di passaggio quando gli hanno tolto la terra di sotto, gestivano sistemi agrari complessi che hanno bisogno di territori vasti, considerando che la pastorizia nomade nel mondo nutre seicento milioni di persone».
Businnes Plan(t). Ma che fine fanno i campi sottratti alle popolazioni? C’è sempre una buona scusa per accaparrare. C’è chi, allarmato dall’emergenza alimentare, si assicura territori in cui produrre cibo, come l’India o gli aridi Emirati Arabi, ricchi di petrolio ma poveri di acqua e terre coltivabili. C’è il grabbing (fanta) biologico di stati europei (Italia compresa, al secondo posto dopo l’Inghilterra nel rapporto di Re:Common) che coltivano agrocombustibili e rubano il terreno alla biodiversità. C’è chi pianta foreste nel nord del Mozambico per trasformarle in arredi e chi costruisce dighe lasciando a bocca asciutta i coltivatori. E c’è il land banking, di chi millanta progetti fantasma, perché il valore della terra aumenterà e in 99 anni c’è tempo per vendere.

Ecosistematici. L’ultimo trend passa per il turismo (fanta)sostenibile in Africa, Brasile, Filippine, Sri Lanka e Thailandia. «Il caso più recente racconta la battaglia dei Masai in Kenya, espulsi dalle loro terre e ricollocati in terreni marginali con l’idea del cleaning: la natura si salva solo senza l’uomo», dice Antonio Onorati, «il lato comico - e drammatico insieme - è che adesso i gestori di queste attività (alcuni sono parchi a pagamento), stanno rinegoziando con i Masai per convincerli a tornare all’interno delle aree, perché la loro assenza ha creato uno squilibrio totale nella natura». Anche a Loliondo, in Tanzania, riporta Al Jazeera, il governo ha spostato migliaia di indigeni per far posto a un sito di “conservazione ambientale” (leggi: riserva di caccia per turisti), gestito da un colosso di Dubai. La compagnia si è difesa dicendo che i safari durano sei mesi all’anno e che i Masai potranno tornare in bassa stagione.
Leonesse africane. «Nei paesi in via di sviluppo la gestione agricola è affidata alle donne, che sfamano i propri figli e l’intera famiglia allargata» dice Claudia Sorlini, docente ed ex preside della facoltà di Agraria di Unimi e membro del comitato scientifico di Expo 2015. «In molti paesi, quando restano vedove, sono private dell’appezzamento, perché si presuppone che non siano più in grado di gestirlo. In cambio ricevono terreni lontani e meno produttivi». Per difendere i diritti delle donne,Oxfam South AfricaFuture Agricultures e Action Aid hanno organizzato il Pan African Land Hearing, che ha dato voce alle storie di chi, ogni giorno, difende la terra con i denti. Come Rebecca Oniango, vedova di Siaya, in Kenya: «Due mesi dopo la morte di mio marito sono venuti a dirmi che la mia era stata venduta», racconta, «sono diventata l’incredibile Hulk, morte mia o morte loro. Ma quante lo faranno? Abbiamo una costituzione e una Land Commission, ma se sei una donna di te non si preoccupa nessuno, non sei niente».
Zappe wireless. Il monitoraggio quotidiano del territorio è in mano ai contadini. Le reti più grandi e influenti sono La Via Campesina, basata in Asia, e la Roppa, in Africa occidentale. «In molti paesi, come in Mali, è già un miracolo che ci siano associazioni», racconta Onorati, «e ogni tanto i leader devono sparire perché li cerca il governo». L'idea più innovativa l'ha avuta il giornalista indonesiano Harry Surjadi, che ha trasformato i braccianti del West Kalimantan in citizen journalists, e i loro cellulari in armi per combattere gli espropri illeciti dei produttori di olio di palma, a colpi di sms. Con il software FrontLine SMS avvisano direttamente Ruai Tv. «Abbiamo formato le persone di casa in casa attraverso la rete contadina Aman, la più grande dell'Indonesia», dice Surjadi, «nel 2010 la mia analisi ha rilevato la svendita di 550mila ettari, ma il governo locale ha pianificato l'estensione a 5 milioni entro il 2020». Guarda caso l'anno in cui l'Unione Europea ha fissato che il 20% sulla quantità complessiva di energia consumata dovrà essere di energie rinnovabili, con i relativi incentivi. Nel 2013 il progetto è valso a Surjadi lÕAward for Excellence CSC e l'australiano Social Change Award.
Confessioni pericolose. Se il network Landmatrix ammonisce che la stracitata Cina ha un ruolo molto meno invasivo di quanto i media facciano credere, ci sono realtà davvero al di sopra di ogni sospetto. Il rapporto del progetto Hands off the Land del Transnational Institute (TNI) fa luce su alcuni investimenti della Chikweti Forests a Niassa, Mozambico. La società è controllata e gestita dal Global Solidarity Forest Fund, un fondo d'investimento svedese specializzato nel settore forestale, avviato nel 2006 dalla Diocese of Västerås, divisione della chiesa svedese e sovvenzionato dalla chiesa nazionale norvegese. Ma del resto loro «sviluppano progetti con sicuro ritorno per gli investitori, per lo sviluppo delle comunità e l'integrità ambientale». E chi l'avrebbe mai detto che sarebbero comparsi i nomi delle università americane Harvard e Vanderbilt nel report Understanding Land Investment Deals in Africa dell'Oakland Institute, think tank che monitora le emergenze sociali e promuove il dibattito all'interno dei forum internazionali?
Grabbing all'italiana. «L'accaparramento riguarda il nord, il sud, l'Europa e l'Italia. L'attenzione dei mass media si è concentrata su 500mila ettari in Sudan, 450mila ettari in Mali del cattivissimo Gheddafi e sui cattivi cinesi. La questione però è un’altra, anche la sparizione di un ettaro di terra fertile è potenzialmente un dramma, la dimensione è importante ma non è decisiva» dice Onorati. A Narbolia, Oristano, la comunità contadina si è unita contro un piano che prevede l’utilizzo di centinaia di ettari di terra coltivabile per la costruzione dell’impianto di serre fotovoltaiche più grande d’Europa. In Abruzzo hanno bloccato sei pozzi e la nave-raffineria inglese di Ombrina Mare e anche il centro oli destinato a inquinare le vigne di Tollo. In Sardegna contadini e cittadini hanno fermato il progetto per l’estrazione del gas della Saras, che avrebbe compromesso l’unico centro di produzione di latte dell’isola. In Lombardia, dove prima nasceva grano biologico, passerà la nuova tangenziale esterna di Milano. «Lì era nata la filiera del pane Spiga & Madia, un’esperienza di supporto ai produttori agricoli da parte dei consumatori», spiega Franca Roiatti, giornalista, autrice de Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili (Università Bocconi), tra i promotori della campagna di sensibilizzazione “Sulla fame non si specula”. «Avevano avviato il recupero del territorio, avevano riportato grano biologico in un posto in cui c’erano solo capannoni».
Ricette antigrabbing. I soldi delle azioni predatorie arrivano (in)direttamente sui nostri conti e nel nostro piatto, complici banche e fondi pensione. «La cosa migliore è rivolgersi alle banche etiche, che investono nel microcredito. Alcune gestite e utilizzate sopratutto da donne, danno garanzie estreme, come la Grameen Bank fondata dal premio Nobel Muhammad Yunus. È importante anche il comportamento quotidiano: per esempio mangiare carne in modo moderato, quella di pollo costa energeticamente molto meno, possibilmente a km 0», dice Claudia Sorlini, «nel 2015 avremo un’occasione straordinaria per portare l’attenzione sul tema e promuovere uno stile di finanziamento più virtuoso. Per la prima volta i paesi in via di sviluppo avranno piccoli padiglioni, finanziati da Expo, in cui potranno esporre. E non saranno chiamati a rappresentarsi con lance e tamburi, ma a testimoniare la biodiversità».

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I misteriosi gechi della Riserva di Betampona

di Franco Andreone , Angelica Crottini, Gonçalo M. Rosa

Un piccolo frammento di foresta pluviale dell’Est del Madagascar nasconde una comunità ricca e diversificata di anfibi e di rettili, della quale ancora molto c’è da scoprire. Si tratta della Riserva Naturale Integrale di Betampona, dove il team della Italian Gekko Association  condurrà una ricerca nel 2013.

Saranno studiate l’ecologia e le preferenze ambientali dei rettili della foresta e si spera anche di trovare delle nuove specie da descrivere, come capita ancora oggi in Madagascar.

Infatti, in questa isola dell’Oceano Indiano si trovano ancora oggi numerose nuove specie di animali e di piante, e la sensazione di scoprire una nuova specie nel 21° secolo è a dir poco indescrivibile! E’ incredibile come ci siano ancora oggi così tanti organismi ancora da recensire e proteggere nelle foreste dei tropici.
La Riserva Naturale Integrale di Betampona è una sorta di “francobollo” di foresta pluviale di circa 29 KM quadrati circa 40 km dalla città di To¬amasina (ai tempi dei francesi chiamata Tamatave). Per raggiungere Betampona bisogna percorrere un’antica strada “car¬rozzabile” realizzata dai francesi durante l’epoca coloniale. Che però di “carroz¬zabile” non ha davvero più nulla e si presenta piuttosto come un susseguirsi interminabile di profonde buche fangose All’ultimo villaggio prima del fiume Ivoloina, Nosy Be, il vecchio ponte se l’è portato via anni fa un ciclone. Adesso rimangono a sua testimonianza solo due monconi di cemento che guardano il fiume, normalmente placido, ma pronto a gonfiarsi sotto l’impeto delle piogge cicloniche di gennaio-marzo.

Franco Andreone durante le sue ricerche
Qui bisogna usare una piroga per farsi portare dall’altra parte. Di solito in questa breve traversata si è accompagnati da ogni genere di viaggiatori e mercanzie: giovani e anziani, persone a piedi e in motoci¬cletta, animali domestici, generatori di corrente e quant’altro. Dall’altra sponda vi sono dei “taxi brousse”, macchine sgangherate che fanno la spola fino al villaggio di Fontsima¬vo. Lì si lasciano i “mezzi” e bisogna inerpicarsi fra villaggi e coltivazioni di vaniglia e riso. Si superano sette torrenti e si sale verso la cima della collina. Betampona in lingua malgascia vuol proprio dire “gran¬de collina”: la si raggiunge dopo alcune ore di marcia e tanto sudore e fatica. Ma in vetta alla collina ci aspetta il villaggio di Rendrirendry, che è un campo base per i ricerca¬tori che qui giungono da tutto il mondo e per le guide naturalistiche. Betampona è stata la prima riserva naturale istituita dallo stato malgascio, nel 1926. Oggi è gestita come riserva naturale accessibile solo a ricercatori che lavorano in collaborazione con il Madagascar Fauna Group, un consorzio di zoo europei e americani, e con il Madagascar National Park, l’ente che si occupa della gestione del network di aree protette del paese.
La foresta di Betampona ha un’altitudine lievemente inferiore agli 800 m sul livello del mare ed è una delle ultime foreste di bassa quota lungo la costa orientale del Madagascar.
Le altre sono state ormai tagliate e bruciate dai malgasci nel corso dei secoli, per produrre legna da ardere, carbone e per creare nuova superficie utile per la coltivazione dell’onnipresente riso.
Questo piccolo frammento conserva al suo interno una notevole ricchezza erpetologica, con circa 80 specie di anfibi segnalate nei suoi 2228 ettari. La comunità di rettili dell’area è ancora poco nota, anche se alcune specie interessanti sono state già osservate durante varie visite a partire dal 2007: tra queste il serpente Langaha madagascariensis, il boa Sanzinia madagascariensis, alcuni micro-camaleonti del genere Brookesia e diverse specie criptiche di Madascincus e Amphiglossus che si nascondono sotto il fogliame e terreno. Per quanto riguarda i gechi, le osservazioni della Italian Gekko Association hanno confermato la presenza di almeno 8 dei 12 generi descritti in Madagascar. Le prime stime indicano quasi 20 specie presenti in questa piccola area, fra cui diverse specie dalle abitudini diurne come Phelsuma e Lygodactylus. Forse introdotta dall’uomo è Gehyra mutilata, un geco notturno grigio-brunastro probabilmente nativo di Sud-Est asiatico. Ebenavia inunguis è un geco arboricolo presente in molte aree a foresta pluviale: con tipiche lamelle adesive (simile a foglie) sotto le dita, questa specie presenta una caratteristica testa appuntita e un corpo di forma allungata. Infine, lo spettacolare genere Paroedura comprende una ricca radiazione di specie in Madagascar e nelle isole Comore.
Questo gruppo di gechi notturni è distribuito in una grande varietà di habitat, con almeno due specie presenti a Betampona: Paroedura gracilis e P. masobe. Classificata come specie in pericolo (EN) dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (UICN), P. masobe è una specie sensibile al mantenimento di buone condizioni della foresta. Vittima della sua bellezza e rarità, la specie è minacciata, oltre che dalla deforestazione e dall’alterazione anche dalla raccolta per il commercio internazionale di animali esotici. Non meno attraenti sono i gechi dalla coda a foglia del genere Uroplatus. Si tratta di specie notturne specia¬lizzate e con una notevole capacità di mimetizzazione. Nelle specie di grandi dimensioni , come Uroplatus fimbriatus e in U. sikorae sono presenti lembi cutanei lungo i margini della mascella inferiore e sui margini laterali del corpo e degli arti.

LA SPEDIZIONE A BETAMPONA E LA RICERCA SUL CAMPO
La ricerca a Betampona si svolgerà nel periodo estivo del 2013, tra i mesi di novembre e dicembre, quando gran parte dei rettili sono in attività e le piogge non sono ancora eccessive.
Il team comprenderà diversi membri, ognuno con la propria specialità e competenza. Fra questi F. Andreone, A. Crottini, D. J. Harris, G. M. Rosa, D. Salvi e E. Scanarini. Parteciperanno anche studenti dell’Università di Antananarivo e guide capeggiate dall’esperto e appassionato Jean Noël. La ricerca durerà circa cinque settimane e avrà due obiettivi principali, quello di redigere la lista dei rettili di Betampona e quello di approfondire la conoscenza sulla biologia e distribuzione nella riserva del geco Paroedura masobe.
Il team sarà suddiviso in due gruppi e ogni gruppo visiterà per un periodo di 8 giorni tre dei sei campi base, i quali saranno più o meno equamente distribuiti nella riserva. Utilizzando lo stesso approccio, nel 2007 è stato possibile caratterizzare gli anfibi che abitano la foresta di Betampona, e al tempo stesso è stato possibile scoprire che 21 di esse erano specie nuove alla scienza. Proprio per questo crediamo che la spedizione del 2013 permetterà l’identificazione di numerose nuove specie accrescendo la già nutrita e variegata lista di rettili endemici del Madagascar. Nei campi il team di ricerca posizionerà trappole a caduta per intercettare i rettili dalle abitudini fossorie, mentre per individuare i rettili arboricoli si monitoreranno una cinquantina di alberi al giorno. Dopo la cattura gli animali verranno identificati tramite studio della morfologia e della loro genetica.
La Paroedura masobe sarà oggetto di particolare attenzione e la raccolta di informazioni sulla biologia e ecologia si tradurrà in una migliore gestione e conservazione delle specie!
Vista l’assenza di habitat idonei, questo geco dalle abitudini semi-arboricole pare essere assente nell’area che collega la riserva di Betampona a quella di Zahamena, rendendo di fatto queste due popolazioni isolate tra di loro.
Nonostante sia stata esportata in grandi numeri verso l’Europa e gli Stati Uniti, ancora pochissimo si conosce della biologia di questa specie in natura. Con questa spedizione cercheremo di capire
la distribuzione del geco nella Riserva e in base alle catture che effettueremo sul campo cercheremo di stabilire la dimensione della popolazione che abita Betampona.
CONOSCERE PER PROTEGGERE
Lo studio erpetologico a Betampona consentirà auspicabilmente alle autorità di identificare le specie e gli ambienti maggiormente sensibili e meritevoli di un’attenzione particolare.
Tenuto conto che la riserva è una vera e proprio “isola” di foresta all’interno di un’area deforestata, qualsiasi indicazione di carattere ecologico e tassonomico è senza dubbio necessaria, oltre che utile.
Se anche per i rettili verranno scoperte, com’è accaduto per gli anfibi, molte nuove specie, la riserva di Betampona potrà diventare un vero e proprio santuario erpetologico, da salvaguardare con la massima cura.
Articolo su gentile concessione tratto dalla rivista Italian Gekko num. 3 dell’agosto 2013
SONGLINES VIAGGI è sponsor tecnico di Italian Gekko Associatio
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INVITO
Italian Gekko Association e Artù Pub, ti invitano ad una serata all'insegna del Madagascar! Martedì 8 Ottobre alle ore 20.00 verrete accolti al Pub, riunita la maggior parte dei partecipanti daremo inizio alle danze! In apertura IGA presenterà il progetto di ricerca a Betampona, lenzuolo di foresta pluviale a Nord Est del Madagascar, che avrà inizio a partire da fine Ottobre. A seguire, Olga del Madagascar che allieterà la serata con le sue canzoni. Il tutto accompagnato da cibo malgascio, un piatto unico con alcune pietanze tipiche!

La cena malgascia costa 10€ (bere escluso), chi vuole favorirne dovrà versare anticipatamente la quota di persona al Pub o tramite postepay (potete avere i dati per la ricarica postepay scrivendo a: association@italiangekko.net)

Proteggere il 17% del pianeta per salvare il 60% delle piante

Non sempre zone da proteggere e riserve naturali coincidono

Proteggere le aree più sensibili, come i Caraibi e il Mediterraneo, che rappresentano appena il 17% del pianeta, aiuterebbe a conservare il 60% delle specie di piante che popolano la Terra. Lo indica una simulazione, realizzata da un gruppo di ricercatori coordinato dal Centro Ricerca Microsoft e pubblicato sulla rivista Science, secondo la quale le zone da proteggere non sempre coincidono con le riserve e i parchi nazionali.
"I nostri dati - ha spiegato Stuart Pimm, uno dei responsabili dello studio - indicano che due dei più ambizioni obiettivi fissati nel 2010 dalla Convenzione sulla Diversità Biologica, ossia quello di proteggere il 60% delle specie vegetali della Terra e il 17% della superficie del pianeta, può essere raggiunto". Per arrivare a questa conclusione i ricercatori hanno analizzato accuratamente la più grande banca dati della biodiversità al mondo, che è stata compilata dai Giardini Botanici Reali di Kew, in Inghilterra, dove sono presenti dati su circa 110.000 specie di piante diverse. In questo modo è stato possibile realizzare una mappa dei territori con una grande percentuale di specie endemiche, ossia quelle esistenti solo su una determinata area. Data la loro unicità, queste specie possono essere considerate quelle a maggior rischio e, quindi, i territori nei quali si trovano dovrebbero essere più fortemente protetti. Utilizzando questi dati i ricercatori sono così riusciti a 'massimizzare' il numero di specie in relazione alla superficie del pianeta, in altre parole a determinare le quantità minime di territorio da proteggere per salvare il maggiore numero di specie.  Attraverso modelli matematici, i ricercatori hanno osservato che proteggendo meno di 1/5 del territorio sarebbe possibile salvare circa i due terzi delle piante al mondo. Ad oggi però solo una piccolissima porzione di questi territori risulta protetta e le regioni del mondo che avrebbero bisogno di maggiore protezione, come le isole dei Caraibi e gli ecosistemi del Mediterraneo, non sempre coincidono con i parchi nazionali e le terre protette. Per raggiungere gli obiettivi fissati dalla convenzione del 2010, concludono i ricercatori, c'è quindi ancora molto da fare ma si tratta comunque di un obiettivo raggiungibile. Per questo, ha concluso Pimm, ''abbiamo bisogno di proteggere, mediamente, più terra di quello che facciamo attualmente, e molto di più in luoghi chiave come Madagascar, Nuova Guinea ed Ecuador".
Fonte: ANSA.it
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Camaleonti del Madagascar

Mago Sales torna a Novello, 50 anni fa il primo spettacolo

Dopo 50 anni dal primo spettacolo Mago Sales (don Silvio) torna a far divertire i Bambini di Novello. Ormai passata una generazione il missionario festeggerà il suo anniversario con la presentazione di Silvan. Dal 1963 don Silvio non ha smesso di far divertire i bambini di tutto il mondo, mostrando i suoi trucchi ai Boliviani, Nigeriani, passando dal Kenya al Madagascar, dall’India alle Filippini facendo tappa a Shangai.
Ha fatto sorridere Madre Teresa di Calcutta e le sue suore, ha regalato la classica bacchetta da mago a Giovanni Paolo secondo, senza farsi mancare posti come la cambogia, l’Antartide, il Messico, la Palestina, l’Uganda e la Somalia.
Il 7settembre si inizieranno i festeggiamenti alle 17:30 con la messa con don Silvio per poi continuare un’ora dopo con la spettacolo di magia dello stessso Mago Sales.
Con una valigia, piena di magie e un libro di poesie, ha fatto più volte il giro del mondo: si è esibito nelle Ande boliviane e nelle favelas brasiliane, nei villaggi africani della Nigeria, del Kenya, del Madgascar, tra i ragazzi delle Filippine e di  Shangai, ancora: tra i tanti Chiriperos (ragazzi di strada) di Santo Domingo e i troppi Boys’ Town di Mombay. Ha varcato i confini del mondo: nella foresta amazzonica, tra i ghiacci dell’Antartide, nei desolati deserti della Somalia, in Messico, al confine con gli Stati Uniti, nella terra di Tex Willer; ancora in Palestina, con i bambini di Amas nell’arida striscia di Gaza e ad Haiti, isola presto dimenticata anche da troppe ONG, con i ragazzi  del post terremoto. Ha sofferto per le tragedie  di guerre dimenticate tra i ragazzi del nord Uganda o dei lavori “forzati” di migliaia di bambini cambogiani nelle fabbriche di mattoni di Battambong… Ha donato una bacchetta magica a Giovanni Paolo II e si è rallegrato per il sorriso di Madre Teresa e delle sue giovani suore nel cortiletto della sua casa madre a Calcutta, dopo un suo spettacolo di magia.
Lui è don Silvio Mantelli, meglio conosciuto come Mago Sales, missionario della gioia!! La sua vita di mago è iniziata a Novello (suo paese natale) nel piccolo teatrino della scuola materna. Qui, 50 anni fa, don Silvio, timido chierico salesiano, con l’altisonante nome d’arte di “Mandrake” divertì e fece sorridere, familiari, amici e alcuni bambini di Novello (una trentina in tutto). Dopo di loro fu la volta di centinaia di migliaia di bambini del mondo, che provarono la stessa allegra meraviglia. Questo divenne il programma di vita di don Silvio, che, con lo pseudonimo di “magio Sales”, si definì prete per vocazione e mago per passione.   Il tempo passa e logora le cose, fino a distruggerle, ma, a Novello, molte cose, sono rimaste intatte, proprio come i ricordi che, arricchendosi di preziose fantasie, trasformano la storia in magica leggenda, alimentando ancora i sogni di un tempo. Il teatrino di Novello, sembra uscito da un album dei ricordi, ma è ancora vivo e intatto, come allora (50 anni fa) e sabato 7 settembre 2013 alle ore 18,30, aprirà ancora il sipario agli applausi di amici, parenti e tanti bambini, per i giochi di magia di un anziano prete salesiano, che come allora non ha mai smesso di sognare. L’incontro con don Silvio, prima, nella chiesa parrocchiale di Novello con la celebrazione della Santa Messa anniversaria (40 anni di sacerdozio) e con mago Sales, poi, nel teatrino per ricordare i suoi 50 anni di allegra magia, vuole anche essere un momento di ringraziamento a Dio Padre, autore della vita e ad amici e parenti, soprattutto ai piccoli della terra che gli hanno arricchito il dono della vita con la loro presenza affettuosa. SIETE TUTTI INVITATI.
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Abbaiare alla luna



"Si, siamo convinti di abbaiare alla luna, come si suol dire quando si tenta di convincere qualcuno che non vuole o non può capire". Così scrive oggi Dino Nardi, coordinatore UIM Europa e membro Cgie, in una nota in cui torna a parlare di Imu e Tares.
"Tuttavia, - dice - considerato che, secondo i media, mercoledì prossimo (28 agosto) sarà il giorno decisivo in cui il Governo italiano dovrà decidere in merito al destino dell'IMU e sulla eventuale introduzione della "Service tax", che dovrebbe inglobare l'IMU, la tassa sui rifiuti (Tares) ed altri servizi locali, non possiamo esimerci dal ricordare, ancora una volta, al governo di Enrico Letta ed ai 945 parlamentari e, soprattutto, ai diciotto eletti nella Circoscrizione Estero, che gli emigrati italiani si attendono finalmente che si eviti in modo generalizzato sull'intero territorio nazionale di continuare a penalizzare fiscalmente – come seconda casa - l'abitazione posseduta, e tenuta a propria disposizione in Italia, dagli iscritti all'AIRE e per la quale, peraltro, si producono rifiuti per un periodo molto limitato nel corso dell'anno pur dovendo pagare l'intera tassa in quasi la generalità dei comuni".
"Se ciò non dovesse accadere – scrive Nardi - saranno sempre di più gli emigrati intenzionati a liberarsi (anche svendendo la proprietà) di questo peso finanziario diventato ormai insostenibile (tra tasse ed utenze varie) quantomeno per molti pensionati emigrati di prima generazione, con tutte le conseguenze negative che ne conseguirebbero per le economie dei luoghi di maggiore emigrazione e non solo". (aise)
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L’INPS RICALCOLA LE PENSIONI: LA COMUNICAZIONE AI CONNAZIONALI

In base alle campagne Red Est 2010 e 2011 l’Inps ha ricalcolato le pensioni dei connazionali all’estero. Tutti i pensionati interessati riceveranno presto una comunicazione con cui l’Istituto spiega come e perché è variato l’ammontare della loro pensione.
Il ricalcolo ha riguardato tutte le dichiarazioni reddituali pervenute all’Inps entro il 31 marzo 2013.
Come detto, ciascun pensionato riceverà una comunicazione a riguardo; in ogni caso, l’Istituto chiarisce oggi le procedure utilizzate per il ricalcolo.
Per la conversione in euro dei redditi espressi in valuta estera l’Inps ha utilizzato il tasso di cambio applicabile a dicembre dell'anno cui si riferisce il reddito.
La decorrenza di calcolo di eventuali somme arretrate a credito o a debito del pensionato parte dal gennaio 2010 oppure dal gennaio 2011, in funzione del reddito pervenuto più remoto, salvo i casi di decorrenza originaria della pensione compresa negli anni oggetto di verifica.
Eventuali arretrati a credito o a debito del pensionato sono stati calcolati fino al 31 agosto 2013, in quanto la rata corrente di pensione viene posta in pagamento nell'importo aggiornato a partire da questo mese di settembre (2013).
conguagli a credito di importo fino a 500,00 euro sono stati "validati" automaticamente a condizione che nell'archivio centrale non siano memorizzati per la stessa persona precedenti ricostituzioni con conguaglio a debito.
I conguagli validati sono stati posti in pagamento con la rata di settembre 2013. Come di consueto, la procedura ha provveduto, all'atto della validazione automatica, anche alla determinazione delle relative ritenute IRPEF.
Gli arretrati di importo superiore a 500,00 euro ovvero inferiore a tale importo nei casi in cui siano presenti precedenti ricostituzioni a debito del pensionato sono stati memorizzati nell'archivio conguagli come "da definire" e saranno gestiti dalle sedi territoriali INPS dopo aver effettuato i dovuti controlli e le eventuali compensazioni.
I conguagli a debito saranno gestiti con piani di recupero rateale centralizzato, nei casi in cui ciò è possibile: la prima trattenuta sarà effettuata sulla rata di novembre 2013. Nei casi in cui non è possibile il recupero centralizzato, l'importo a debito del pensionato sarà recuperato dalle sedi territoriali INPS.

L’Istituto ha predisposto il consueto riepilogo degli importi ricalcolati (mod. TE08), consultabile dagli interessati muniti di PIN e dai Patronati muniti di apposito mandato degli interessati.

Per ogni chiarimento si può chiamare il Contact Center sul sito istituzionale dell’Inps (inps.it) o attraverso il Numero Verde 803.164. (aise)
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giovedì 19 settembre 2013

Racconto di un volontario bolognese

Di Vito Pedrazzi
Solo dopo che l’aereo si è alzato in volo e vedo Bologna sempre più piccola realizzo pienamente che dopo 15 ore di volo e 8 di jeep, passando per Parigi, Tanà (Antananarivo) e Tulear, sarò all’ospedale Vezu di Andavadoaka, un piccolo villaggio di capanne abitato da pescatori, di circa 1.800 persone, nel sud ovest del Madagascar, sul canale di Mozambico.
Il paesaggio dell’altopiano centrale dove si estende la capitale assomiglia per molti versi alle grandi città orientali per caos, moltitudine di persone e ricchezza di colori. Tanà si distingue per la diversità del centro storico arrampicato su tredici colli. In alcuni angoli delle strade, nei negozi, nella tipologia delle abitazioni è riconoscibile l’influenza francese che per il viaggiatore si sintetizza al Cafe de la Gare, ristorante bistrò, angolo di antica bellezza estetica, culinaria e architettonica, dove la multi-etnicità è la consuetudine e i molti giovani che si incontrano incarnano lo spirito nuovo della capitale.
Nella periferia di Tanà spiccano i rettangoli verdissimi delle coltivazioni di riso, molto diversa da Tulear, nel sud del Madagascar, sul tropico del Capricorno. Una piccola cittadina in grande sviluppo, abitata da malgasci di etnia Vezu, dove il sorriso delle persone ti avvolge come il suo caldo soffocante. Da queste parti del Madagascar,
non volano solo gli uccelli e gli angeli, ma iniziano a volare anche i sogni.
È mattina presto quando partiamo da Tulear verso l’ospedale Vezu di Andavadoaka lasciandoci alle spalle una cittadina ancora intenta al risveglio. Ci attendono otto ore di jeep su una pista in molti tratti battuta, ove il rischio di insabbiarsi è dietro ogni curva, ma dove il cuore non va mai fuori strada perché le difficoltà del viaggio sono
ampiamente mitigate da scorci di panorama sul mare e passaggi nella foresta che ti lasciano senza respiro.
In questo percorso la sensazione più forte è data dagli innumerevoli incontri con i monoliti viventi del Madagascar, i baobab. Questi alberi millenari, imponenti in tutta la loro magnificenza, sono la vera ricchezza ed essenza del paese. In un piccolo villaggio vicino a Morombè ho visto un baobab con una circonferenza di più di trenta
metri e, dicono, più di tremila anni, nato ai tempi dello sviluppo della civiltà egizia (regno di Ramses III) e di quella cinese (dinastia Chou).
Lungo il tragitto, piccoli paesi di pescatori dove le case non sono muri stretti attorno alle persone, ma semplici capanne davanti a un mare turchese e a dune bianche che si stagliano nello sfondo argentato degli alberi. Tutto questo è solo un piccolo assaggio di quanto ci attende al nostro arrivo ad Andavadoaka e Ampasilava.
Una sosta a metà percorso non è obbligatoria ma serve a corroborare il fisico, a sgranchirsi le articolazioni e iniziare a lasciarsi andare al respiro del mare.
L’arrivo all’ospedale Vezu è sempre un’emozione fortissima. Roman, vigile guardiano, apre il cancello con il suo raggiante sorriso, i volti conosciuti di Sandro, Rosi, Manuela ed Ernesto, e quelli sconosciuti dei volontari medici, infermieri e civili che collaborano al buon andamento dell’ospedale creano quella sensazione di incognita
che è subito cancellata dai baci, dagli abbracci e dalle strette di mano.
L’Ospedale Vezu. Una struttura sanitaria gratuita per 200 mila abitanti della zona Vezu, il nome dell’ospedale, trae origine dall'etnia che vive in quella zona, una delle 18 dell'isola, pescatori nomadi insediati nel sud ovest del Madagascar, sul canale di Mozambico.
Mi piace pensare che l'ospedale abbia due genitori putativi. Il villaggio di Ampasilava, dove è nato il primo ambulatorio nel 2004, e quello di Andavadoaka, dove è stato identificato il luogo più adatto per costruire l’ospedale e dove i lavori sono terminati nel 2008. Poi ci sono i due genitori naturali, Sandro e Rosi, che con tanto impegno,
fin dall'inizio, hanno ‘partorito’, seguito e realizzato questo progetto.
L’ospedale, unico nel suo genere, è inserito nel sistema della sanità malgascia, ma a differenza di essa è completamente gratuito. Copre un territorio di circa 200 Km. E i villaggi di riferimento sono circa 180 con una popolazione di circa 200.000 abitanti.
Gli elementi che permettono a questa struttura sanitaria di essere così attiva ed efficiente sono diversi. I volontari provenienti da Bologna e da tutta Italia, medici, infermieri, civili, che attraverso una programmazione annuale e semestrale, prestano la loro opera gratuitamente; le donazioni in denaro, in mezzi e strumenti biomedicali; le cene di sovvenzione che periodicamente vengono organizzate dall'Associazione "Amici di Ampasilava".
L’ospedale è strutturato con tre ambulatori, attrezzati anche per attività di odonto-stomatologia e oculistica, un laboratorio, una radiologia, una sala operatoria polifunzionale e due ampie camere di degenza, per un totale di otto letti. È attivo non solo di giorno ma, essendo l'unico di quel territorio, copre turni di guardia notturna
per le urgenze di pazienti che possono giungere a piedi, aiutati e sorretti dai famigliari o con il carretto trainato da zebù.
Le attività sanitarie sono supportate da tre interpreti locali che conoscono la lingua malgascia, il francese e l’italiano, e facilitano la relazione tra infermieri, medici, volontari e la popolazione locale assistita.
Le attività di supporto relative al funzionamento complessivo dell’ospedale vengono effettuate da persone del luogo che si occupano della manutenzione ordinaria e straordinaria. Muratori, carpentieri, fabbri, falegnami, giardinieri, inservienti che svolgono attività di pulizia, sanificazione degli ambienti, lavanderia, stireria ed infine cucina e dispensa.
L'alimentazione elettrica è fornita da un generatore a gasolio che, per gli elevati costi, è in funzione solo quando l'ospedale è attivo.
Per il tempo restante l’energia è procurata da un piccolo impianto fotovoltaico che permette l'attività ordinaria della "Corte dei gechi", la costruzione adiacente all'ospedale dove risiedono i volontari.
L’acqua è prelevata da un pozzo in prossimità della struttura sanitaria e distribuita sia all’ospedale sia alla residenza dei volontari, dopo essere stata filtrata e purificata.
Recentemente tutta l’attività ambulatoriale, di sala operatoria e di degenza è stata informatizzata e tutti i dati delle attività sanitarie svolte sono contenuti in un server che permette l’estrazione e l’elaborazione delle informazioni raccolte.
Oggi, quindi, le attività sanitarie svolte presso l’ospedale sono il frutto di un’attenta analisi dei bisogni, individuati direttamente dagli operatori e dalle richieste esplicite della popolazione, unita a un’approfondita ricerca svolta in Italia sulle disponibilità dei volontari, rispetto alle loro specifiche professionalità. Il tutto si concretizza nella definizione di una agenda di programmazione di intervento semestrale o annuale che definisce le attività dell’ospedale, a cui la popolazione fa riferimento per usufruire delle cure necessarie. Per sostenere l’attività sanitaria erogata gratuitamente ad
Andavadoaka, l’associazione svolge periodicamente alcuni incontri, in Italia (mediamente due o tre al mese) per informare, orientare, istruire e organizzare i volontari in partenza.
All’arrivo all’ospedale Vezu, dopo un’attenta programmazione, con i
miei colleghi volontari stabiliamo che la mia attività nelle prime due
settimane, assieme a Tessa e a Francesca, sia dedicata all'ambulatorio. Qui viene effettuato un primo inquadramento dei pazienti con la rilevazione dei parametri vitali, la visione attenta della cute e delle mucose, l’auscultazione del respiro e del battito cardiaco, la valutazione della postura e dello sguardo, oltre a medicazioni, iniezioni intramuscolari e iniezioni endovenose.
Oltre all’attività infermieristica vengono effettuate attività di laboratorio per la ricerca dei principali batteri, mediante l’utilizzo di un microscopio, su campioni di sangue, feci, urine ed escreato.
Poi, ci sono le attività amministrative, che prevedono l’inserimento dei dati in computer e, infine, la sistemazione e il riassetto degli ambienti.
Terminata l'attività ambulatoriale, sempre che non si sia di guardia
dopo pranzo, è consuetudine un giro al villaggio, distante alcune centinaia di metri, come pure dedicarsi ad un bagno di sole o alle immersioni.
Il contesto in cui è inserito l'ospedale è splendido da un punto di vista naturalistico, la foresta spinosa con i suoi baobab, i lemuri e le tante specie di uccelli, il mare con la sua barriera corallina che contiene una moltitudine di pesci esotici. Nel mese di giugno, poco al largo di Andavadoaka, si possono incrociare le balene che, nel loro
migrare con i piccoli dal Polo Sud ai punti più caldi e pescosi dell’Oceano Indiano, attraversano il canale di Mozambico. Ma ciò che caratterizza il Madagascar è lo spettacolo di ciò che nelle società sviluppate occidentali ormai nessuno vede più, perché viene nascosto da una frenesia che oscura i sensi. Le albe sono caratterizzate da esplosioni di giallo dove il sole in pochi minuti diventa protagonista della vita, albe dove puoi vedere un carretto trainato da zebù contornato da una famiglia malgascia che avanza lento, immerso nel giardino dell'eden e solo il silenzio fa rumore, a volte, sovrastato dal canto degli uccelli. I tramonti, dove il rosso infuocato dona emozioni ancestrali e il sole, tuffandosi in un mare turchese, fa diventare protagonista la notte, una notte che è piena di luce perché la luna e la via lattea illuminano anche i colori e l'invito della sera all'oscurità non riesce a venire, una notte dove non esiste la
guerra del rumore, ma la guerra del silenzio.
Dopo Natale con l'arrivo di Francesco, il chirurgo oculista, iniziano le ultime due settimane. La sala operatoria diventa la mia nuova destinazione e assieme a Tessa si inizia l’attività. I pazienti, avvisati per tempo del suo arrivo, alle prime luci dell'alba si
presentano in ambulatorio.
I principali interventi eseguiti sono stati cataratte, calazi, asportazioni di neoplasie. L'attività di sala operatoria spesso si prolunga fino al tardo pomeriggio perché la prima parte della mattinata è dedicata alla visita e all'inquadramento dell'intervento.
A volte un mese sembra un tempo infinito, in questo caso un mese è passato in un baleno. Credo che l’attività di volontariato si possa svolgere in ogni luogo dove vi sia necessità di attività di aiuto e di sostegno, sotto casa o nei luoghi più remoti della terra. Nel mio caso l’incontro con l’associazione amici di Ampasilava è stata del tutto
casuale, ad una cena di beneficenza. Questo mio atteggiamento di solidarietà e di sforzo attivo è stato ampiamente ricambiato dai sorrisi e dal riconoscimento delle persone assistite.
Nel viaggio di ritorno mi viene da pensare che il Madagascar sia uno di quei luoghi dove più ti allontani e più sai in quale sogno vuoi ritornare.
Un grazie a tutte le persone malgascie incontrate, gente dignitosa e semplice che non nega mai un sorriso, anche quando le condizioni di vita sono veramente difficili.
Un grazie a tutti, tutti quelli che mi hanno permesso di ritornare alle origini della mia professione, la più bella del mondo, l’infermiere.
Vito Pedrazzi è responsabile SATeR del Dipartimento Igienico
Organizzativo dell’Ospedale

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Il biodiesel dei missionari

“progetto Jatropha Madagascar “
«Produrre l’energia elettrica in giardino».
La storia della coltivazione della Jatropha in Madagascar è cominciata alcuni anni fa e questo articolo che segue ne è una testimonianza. Solo che il lavoro svolto dalla Missione dei Frati Minori Cappuccini è stato molto approssimativo e l’arrivo di Fabio Tinti in Madagascar è stato determinante per portare a termine un progetto della Delta Petroli Italiana.
Ho avuto uno scambio di corrispondenza con Fabio Tinti e l’ho incontrato personalmente quando è arrivato in Madagascar per constatare lo stato del progetto che era stato affidato ai Frati Minori Cappuccini.
Dopo quell’incontro un dirigente dell’AIM (Associazione Italiani in Madagascar) ha preso a cuore il progetto di Fabio Tinti ed è riuscito a completare l’iter burocratico ed ha ottenuto tutte le autorizzazioni per iniziare la coltivazione della Jatropha in Madagascar.




Il biodiesel dei missionari

L’energia verde cresce nei paesi poveri e a promuoverla sono i missionari e le missionarie. Parecchie missioni e villaggi, infatti, coltivano già la Jatropha Curcas: una pianta robustissima i cui semi, spremuti a freddo, producono un olio combustibile che non fa fumo né anidride carbonica. E anche l’industria chimica comincia a fiutare l’affare. Il Progetto Jatropha Madagascar è un progetto già operativo in fase di completamento per la produzione di semi oleosi (non alimentari) con proprietà energetiche per la cogenerazione e la produzione di biodiesel. Il progetto è realizzato dalla Delta Petroli (divisione energia da fonti rinnovabili) in partnership con la Missione dei Frati Minori Cappuccini della Provincia del Madagascar.  La Delta Petroli ha investito sul progetto Jatropha Madagascar sulla base della condivisione del principio di una  impresa etica che sta nascendo in Madagascar grazie all’azione dei Frati Cappuccini. Il progetto permette di affrontare il tema della lotta alla povertà con l’aiuto alle opere sociali portate avanti dal lavoro dei missionari; aiutare i paesi  poveri a produrre energia con tecnologie da fonti rinnovabili; aiutare i paesi europei a produrre fonti rinnovabili senza speculazione sui prodotti di origine alimentare. Soprattutto il progetto Jatropha Madagascar permette di riforestare  un’area di 30.000 ettari dove c’era una foresta tropicale pesantemente distrutta.
Le sorelle Vincenziane a Minga, un villaggio nella foresta tropicale della Tanzania del Sud, a pochi chilometri dal confine con il Mozambico, raccontano con semplicità di «produrre l’energia elettrica in giardino». I Padri missionari in Guinea Bissau la coltivano da anni. I Frati Cappuccini Minori hanno avviato in Madagascar un progetto con la Delta Petroli. I missionari dell’Aefjn (Africa Europe faith and justice network), una rete di 43 congregazioni religiose maschili e femminili presenti in Europa e in Africa, l’hanno piantata in Togo, Ghana, Senegal, Mali, Costa d’Avorio e Niger: stiamo parlando della Jatropha Curcas grazie alla quale tantissime missioni e villaggi dei Paesi in via di sviluppo si sono resi autosufficienti dal punto di vista energetico.
«Tre semi per la green economy»: uno slogan efficace se riferito a questa pianta originaria dei Caraibi e appartenente alla famiglia delle Euforbiacee. Traghettata nelle colonie in tutto il mondo dai marinai portoghesi da cui veniva usata per costruire recinzioni a protezione di orti e giardini e, addirittura, per recintare tombe e cimiteri, solo di recente ne sono state scoperte le preziose e molteplici qualità. Ogni frutto contiene tre semi che, dopo la semplice spremitura a freddo, producono un olio combustibile che – quando brucia – non produce fumo ed ha un impatto zero in termini di emissioni di anidride carbonica.
Può essere coltivata in condizioni di scarsa piovosità, sopravvive anche a due anni di siccità e vive in ogni tipo di terreno, persino nelle zone in prossimità del deserto dove non si riesce a coltivare altro. È quindi accessibile anche nelle zone rurali più povere e, a differenza della maggior parte delle altre piante che producono semi oleosi (grano, mais, soia, eccetera), non è commestibile, né per gli uomini né per gli animali. I residui dei semi spremuti sono un ottimo fertilizzante e le sue radici proteggono il terreno e con l’olio si fabbricano saponi. Ha una vita media tra i 40 e i 50 anni.
Può esser piantata in posizione ravvicinata con una maggior resa: un ettaro coltivato a Jatropha può produrre fino a 1900 litri di olio combustibile, quasi quattro volte più della soia e dieci volte rispetto al mais. Infine sul suo fusto si arrampica come pianta parassita la vaniglia: un connubio che potrebbe rivelarsi ulteriore fonte di guadagno. Non è un caso che questa pianta abbia destato anche l’interesse di molte nazioni, come l’India, che l’ha inclusa nel piano per l’indipendenza energetica entro il 2012: nel solo Stato del Chhattisgarh ne verranno piantate 160 milioni di esemplari. Ma anche il mondo delle industrie ne sta facendo oggetto di ricerca e di sviluppo: la società finlandese Wärtsilä ha dato avvio alla prima centrale elettrica a biocarburante a Merksplats in Belgio.
Nata da una joint venture con la Thenergo, società belga di progetti di energia sostenibile e le aziende agricole locali, sarà una centrale da 9 Megawatt per un costo di 7 milioni di euro. «Inizialmente – ha detto Ronald Westerdijk, responsabile dello sviluppo della Wartsila – l’impianto produrrà energia elettrica per 20.000 abitazioni mentre il calore prodotto verrà utilizzato da agricoltori locali per riscaldare le serre ed in particolari processi di asciugatura di fertilizzanti».
In Sardegna il gruppo internazionale Icq ha presentato un progetto per trasformare e riavviare la centrale elettrica della ex cartiera di Arbatax utilizzando l’olio vegetale a basso tasso di inquinamento ricavato dalla Jatropha, che già coltiva in Benin e Brasile su una superficie di mezzo milione di ettari. In provincia di Ascoli Piceno la Jatropha Curcas verrà utilizzata per un’altra centrale: la società impiantistica Troiani e Ciarocchi di Monteprandone ha stipulato un accordo con il governo del Madagascar per la coltivazione di 100.000 ettari a Jatropha.
L’investimento ammonta a 5 milioni di euro grazie ai quali si prevede di poter ricavare 300.000 tonnellate di olio vegetale. «L’obiettivo – spiegano i titolari dell’azienda – è quello di poter favorire entro due o tre anni la costruzione nel territorio ascolano di tante centrali elettriche di piccole dimensioni, alimentate proprio con quest’olio».

Gli espedienti di chi è davanti
Per chi sta davanti, l’operazione di acquisto, affitto, ecc. delle terre è una questione d’investimento, cioè di “incremento dei beni capitali, di acquisizione o creazione di nuove risorse da usare nel processo produttivo per ottenere un maggior profitto futuro”. L’obiettivo è palese: i massicci investimenti servono per la realizzazione di piantagioni industriali di monocolture destinate all’esportazione. Le dichiarazioni d’intenti sfiorano l’ipocrisia quando mettono al primo posto la sicurezza alimentare e lo sviluppo locale dei Paesi “oggetto” d’investimento. La monocoltura – si sa –, la Rivoluzione Verde dovrebbe averlo insegnato, distrugge la biodiversità perché geneticamente uniforme e intacca la sovranità alimentare delle comunità locali, sottrae risorse idriche, compromette i sistemi agricoli tradizionali. Cosa fa la Banca Mondiale di fronte a questa distruzione? È spettatrice e complice allo stesso tempo. Nel 2010, il rapporto “Rising Global Interest in Farmland” era particolarmente atteso perché doveva fornire un quadro esaustivo dell’accaparramento di milioni di ettari di terre in Africa, Asia ed America Latina. Ciò significa che oltre ai dati numerici riferiti agli ettari ceduti, affittati, acquistati (peraltro già noti), il rapporto avrebbe dovuto fornire indicazioni sulla tipologia di investitori, sui loro obiettivi e sulle loro strategie. Nessun accenno. Da sempre favorevole alle privatizzazioni, la Banca Mondiale appoggia gli investimenti in agricoltura nei paesi del Sud, convinta che il meccanismo regolatore del mercato libero porti con sé sviluppo, ovunque: è figlia del Nord che l’ha generata. Via Campesina e le altre organizzazioni contadine le sono ostili. Paradossalmente, la Banca Mondiale recepisce le provocazioni trovando modo di trasformare gli evidenti rischi e pericoli per la piccola agricoltura in opportunità: gli investimenti possono contribuire a rilanciare economie deficitarie e ad aumentare la produttività agricola. Da qui la scrittura e pubblicazione di alcuni “princípi per investimenti responsabili in agricoltura” (RAI): tra questi, rispettare e riconoscimento dei diritti esistenti di accesso alla terra e alle risorse naturali; non intaccare la sovranità alimentare; assicurare processi di accesso alla terra trasparenti e monitorati; generare impatti sociali desiderabili e distribuibili senza aumentare la vulnerabilità. Imbarazzanti princípi di carta. Quale giustizia ne assicura il rispetto?

Una corsa contro la sovranità alimentare
Olivier De Schutter, relatore speciale sul diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite dal 2008, è convinto che gli investimenti su larga scala in agricoltura non siano per forza una cosa buona. È critico nei confronti dei RAI della Banca Mondiale; la sua lista di principi, sottoposta al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, è molto diversa: la terra non deve essere ceduta senza l’accordo delle comunità locali; gli investimenti devono essere a beneficio delle popolazioni locali; una percentuale della produzione deve essere venduta sui mercati locali, ecc. (in .pdf, articolo in inglese). Inoltre, l’istituzione di un processo trasparente di informazione sui progetti e sulle condizioni di realizzazione non è una condizione sufficiente perché le popolazioni locali possano dare il loro consapevole consenso. Permangono forti asimmetrie di potere a sfavore di chi non ha alternative, depauperato, vulnerabile. Nel frattempo la corsa avanza e chi sta davanti è sempre più irraggiungibile. Avanza l’insicurezza alimentare e arretra la sovranità alimentare, in alcuni casi fino a ritirarsi dalla gara. Capitali transnazionali senza scrupoli e governi nazionali opportunisti stanno depauperando intere regioni rurali del pianeta. Laddove l’agricoltura di sussistenza è il principale motore dell’ordinamento territoriale, l’agro-business è un nemico da respingere perché minaccia il diritto di decidere cosa, come e per chi produrre. Il diritto al cibo ed alla sovranità alimentare è minacciato dalle pratiche di land grabbing: il riso prodotto da Malibya sulle terre dell’Office du Niger prende il volo per la Libia, come pure quello coltivato in Etiopia è destinato all’Arabia Saudita. Nello specifico del caso africano, la disponibilità di terre ancestrali sulle quali le comunità locali praticano un’agricoltura pluviale di tipo tradizionale (mais, miglio, sorgo o altri cereali antichi come il fonio, Digitaria exilis) diminuisce progressivamente di fronte all’avanzata tecnologica delle piantagioni di jatropha o altri vegetali destinati alla produzione di agrocarburanti. Queste espansioni agricole sottraggono alla piccola agricoltura quel margine di sicurezza minimale che – fatte salve le eccezioni pluviometriche negative – ha da sempre consentito di riempire i granai di miglio. Si forzano le economie locali verso le esportazioni, lasciandole prive di margini di beneficio e quindi di opportunità di sviluppo e di sopravvivenza. Secondo Via Campesina “l'agricoltura e l'alimentazione sono fondamentali per tutti i popoli, sia in termini di produzione e disponibilità di quantità sufficienti di alimenti nutrienti e sicuri, sia in quanto pilastri di comunità, culture e ambienti rurali e urbani salubri. Tutti questi diritti vengono erosi dalle politiche economiche neoliberiste che con crescente enfasi spingono le grandi potenze economiche come gli Stati Uniti e l'Unione Europea, attraverso istituzioni multilaterali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Mondiale. Invece di garantire l'alimentazione per tutta la gente del mondo, questi organismi presiedono un sistema che moltiplica la fame e diverse forme di denutrizione, con l'esclusione di milioni di persone dall'accesso a beni e risorse produttive come la terra, l'acqua, le sementi, le tecnologie e le conoscenze” (.doc in italiano). 
Paola Scarsi www.reginamundi.info/
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