Madagascar:
quasi una grande zattera tra Asia e Africa, variopinto miscuglio di culture e
tradizioni diverse. E dove la morte riesce a diventare "l’evento più importante
della vita".
Atterrando
in Madagascar sul piccolo aeroporto di Nosy-Be, costruito a ridosso di un
villaggio di capanne in legno e su palafitte (per staccare la struttura dalla
terra e tenerla asciutta), sembra di essere ritornati indietro nel tempo.
Quando, poi, ci si immette sulla strada che conduce alla parte abitata di
Nosy-Be (isoletta a nord del paese), si resta ancora più meravigliati dallo
spettacolo. Si passa attraverso le coltivazioni più disparate, dai profumi
inebrianti, e tra alberi da frutta a profusione; nella stagione dei monsoni,
sembra addirittura di correre su di un tappeto di manghi, caduti così numerosi
dagli alberi che non ci sono mani sufficienti per raccoglierli, né bocche per
mangiarli.
Una
decina di chilometri per arrivare a Hell-Ville, capitale dell’isola, con molte
case coloniali francesi; altri dieci chilometri e arriviamo ad una grande
scuola, sulla riva dell’Oceano Indiano, sul lato ovest, in faccia al Mozambico.
Nel
gennaio 1999 misi piede per la prima volta a Nosy-Be e, più precisamente, nella
scuola delle "Discepole del Sacro Cuore" di Lecce, che è diventata
anche la mia missione.
Vedendo
un costone alto e scosceso a picco sull’oceano, proprio dietro alla scuola, mi
è venuta l’idea di edificarvi una chiesetta bianca, bella e slanciata una
piccola costruzione, ma che si vedesse da lontano da piroghieri, motonauti,
marinai, vacanzieri, pescatori... da tutti quelli, insomma, che solcano questo
lembo di Oceano Indiano.
Il
piccolo sogno è oggi realtà. La Consolata, in questo anno centenario di
fondazione dei suoi missionari, ha una chiesetta sulla più bella isola del
Madagascar. Una generosa signora brianzola, devota da sempre della Consolata,
ha sostenuto le spese dell’opera. Il santuario diventerà certamente una meta di
preghiera per chi si avventurerà su quest’isola di sogno!
L’isola
dei profumi
Nosy-Be,
estesa come l’isola d’Elba, è una meraviglia nel suo genere, esotica e moderna,
turistica e selvaggia. Situata a 15 chilometri dalla costa del Madagascar, è di
origine vulcanica e montagnosa, con molti laghi formatisi negli antichi
crateri. È chiamata "l’isola dei profumi" per le colture di canna da
zucchero, caffè, vaniglia, pepe, zafferano, zenzero. E merita la reputazione di
piccolo paradiso.
Oltre
la metà degli abitanti (circa 30 mila) è cristiana, in maggioranza cattolica,
con minoranze musulmane, indiane e cinesi. La popolazione, tranquilla e
accogliente, sa convivere in pace nella mescolanza delle diverse razze.
A
Nosy-Be, con le suore "discepole", ci occupiamo di una grande scuola
di 1.030 allievi: una scuola tradizionale che, secondo il sistema francese,
parte dalla terza all’undicesima classe. Le maestre sono suore malgasce ed è,
ovviamente, cattolica, anche se non si fanno differenze di religione.
Accettiamo tutti, finché c’è posto. Le varie religioni convivono senza alcun
problema. E questo è bello.
I
nostri allievi sono in maggioranza figli di tagliatori di canna da zucchero, il
lavoro più duro che si possa immaginare, un’attività da schiavi, che molte
tribù rifiutano di fare. Il salario è da fame e molti genitori riescono con
difficoltà a pagare la piccola quota mensile per mandare i figli a scuola.
Tuttavia
la nostra scuola funziona bene: le suore si impegnano al massimo e i risultati
sono buoni. È forse per questo che tutti vogliono venire da noi, anche perché,
molte volte, sulla regolarità del pagamento chiudiamo un occhio... Ultimamente
siamo anche riusciti a fare adottare i bambini più poveri, con grande sollievo
dei genitori.
La
scuola inizia alle sette: ed è uno spettacolo assistere all’arrivo degli
scolari, tutti con il grembiulino azzurro, la maggioranza a piedi nudi; chi
lungo la spiaggia e chi attraverso i campi di canna da zucchero. Visi belli e
sorridenti, rispettosi e vivaci.
Vivere
per... morire
Uno
dei fatti che più mi ha colpito, arrivando in Madagascar, è la coabitazione
(non sempre facile) tra cristianesimo e certi riti locali legati al culto dei
morti. Oltre la metà dei malgasci è ancora legata alla religione tradizionale,
che si riduce alla venerazione degli antenati.
Madagascar:
quasi una grande zattera tra Asia e Africa, variopinto miscuglio di culture e
tradizioni diverse. E dove la morte riesce a diventare "l’evento più importante
della vita".
Atterrando
in Madagascar sul piccolo aeroporto di Nosy-Be, costruito a ridosso di un
villaggio di capanne in legno e su palafitte (per staccare la struttura dalla
terra e tenerla asciutta), sembra di essere ritornati indietro nel tempo.
Quando, poi, ci si immette sulla strada che conduce alla parte abitata di
Nosy-Be (isoletta a nord del paese), si resta ancora più meravigliati dallo
spettacolo. Si passa attraverso le coltivazioni più disparate, dai profumi
inebrianti, e tra alberi da frutta a profusione; nella stagione dei monsoni,
sembra addirittura di correre su di un tappeto di manghi, caduti così
numerosi dagli alberi che non ci sono mani sufficienti per raccoglierli, né
bocche per mangiarli.
Una
decina di chilometri per arrivare a Hell-Ville, capitale dell’isola, con
molte case coloniali francesi; altri dieci chilometri e arriviamo ad una
grande scuola, sulla riva dell’Oceano Indiano, sul lato ovest, in faccia al
Mozambico.
Nel
gennaio 1999 misi piede per la prima volta a Nosy-Be e, più precisamente,
nella scuola delle "Discepole del Sacro Cuore" di Lecce, che è
diventata anche la mia missione.
Vedendo
un costone alto e scosceso a picco sull’oceano, proprio dietro alla scuola,
mi è venuta l’idea di edificarvi una chiesetta bianca, bella e slanciata una
piccola costruzione, ma che si vedesse da lontano da piroghieri, motonauti,
marinai, vacanzieri, pescatori... da tutti quelli, insomma, che solcano
questo lembo di Oceano Indiano.
Il
piccolo sogno è oggi realtà. La Consolata, in questo anno centenario di
fondazione dei suoi missionari, ha una chiesetta sulla più bella isola del
Madagascar. Una generosa signora brianzola, devota da sempre della Consolata,
ha sostenuto le spese dell’opera. Il santuario diventerà certamente una meta di
preghiera per chi si avventurerà su quest’isola di sogno!
L’isola
dei profumi
Nosy-Be,
estesa come l’isola d’Elba, è una meraviglia nel suo genere, esotica e
moderna, turistica e selvaggia. Situata a 15 chilometri dalla costa del
Madagascar, è di origine vulcanica e montagnosa, con molti laghi formatisi
negli antichi crateri. È chiamata "l’isola dei profumi" per le
colture di canna da zucchero, caffè, vaniglia, pepe, zafferano, zenzero. E
merita la reputazione di piccolo paradiso.
Oltre
la metà degli abitanti (circa 30 mila) è cristiana, in maggioranza cattolica,
con minoranze musulmane, indiane e cinesi. La popolazione, tranquilla e
accogliente, sa convivere in pace nella mescolanza delle diverse razze.
A
Nosy-Be, con le suore "discepole", ci occupiamo di una grande
scuola di 1.030 allievi: una scuola tradizionale che, secondo il sistema
francese, parte dalla terza all’undicesima classe. Le maestre sono suore
malgasce ed è, ovviamente, cattolica, anche se non si fanno differenze di
religione. Accettiamo tutti, finché c’è posto. Le varie religioni convivono
senza alcun problema. E questo è bello.
I
nostri allievi sono in maggioranza figli di tagliatori di canna da zucchero,
il lavoro più duro che si possa immaginare, un’attività da schiavi, che molte
tribù rifiutano di fare. Il salario è da fame e molti genitori riescono con
difficoltà a pagare la piccola quota mensile per mandare i figli a scuola.
Tuttavia
la nostra scuola funziona bene: le suore si impegnano al massimo e i
risultati sono buoni. È forse per questo che tutti vogliono venire da noi,
anche perché, molte volte, sulla regolarità del pagamento chiudiamo un
occhio... Ultimamente siamo anche riusciti a fare adottare i bambini più
poveri, con grande sollievo dei genitori.
La
scuola inizia alle sette: ed è uno spettacolo assistere all’arrivo degli
scolari, tutti con il grembiulino azzurro, la maggioranza a piedi nudi; chi
lungo la spiaggia e chi attraverso i campi di canna da zucchero. Visi belli e
sorridenti, rispettosi e vivaci.
Vivere
per... morire
Uno
dei fatti che più mi ha colpito, arrivando in Madagascar, è la coabitazione
(non sempre facile) tra cristianesimo e certi riti locali legati al culto dei
morti. Oltre la metà dei malgasci è ancora legata alla religione
tradizionale, che si riduce alla venerazione degli antenati.
Le
diatribe su questo problema continuano da 180 anni, da quando, cioè, il
cristianesimo è arrivato per la prima volta nella grande isola. Le opinioni
divergono: alcuni ritengono le pratiche dei morti in contraddizione con l’insegnamento
di Cristo; altri come una testimonianza dell’immortalità dell’anima.
La
differenza di attitudine tra gli stessi cristiani ha portato a querele,
destinate a durare all’infinito. Fra l’altro, i riti ancestrali prevedono
sacrifici di zebù, funerali stabiliti dallo stregone e rivoltamento dei
cadaveri dopo cinque-sette anni dalla morte, per dare finalmente una
sepoltura definitiva al defunto, che diventa così "antenato".
Come
tutte le religioni tradizionali africane, anche quella malgascia afferma che
Dio è buono, ma è lontano ed è meglio lasciarlo tranquillo. Si ha, piuttosto,
paura dei morti e si fa di tutto per tenerseli buoni. Gli antenati conservano
la loro identità e i legami familiari. La credenza considera che tutto il
male che arriva in una famiglia (incidenti, malattie, lutti, difficoltà
economiche...) derivi dal mancato rispetto di certi desideri dei defunti.
Pertanto tutti (cristiani compresi) non cessano mai di sottoporsi a costosi
sacrifici in onore dei defunti: in occasione di un matrimonio, l’acquisto di
una piroga, la costruzione di una nuova abitazione. Così, per tenerseli
buoni!
In
Madagascar si vive per prepararsi... a morire. La morte segna il passaggio
dal rango di "uomo" a quello di "antenato" ed è
caratterizzata da tre cerimonie fondamentali: i "primi" funerali;
l’esumazione e il rivoltamento dello scheletro (pulito con cura e pitturato
di vernice bianca); il "secondo" funerale (dopo cinque-sette anni),
con nuovi sacrifici. In genere il defunto viene sepolto nel suo campo. Molti
di quelli che vivono in città lasciano come ultima volontà di farsi portare
nella terra di origine. "È la morte l’evento principale nella vita di un
malgascio" mi dice un vecchio tagliatore di canna a riposo.
Quando
si attraversano le campagne, si incontrano sovente monumenti funebri, negli
stili più diversi, secondo le regioni. Il funerale è una festa e la sua
importanza dipende dalla ricchezza del defunto e dal numero di zebù messi a
disposizione dei partecipanti alle esequie. Alcune tombe, ornate da centinaia
di corna di zebù, indicano palesemente la potenza dello scomparso.
A
proposito: in Madagascar vivono più zebù che persone. Mentre gli abitanti
sono circa 15 milioni, gli zebù arrivano a 17 milioni e ogni famiglia ne
possiede almeno uno, che alleva per il prossimo lutto.
Frammenti
di culture diverse
Non
è possibile stabilire quale sia stata la stirpe originaria del Madagascar. Le
18 etnie principali che oggi l’abitano mostrano un’incredibile varietà di
tratti somatici, tanto da rendere impossibile ogni generalizzazione.
Crocevia
geografico tra Asia, Africa, Arabia e occidente, in Madagascar si ritrovano
elementi culturali di mille paesi: il riso coltivato a terrazze come in
Indonesia; le piroghe a bilanciere dei polinesiani; i libri di magia scritti
in arabo; l’allevamento brado, caratteristico delle tribù seminomadi
africane; i mercati e negozi indiani; chiese cattoliche e protestanti,
abbinate in ogni centro abitato; l’amministrazione pubblica, fotocopia di
quella francese.
L’isolamento
millenario del Madagascar ha fatto sì che gli elementi portati da ciascuno si
mescolassero e sviluppassero in modo originale. Natura e cultura hanno
seguito una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.
Sulla
grande "isola rossa" vivono molte specie di serpenti, ma nemmeno
uno è velenoso; moltissimi gli animali nella foresta, ma neppure uno feroce.
Alcune specie di animali ed uccelli sono veramente prolifiche nel Madagascar;
famosissimi i lemuri, proscimmie graziose e mobilissime, sovente considerate
portatrici di malocchio dalla popolazione (che li perseguita).
Quasi
tutti i malgasci hanno la pelle nera, ma nella forma degli occhi, i capelli
lisci, i nasi stretti, gli zigomi sporgenti... si legge l’oriente che è
passato di qui. E si è anche fermato. Un villaggio tipico malgascio, anche il
più sperduto, ha una chiesa protestante, una cattolica e sempre un emporio
con un cinese o un indiano dietro il banco di vendita. No, i malgasci non
amano il commercio e continuano pacifici sulla strada della tradizione, che
li vede da sempre agricoltori e allevatori di zebù.
Una
cosa importante: non dite ad un malgascio che è africano! Il Madagascar non
si riconosce nel continente. Come una grande zattera che galleggia
sull’Oceano Indiano, l’isola si richiama piuttosto all’Asia, non senza una
certa fierezza, dovuta a parentele lontane e misteriose. La distinzione
arriva talvolta a una certa forma di razzismo, sul quale si è fondata la
stratificazione sociale di oggi, ben prima dell’arrivo dell’uomo bianco.
Al
di là di tutte le teorie, il colore della pelle nera, bruna o chiara, è un
criterio essenziale di classificazione dei malgasci stessi tra di loro: più
la pelle è scura e meno l’origine è nobile. Una semplice osservazione della
folla la dice più lunga di qualsiasi discorso scientifico. Tinte nere, gialle
o ramate, capelli lisci o crespi, occhi stretti o molto aperti: il miscuglio
è evidente e dà seguito a combinazioni tra il tipo malese dalla pelle chiara,
il nero oceanico e il nero africano.
La
fusione delle razze è la conseguenza diretta di un popolo che ha tante
origini quante sono state le ondate migratorie negli ultimi 15 secoli.
È
vero che il Madagascar occupa (ahimè!) uno degli ultimi posti in tutte le
classifiche e statistiche disponibili: 13° paese più povero del mondo, 5° più
"dipendente" dagli aiuti esterni, 12° tra i più assistiti. È anche
il penultimo, dopo il Tibet, nell’uso di concimi chimici e, dunque, il
secondo paese nel praticare un’agricoltura biologica ed ecologica, grazie
alla povertà dei contadini. La condizione di miseria della "grande
isola" sembra sfuggire a ogni logica.
Nonostante
gli aiuti e il sostegno, il paese continua a sprofondare. E tutti gli esperti
concordano nel dire che l’isola possiede un potenziale enorme, che dovrebbe,
invece, permetterle di svilupparsi in fretta.
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