Chi
ruba gli ettari? 5 testimoni svelano la lista nera del land grabbing: dalle
multinazionali alle università.
Campi (molto)
elisi. Due emigrati malgasci leggono
sul Financial Times che la Daewoo sta comprando metà della
superficie coltivabile del Madagascar, il loro paese. L'azienda sudcoreana ha
svelato agli investitori gli esiti del bottino, trattato con il governo locale:
l'utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari di terra per produrre mais e
palma da olio, per 99 anni, a costo zero. Accordo sfumato in seguito al golpe
dell'attuale presidente Andry Rajoelina. Lo scoop del Financial Times
racconta uno dei tentativi più eclatanti di accaparramento terre
(dall'inglese land grabbing) e testimonia il viaggio rocambolesco
delle notizie, che rimbalzano nelle borse del mondo molto prima di arrivare a
chi, di questi accordi, ne pagherà le conseguenze. Secondo le stime
Fao, l'acquisto (solo quello tracciato) di terreni su vasta scala, tra il 2002
e il 2011, ammonta nel mondo a 200 milioni di ettari, sette volte lì Italia.
Il termine land
grabbing, ufficializzato nel 2011 dall'International Land Coalition,
indica «le acquisizioni di terre effettuate violando i diritti umani, in
particolare delle donne, ignorando il principio del consenso delle comunità,
l'impatto sociale, economico e ambientale, evitando la conclusione di contratti
trasparenti, con impegni vincolanti sulla ripartizione dei benefici». La
dimensione dei territori è importante, ma non decisiva, perché land grabbing
significa soprattutto erosione del diritto a produrre, che è dimensionato al
paese in cui ci si trova. Dalle migliaia di ettari dell'Etiopia, ai sessanta
della Sardegna.
Da Wall Street
alle fattorie. Dopo l'impennata dei prezzi dei
generi alimentari del 2006 e il crack della finanza nel 2008, la terra è
diventata merce di scambio per investitori: si ottiene per un pugno di dollari,
se non gratis, esentasse, risorse idriche incluse nel pacchetto. Alla ricerca
dell'oro verde non ci sono più (solo) le multinazionali dell'agroalimentare, ma
ex squaletti di Goldman Sachs e Merrill Lynch, appoggiati da governi più o meno
corrotti in cerca di dollari e contatti. «La novità è che il capitale si è
spostato dai settori tradizionali alle materie prime alimentari come grano,
soia, mais e poi alla gestione diretta della terra» dice Stefano
Liberti, giornalista e autore di Land Grabbing. Come il mercato
delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax). Ai summit per
investitori, racconta, si sentono slogan come «spianeremo la strada tra Wall
Street e le fattorie dell'Africa». Basta cliccare il web di Global AGInvesting per immergersi in praterie
bucoliche, solcate da trebbiatrici tirate a lucido.
Alimentare,
Watson. Investimenti giustificati
dall’allarme lanciato dai dati della Fao, nel 2050 saremo 9 miliardi e non ci
sarà cibo per tutti. «Siamo soltanto agli inizi dell’impennata dei consumi»,
dice Paolo De Castro, presidente della Commissione Agricoltura e
Sviluppo Rurale dell’UE, agronomo e autore di Corsa alla terra. Cibo e
agricoltura nell’era della nuova scarsità (Donzelli), «che non è
frutto della demografia, ma del cambiamento nelle diete alimentari. Prima
eravamo tre miliardi e ora siamo sette, ma abbiamo sempre mangiato. Finché agli
asiatici bastava il riso non c’erano problemi, poi il potere d’acquisto è
aumentato, sono saliti i consumi di latte e carne ed è scattata la crisi: una
proteina animale richiede sette proteine vegetali per essere prodotta. L’Europa
è stata formidabile nel lanciare l’allarme dei cambiamenti climatici, ma la sicurezza
alimentare arriva prima. I problemi più seri del climate change li avremo a
fine secolo, invece non arriveremo a metà che ci saranno guerre. La stessa
primavera araba è figlia dell’impennata dei prezzi del pane in Algeria».
I nuovi
pionieri. L’accaparramento è venduto come un
“baratto” a beneficio di tutti. Terra in cambio di tecnologia, scuole e
infrastrutture. «In realtà significa espulsione di sistemi agrari che
funzionavano» dice Antonio Onorati, presidente del Centro Internazionale
Crocevia, ong che da oltre cinquant’anni lavora sul campo. «C’è una grande
superficialità nel dire “tanto anche prima erano poveri”: si giustificano gli
atti con il miraggio del better living. Ma lo stile di vita che conducevano
queste popolazioni, l’economia che dominavano era un modo dignitoso per vivere,
un modo che loro controllavano. La drammatica conseguenza è il sequestro del
diritto a produrre, dimensionato al paese in cui avviene. I pastori del Kenya
non erano certo lì di passaggio quando gli hanno tolto la terra di sotto,
gestivano sistemi agrari complessi che hanno bisogno di territori vasti,
considerando che la pastorizia nomade nel mondo nutre seicento milioni di
persone».
Businnes
Plan(t). Ma che fine fanno i campi
sottratti alle popolazioni? C’è sempre una buona scusa per
accaparrare. C’è chi, allarmato dall’emergenza alimentare, si assicura
territori in cui produrre cibo, come l’India o gli aridi Emirati Arabi, ricchi
di petrolio ma poveri di acqua e terre coltivabili. C’è il grabbing (fanta)
biologico di stati europei (Italia compresa, al secondo posto dopo
l’Inghilterra nel rapporto di Re:Common) che coltivano agrocombustibili e
rubano il terreno alla biodiversità. C’è chi pianta foreste nel nord del
Mozambico per trasformarle in arredi e chi costruisce dighe lasciando a bocca
asciutta i coltivatori. E c’è il land banking, di chi
millanta progetti fantasma, perché il valore della terra aumenterà e in 99 anni
c’è tempo per vendere.
Ecosistematici. L’ultimo trend passa per il turismo (fanta)sostenibile in Africa,
Brasile, Filippine, Sri Lanka e Thailandia. «Il caso più recente racconta la
battaglia dei Masai in Kenya, espulsi dalle loro terre e ricollocati in terreni
marginali con l’idea del cleaning: la natura si salva solo senza
l’uomo», dice Antonio Onorati, «il lato comico - e drammatico insieme - è che
adesso i gestori di queste attività (alcuni sono parchi a pagamento), stanno
rinegoziando con i Masai per convincerli a tornare all’interno delle aree,
perché la loro assenza ha creato uno squilibrio totale nella natura». Anche a
Loliondo, in Tanzania, riporta Al Jazeera, il governo ha spostato migliaia di
indigeni per far posto a un sito di “conservazione ambientale” (leggi: riserva
di caccia per turisti), gestito da un colosso di Dubai. La compagnia si è
difesa dicendo che i safari durano sei mesi all’anno e che i Masai potranno
tornare in bassa stagione.
Leonesse
africane. «Nei paesi in via di sviluppo la
gestione agricola è affidata alle donne, che sfamano i propri figli e l’intera
famiglia allargata» dice Claudia Sorlini, docente ed ex preside della facoltà
di Agraria di Unimi e membro del comitato scientifico di Expo 2015. «In molti
paesi, quando restano vedove, sono private dell’appezzamento, perché si
presuppone che non siano più in grado di gestirlo. In cambio ricevono terreni
lontani e meno produttivi». Per difendere i diritti delle donne,Oxfam South
Africa, Future Agricultures e Action Aid hanno
organizzato il Pan African Land Hearing, che ha dato voce alle
storie di chi, ogni giorno, difende la terra con i denti. Come Rebecca Oniango,
vedova di Siaya, in Kenya: «Due mesi dopo la morte di mio marito sono venuti a
dirmi che la mia era stata venduta», racconta, «sono diventata l’incredibile
Hulk, morte mia o morte loro. Ma quante lo faranno? Abbiamo una costituzione e
una Land Commission, ma se sei una donna di te non si preoccupa nessuno, non
sei niente».
Zappe wireless. Il monitoraggio quotidiano del territorio è in mano ai contadini. Le
reti più grandi e influenti sono La Via Campesina, basata in Asia, e la Roppa,
in Africa occidentale. «In molti paesi, come in Mali, è già un miracolo che ci
siano associazioni», racconta Onorati, «e ogni tanto i leader devono sparire
perché li cerca il governo». L'idea più innovativa l'ha avuta il giornalista
indonesiano Harry Surjadi, che ha trasformato i braccianti del West
Kalimantan in citizen journalists, e i loro cellulari in armi per combattere
gli espropri illeciti dei produttori di olio di palma, a colpi di sms. Con il
software FrontLine SMS avvisano direttamente Ruai Tv. «Abbiamo formato le
persone di casa in casa attraverso la rete contadina Aman, la più grande
dell'Indonesia», dice Surjadi, «nel 2010 la mia analisi ha rilevato la svendita
di 550mila ettari, ma il governo locale ha pianificato l'estensione a 5 milioni
entro il 2020». Guarda caso l'anno in cui l'Unione Europea ha fissato che il
20% sulla quantità complessiva di energia consumata dovrà essere di energie
rinnovabili, con i relativi incentivi. Nel 2013 il progetto è valso a Surjadi
lÕAward for Excellence CSC e l'australiano Social Change Award.
Confessioni
pericolose. Se il network Landmatrix ammonisce
che la stracitata Cina ha un ruolo molto meno invasivo di quanto i media
facciano credere, ci sono realtà davvero al di sopra di ogni sospetto. Il
rapporto del progetto Hands off the Land del Transnational Institute (TNI) fa
luce su alcuni investimenti della Chikweti Forests a Niassa, Mozambico. La
società è controllata e gestita dal Global Solidarity Forest Fund, un fondo
d'investimento svedese specializzato nel settore forestale, avviato nel 2006
dalla Diocese of Västerås, divisione della chiesa svedese e sovvenzionato dalla
chiesa nazionale norvegese. Ma del resto loro «sviluppano progetti con sicuro
ritorno per gli investitori, per lo sviluppo delle comunità e l'integrità
ambientale». E chi l'avrebbe mai detto che sarebbero comparsi i nomi delle
università americane Harvard e Vanderbilt nel report Understanding Land
Investment Deals in Africa dell'Oakland Institute, think tank che monitora le
emergenze sociali e promuove il dibattito all'interno dei forum internazionali?
Grabbing
all'italiana. «L'accaparramento riguarda il nord, il
sud, l'Europa e l'Italia. L'attenzione dei mass media si è concentrata su
500mila ettari in Sudan, 450mila ettari in Mali del cattivissimo Gheddafi e sui
cattivi cinesi. La questione però è un’altra, anche la sparizione di un ettaro
di terra fertile è potenzialmente un dramma, la dimensione è importante ma non
è decisiva» dice Onorati. A Narbolia, Oristano, la comunità contadina si è
unita contro un piano che prevede l’utilizzo di centinaia di ettari di terra
coltivabile per la costruzione dell’impianto di serre fotovoltaiche più grande
d’Europa. In Abruzzo hanno bloccato sei pozzi e la nave-raffineria inglese di
Ombrina Mare e anche il centro oli destinato a inquinare le vigne di Tollo. In
Sardegna contadini e cittadini hanno fermato il progetto per l’estrazione del
gas della Saras, che avrebbe compromesso l’unico centro di produzione di latte
dell’isola. In Lombardia, dove prima nasceva grano biologico, passerà la nuova
tangenziale esterna di Milano. «Lì era nata la filiera del pane Spiga &
Madia, un’esperienza di supporto ai produttori agricoli da parte dei
consumatori», spiega Franca Roiatti, giornalista, autrice de Il nuovo
colonialismo. Caccia alle terre coltivabili (Università Bocconi), tra
i promotori della campagna di sensibilizzazione “Sulla fame non si specula”.
«Avevano avviato il recupero del territorio, avevano riportato grano biologico
in un posto in cui c’erano solo capannoni».
Ricette
antigrabbing. I soldi delle azioni predatorie
arrivano (in)direttamente sui nostri conti e nel nostro piatto, complici banche
e fondi pensione. «La cosa migliore è rivolgersi alle banche etiche, che
investono nel microcredito. Alcune gestite e utilizzate sopratutto da donne,
danno garanzie estreme, come la Grameen Bank fondata dal premio Nobel Muhammad
Yunus. È importante anche il comportamento quotidiano: per esempio mangiare
carne in modo moderato, quella di pollo costa energeticamente molto meno,
possibilmente a km 0», dice Claudia Sorlini, «nel 2015 avremo un’occasione
straordinaria per portare l’attenzione sul tema e promuovere uno stile di
finanziamento più virtuoso. Per la prima volta i paesi in via di sviluppo
avranno piccoli padiglioni, finanziati da Expo, in cui potranno esporre. E non
saranno chiamati a rappresentarsi con lance e tamburi, ma a testimoniare la
biodiversità».
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