lunedì 30 settembre 2013

Senza (s)campo

Chi ruba gli ettari? 5 testimoni svelano la lista nera del land grabbing: dalle multinazionali alle università.


Campi (molto) elisi.  Due emigrati malgasci leggono sul Financial Times che la Daewoo sta comprando metà della superficie coltivabile del Madagascar, il loro paese. L'azienda sudcoreana ha svelato agli investitori gli esiti del bottino, trattato con il governo locale: l'utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari di terra per produrre mais e palma da olio, per 99 anni, a costo zero. Accordo sfumato in seguito al golpe dell'attuale presidente Andry Rajoelina. Lo scoop del Financial Times racconta uno dei tentativi più eclatanti di accaparramento terre (dall'inglese land grabbing) e testimonia il viaggio rocambolesco delle notizie, che rimbalzano nelle borse del mondo molto prima di arrivare a chi, di questi accordi, ne pagherà le conseguenze. Secondo le stime Fao, l'acquisto (solo quello tracciato) di terreni su vasta scala, tra il 2002 e il 2011, ammonta nel mondo a 200 milioni di ettari, sette volte lì Italia.

Il termine land grabbing, ufficializzato nel 2011 dall'International Land Coalition, indica «le acquisizioni di terre effettuate violando i diritti umani, in particolare delle donne, ignorando il principio del consenso delle comunità, l'impatto sociale, economico e ambientale, evitando la conclusione di contratti trasparenti, con impegni vincolanti sulla ripartizione dei benefici». La dimensione dei territori è importante, ma non decisiva, perché land grabbing significa soprattutto erosione del diritto a produrre, che è dimensionato al paese in cui ci si trova. Dalle migliaia di ettari dell'Etiopia, ai sessanta della Sardegna.

Da Wall Street alle fattorie. Dopo l'impennata dei prezzi dei generi alimentari del 2006 e il crack della finanza nel 2008, la terra è diventata merce di scambio per investitori: si ottiene per un pugno di dollari, se non gratis, esentasse, risorse idriche incluse nel pacchetto. Alla ricerca dell'oro verde non ci sono più (solo) le multinazionali dell'agroalimentare, ma ex squaletti di Goldman Sachs e Merrill Lynch, appoggiati da governi più o meno corrotti in cerca di dollari e contatti. «La novità è che il capitale si è spostato dai settori tradizionali alle materie prime alimentari come grano, soia, mais e poi alla gestione diretta della terra» dice Stefano Liberti, giornalista e autore di Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax). Ai summit per investitori, racconta, si sentono slogan come «spianeremo la strada tra Wall Street e le fattorie dell'Africa». Basta cliccare il web di Global AGInvesting per immergersi in praterie bucoliche, solcate da trebbiatrici tirate a lucido.
Alimentare, Watson. Investimenti giustificati dall’allarme lanciato dai dati della Fao, nel 2050 saremo 9 miliardi e non ci sarà cibo per tutti. «Siamo soltanto agli inizi dell’impennata dei consumi», dice Paolo De Castro, presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale dell’UE, agronomo e autore di Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità (Donzelli), «che non è frutto della demografia, ma del cambiamento nelle diete alimentari. Prima eravamo tre miliardi e ora siamo sette, ma abbiamo sempre mangiato. Finché agli asiatici bastava il riso non c’erano problemi, poi il potere d’acquisto è aumentato, sono saliti i consumi di latte e carne ed è scattata la crisi: una proteina animale richiede sette proteine vegetali per essere prodotta. L’Europa è stata formidabile nel lanciare l’allarme dei cambiamenti climatici, ma la sicurezza alimentare arriva prima. I problemi più seri del climate change li avremo a fine secolo, invece non arriveremo a metà che ci saranno guerre. La stessa primavera araba è figlia dell’impennata dei prezzi del pane in Algeria».
I nuovi pionieri. L’accaparramento è venduto come un “baratto” a beneficio di tutti. Terra in cambio di tecnologia, scuole e infrastrutture. «In realtà significa espulsione di sistemi agrari che funzionavano» dice Antonio Onorati, presidente del Centro Internazionale Crocevia, ong che da oltre cinquant’anni lavora sul campo. «C’è una grande superficialità nel dire “tanto anche prima erano poveri”: si giustificano gli atti con il miraggio del better living. Ma lo stile di vita che conducevano queste popolazioni, l’economia che dominavano era un modo dignitoso per vivere, un modo che loro controllavano. La drammatica conseguenza è il sequestro del diritto a produrre, dimensionato al paese in cui avviene. I pastori del Kenya non erano certo lì di passaggio quando gli hanno tolto la terra di sotto, gestivano sistemi agrari complessi che hanno bisogno di territori vasti, considerando che la pastorizia nomade nel mondo nutre seicento milioni di persone».
Businnes Plan(t). Ma che fine fanno i campi sottratti alle popolazioni? C’è sempre una buona scusa per accaparrare. C’è chi, allarmato dall’emergenza alimentare, si assicura territori in cui produrre cibo, come l’India o gli aridi Emirati Arabi, ricchi di petrolio ma poveri di acqua e terre coltivabili. C’è il grabbing (fanta) biologico di stati europei (Italia compresa, al secondo posto dopo l’Inghilterra nel rapporto di Re:Common) che coltivano agrocombustibili e rubano il terreno alla biodiversità. C’è chi pianta foreste nel nord del Mozambico per trasformarle in arredi e chi costruisce dighe lasciando a bocca asciutta i coltivatori. E c’è il land banking, di chi millanta progetti fantasma, perché il valore della terra aumenterà e in 99 anni c’è tempo per vendere.

Ecosistematici. L’ultimo trend passa per il turismo (fanta)sostenibile in Africa, Brasile, Filippine, Sri Lanka e Thailandia. «Il caso più recente racconta la battaglia dei Masai in Kenya, espulsi dalle loro terre e ricollocati in terreni marginali con l’idea del cleaning: la natura si salva solo senza l’uomo», dice Antonio Onorati, «il lato comico - e drammatico insieme - è che adesso i gestori di queste attività (alcuni sono parchi a pagamento), stanno rinegoziando con i Masai per convincerli a tornare all’interno delle aree, perché la loro assenza ha creato uno squilibrio totale nella natura». Anche a Loliondo, in Tanzania, riporta Al Jazeera, il governo ha spostato migliaia di indigeni per far posto a un sito di “conservazione ambientale” (leggi: riserva di caccia per turisti), gestito da un colosso di Dubai. La compagnia si è difesa dicendo che i safari durano sei mesi all’anno e che i Masai potranno tornare in bassa stagione.
Leonesse africane. «Nei paesi in via di sviluppo la gestione agricola è affidata alle donne, che sfamano i propri figli e l’intera famiglia allargata» dice Claudia Sorlini, docente ed ex preside della facoltà di Agraria di Unimi e membro del comitato scientifico di Expo 2015. «In molti paesi, quando restano vedove, sono private dell’appezzamento, perché si presuppone che non siano più in grado di gestirlo. In cambio ricevono terreni lontani e meno produttivi». Per difendere i diritti delle donne,Oxfam South AfricaFuture Agricultures e Action Aid hanno organizzato il Pan African Land Hearing, che ha dato voce alle storie di chi, ogni giorno, difende la terra con i denti. Come Rebecca Oniango, vedova di Siaya, in Kenya: «Due mesi dopo la morte di mio marito sono venuti a dirmi che la mia era stata venduta», racconta, «sono diventata l’incredibile Hulk, morte mia o morte loro. Ma quante lo faranno? Abbiamo una costituzione e una Land Commission, ma se sei una donna di te non si preoccupa nessuno, non sei niente».
Zappe wireless. Il monitoraggio quotidiano del territorio è in mano ai contadini. Le reti più grandi e influenti sono La Via Campesina, basata in Asia, e la Roppa, in Africa occidentale. «In molti paesi, come in Mali, è già un miracolo che ci siano associazioni», racconta Onorati, «e ogni tanto i leader devono sparire perché li cerca il governo». L'idea più innovativa l'ha avuta il giornalista indonesiano Harry Surjadi, che ha trasformato i braccianti del West Kalimantan in citizen journalists, e i loro cellulari in armi per combattere gli espropri illeciti dei produttori di olio di palma, a colpi di sms. Con il software FrontLine SMS avvisano direttamente Ruai Tv. «Abbiamo formato le persone di casa in casa attraverso la rete contadina Aman, la più grande dell'Indonesia», dice Surjadi, «nel 2010 la mia analisi ha rilevato la svendita di 550mila ettari, ma il governo locale ha pianificato l'estensione a 5 milioni entro il 2020». Guarda caso l'anno in cui l'Unione Europea ha fissato che il 20% sulla quantità complessiva di energia consumata dovrà essere di energie rinnovabili, con i relativi incentivi. Nel 2013 il progetto è valso a Surjadi lÕAward for Excellence CSC e l'australiano Social Change Award.
Confessioni pericolose. Se il network Landmatrix ammonisce che la stracitata Cina ha un ruolo molto meno invasivo di quanto i media facciano credere, ci sono realtà davvero al di sopra di ogni sospetto. Il rapporto del progetto Hands off the Land del Transnational Institute (TNI) fa luce su alcuni investimenti della Chikweti Forests a Niassa, Mozambico. La società è controllata e gestita dal Global Solidarity Forest Fund, un fondo d'investimento svedese specializzato nel settore forestale, avviato nel 2006 dalla Diocese of Västerås, divisione della chiesa svedese e sovvenzionato dalla chiesa nazionale norvegese. Ma del resto loro «sviluppano progetti con sicuro ritorno per gli investitori, per lo sviluppo delle comunità e l'integrità ambientale». E chi l'avrebbe mai detto che sarebbero comparsi i nomi delle università americane Harvard e Vanderbilt nel report Understanding Land Investment Deals in Africa dell'Oakland Institute, think tank che monitora le emergenze sociali e promuove il dibattito all'interno dei forum internazionali?
Grabbing all'italiana. «L'accaparramento riguarda il nord, il sud, l'Europa e l'Italia. L'attenzione dei mass media si è concentrata su 500mila ettari in Sudan, 450mila ettari in Mali del cattivissimo Gheddafi e sui cattivi cinesi. La questione però è un’altra, anche la sparizione di un ettaro di terra fertile è potenzialmente un dramma, la dimensione è importante ma non è decisiva» dice Onorati. A Narbolia, Oristano, la comunità contadina si è unita contro un piano che prevede l’utilizzo di centinaia di ettari di terra coltivabile per la costruzione dell’impianto di serre fotovoltaiche più grande d’Europa. In Abruzzo hanno bloccato sei pozzi e la nave-raffineria inglese di Ombrina Mare e anche il centro oli destinato a inquinare le vigne di Tollo. In Sardegna contadini e cittadini hanno fermato il progetto per l’estrazione del gas della Saras, che avrebbe compromesso l’unico centro di produzione di latte dell’isola. In Lombardia, dove prima nasceva grano biologico, passerà la nuova tangenziale esterna di Milano. «Lì era nata la filiera del pane Spiga & Madia, un’esperienza di supporto ai produttori agricoli da parte dei consumatori», spiega Franca Roiatti, giornalista, autrice de Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili (Università Bocconi), tra i promotori della campagna di sensibilizzazione “Sulla fame non si specula”. «Avevano avviato il recupero del territorio, avevano riportato grano biologico in un posto in cui c’erano solo capannoni».
Ricette antigrabbing. I soldi delle azioni predatorie arrivano (in)direttamente sui nostri conti e nel nostro piatto, complici banche e fondi pensione. «La cosa migliore è rivolgersi alle banche etiche, che investono nel microcredito. Alcune gestite e utilizzate sopratutto da donne, danno garanzie estreme, come la Grameen Bank fondata dal premio Nobel Muhammad Yunus. È importante anche il comportamento quotidiano: per esempio mangiare carne in modo moderato, quella di pollo costa energeticamente molto meno, possibilmente a km 0», dice Claudia Sorlini, «nel 2015 avremo un’occasione straordinaria per portare l’attenzione sul tema e promuovere uno stile di finanziamento più virtuoso. Per la prima volta i paesi in via di sviluppo avranno piccoli padiglioni, finanziati da Expo, in cui potranno esporre. E non saranno chiamati a rappresentarsi con lance e tamburi, ma a testimoniare la biodiversità».

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