È veneto di
origine e si chiama Giuseppe Berto proprio come l'autore de «Il male oscuro».
Ma il Berto in questione di professione è imprenditore. Alto, fisico asciutto,
da sportivo, nato a Bovolenta (Pd) nel 1947, dal 1998 Giuseppe Berto vive e
opera a Dhaka, in Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, ma anche una
delle tante «succursali» a basso costo delle imprese occidentali. Abbiamo
chiesto a lui - che, per inciso, in Bangladesh s'è fatto amico di molti
missionari - di raccontarci che significa essere imprenditori nello spirito
della Caritas in veritate.
Duecento dipendenti, fatturato
annuo: 13 milioni di dollari, una
struttura di 11 mila metri quadrati (che sta per raddoppiare), dove produciamo
tessuti per abbigliamento partendo da filati provenienti dall'India. I nostri
tessuti vanno a confezionisti locali che lavorano esclusivamente per
l'esportazione. Il 38 per cento dei nostri tessuti finisce poi a lavoratori
impiegati nel nostro settore confezioni con sede a Padova (circa tremila
dipendenti), il resto a confezionisti che lavorano per grandi catene di
distribuzione. Questo l'identikit dell'azienda che dirigo, la Eos Textile Mills
Ltd, insediata in Bangladesh undici anni fa.
La mia avventura
imprenditoriale ha una storia alle spalle. Io sono uno dei tre figli del
titolare di un'azienda fondata nel lontano 1887. Dopo il servizio militare, ho
preso un master in business administration, anche se il mio sogno era fare il
maestro di sci. Ma, una volta buttatomi nel lavoro, mi sono subito
appassionato. Da bambino - al mio paese, tremila anime - ho avuto come compagni
di giochi ragazzi di famiglie meno abbienti della mia. Mi sentivo un po' in
colpa per quello che io avevo e gli altri no. Il mio sogno, fin da giovane, era
riuscire a «equilibrare» un po' la situazione.
Quando comincia la mia attività di impresa, le cose inizialmente vanno benino. All'epoca avevamo due aziende: una tessile e l'altra di confezione. Negli anni Ottanta, però, la situazione si complica. Intorno ai trent'anni mi cade addosso la responsabilità dell'impresa e vengo chiamato a scelte importanti. Siamo riusciti a fare una ristrutturazione «morbida» senza subire neppure uno sciopero. Da 500 dipendenti siamo passati a 150 nel giro di un anno. Utilizzando tutti gli strumenti a disposizione (cassa integrazione speciale, prepensionamenti, cooperative...), abbiamo tagliato il personale in armonia con i sindacati.
Intorno agli anni Ottanta-Novanta, comincio a girare in vari Paesi dell'Asia. La grande miseria che vedo mi risveglia la sensazione provata da ragazzo. Cosa posso fare per questa gente? Decidiamo di chiudere l'azienda di confezioni in Italia ed aprire un'attività in Romania, poi in Cina e infine in Bangladesh.
GUIDATI ANCHE da padre Pierluigi Lupi, un saveriano, abbiamo fatto il salto. Lui mi ha aiutato ad inserirmi, così come nel reclutamento del personale e nella lingua. Abbiamo scelto questo Paese perché godeva di un canale privilegiato nelle esportazioni verso l'Europa (con esenzione di dazi) e perché era più povero di altri. Internazionalizzare l'azienda era anche un'opportunità per far crescere i miei figli, i quali, con molto impegno, ora gestiscono le attività in Italia. Non ho mai imposto loro di continuare l'attività, eppure mi hanno seguito entrambi, dimostrando notevoli capacità.
Quando comincia la mia attività di impresa, le cose inizialmente vanno benino. All'epoca avevamo due aziende: una tessile e l'altra di confezione. Negli anni Ottanta, però, la situazione si complica. Intorno ai trent'anni mi cade addosso la responsabilità dell'impresa e vengo chiamato a scelte importanti. Siamo riusciti a fare una ristrutturazione «morbida» senza subire neppure uno sciopero. Da 500 dipendenti siamo passati a 150 nel giro di un anno. Utilizzando tutti gli strumenti a disposizione (cassa integrazione speciale, prepensionamenti, cooperative...), abbiamo tagliato il personale in armonia con i sindacati.
Intorno agli anni Ottanta-Novanta, comincio a girare in vari Paesi dell'Asia. La grande miseria che vedo mi risveglia la sensazione provata da ragazzo. Cosa posso fare per questa gente? Decidiamo di chiudere l'azienda di confezioni in Italia ed aprire un'attività in Romania, poi in Cina e infine in Bangladesh.
GUIDATI ANCHE da padre Pierluigi Lupi, un saveriano, abbiamo fatto il salto. Lui mi ha aiutato ad inserirmi, così come nel reclutamento del personale e nella lingua. Abbiamo scelto questo Paese perché godeva di un canale privilegiato nelle esportazioni verso l'Europa (con esenzione di dazi) e perché era più povero di altri. Internazionalizzare l'azienda era anche un'opportunità per far crescere i miei figli, i quali, con molto impegno, ora gestiscono le attività in Italia. Non ho mai imposto loro di continuare l'attività, eppure mi hanno seguito entrambi, dimostrando notevoli capacità.
Detto del nostro lavoro, che significa essere imprenditori attenti ai valori del Vangelo? Che significa provare a costruire un'economia dal volto umano?
Io penso, innanzitutto, che per un'azienda il profitto sia doveroso e indispensabile, a condizione che venga usato per la continuità dell'azienda stessa, in una visione di lunga prospettiva. Il patrimonio di un'impresa sono i lavoratori, il capitale è rappresentato dai clienti. Tutti questi «attori» debbono produrre, insieme, profitto, ma non con la finalità di «ingrassare» i dirigenti o i soci, come accaduto nella crisi recente. È l'amministrazione del profitto che qualifica il cristiano socialmente impegnato.
Il profitto è sacro, come il posto di lavoro.
Il punto è come lo si
usa: se serve per comprare uno yacht, dev'essere tassato all'ennesima potenza;
se invece rimane all'interno dell'azienda e crea ricchezza, il discorso cambia.
Essere imprenditori responsabili, a mio avviso, significa far fruttare i talenti. Noi oggi esportiamo nei Paesi sviluppati. Ma è tempo che anche i Paesi poveri comincino a partecipare dell'economia globale, secondo regole etiche. Se penso alla nostra azienda, essa genera un forte indotto. Dal 2002, ad esempio, la Manifattura Corona (l'azienda che ho lasciato a mia figlia Francesca) ha acquistato 80 milioni di dollari di manufatti, tutti realizzati con i nostri tessuti, prodotti in Bangladesh.
Essere imprenditori responsabili, a mio avviso, significa far fruttare i talenti. Noi oggi esportiamo nei Paesi sviluppati. Ma è tempo che anche i Paesi poveri comincino a partecipare dell'economia globale, secondo regole etiche. Se penso alla nostra azienda, essa genera un forte indotto. Dal 2002, ad esempio, la Manifattura Corona (l'azienda che ho lasciato a mia figlia Francesca) ha acquistato 80 milioni di dollari di manufatti, tutti realizzati con i nostri tessuti, prodotti in Bangladesh.
CHE SIGNIFICA produrre eticamente?
Innanzitutto trattare i dipendenti con la stessa dignità con cui sono
trattati i livelli superiori. Poi, dare la giusta mercede agli operai. Rispetto
al contesto locale, i nostri salari sono abbastanza elevati, ma speriamo di
poterli alzare ancora. E soprattutto di insegnare a questa gente un lavoro. In
Bangladesh devo adattarmi a fare di tutto: ogni mattina ho dieci manutentori a
cui spiego come si interviene sulle macchine. Non fa parte del lavoro di
amministratore delegato, ma qui non posso non farlo. Mi piace molto, la vivo
come sfida. Perché quando vedo i ragazzi crescere, mi si riempie il cuore di
gioia. Etica, infatti, significa anche far crescere le persone. Ho portato, in
tempi diversi, 15 lavoratori in Italia per la formazione. È bello vedere che la
gente rimane con te e si appassiona.
Mi chiedono talvolta se sono pentito della scelta fatta. No, anche se le difficoltà non mancano. In Bangladesh sono legate soprattutto alla corruzione: se hai bisogno di qualche autorizzazione, devi pagare una bustarella per ottenerla, cosa che non ho mai fatto in Italia. Quanto ai rapporti di lavoro, in questi 10 anni ho avuto solo un episodio di tensione. Un gruppo di ragazzi, che avevo selezionato insieme a padre Lupi, hanno protestato e fatto una serie di richieste. È stato il primo sciopero nella mia vita.
Mi chiedono talvolta se sono pentito della scelta fatta. No, anche se le difficoltà non mancano. In Bangladesh sono legate soprattutto alla corruzione: se hai bisogno di qualche autorizzazione, devi pagare una bustarella per ottenerla, cosa che non ho mai fatto in Italia. Quanto ai rapporti di lavoro, in questi 10 anni ho avuto solo un episodio di tensione. Un gruppo di ragazzi, che avevo selezionato insieme a padre Lupi, hanno protestato e fatto una serie di richieste. È stato il primo sciopero nella mia vita.
ESSERE IMPRENDITORI responsabili
significa anche porre attenzione all'ambiente.
Mi batto perché questo
Paese, che vive una crisi energetica grave, utilizzi al meglio l'energia che
ha. Oggi nella nostra azienda recuperiamo oltre il doppio dell'energia che
altri buttano. In Italia era una prassi normale. Per me è stato un dovere,
anche se non ottengo un recupero immediato dell'investimento. È stato, se
vogliamo, un calcolo economico ed etico: ora essere «verdi» diventa anche
economico. Io mi sto impegnando per razionalizzare l'uso dell'energia, cruciale
in un'industria delle nostre dimensioni. Con opportuni accorgimenti, penso che
si potrebbe ridurre a meno della metà il fabbisogno energetico dell'industria
tessile del Paese.
Sembrerà una battuta, ma ho trovato che alcune indicazioni della Caritas in veritate sono già in opera. Penso al metodo Deming (dal nome del suo promotore, uno studioso americano - ndr). La nostra azienda ha riscoperto il Deming nel periodo in cui tutti inseguivano un'organizzazione del lavoro nel segno della parcellizzazione, basata sull'assunto che competenze molto limitate rendono la «sostituibilità» dell'individuo molto elevata. Il metodo Deming, al contrario, valorizzava l'individuo e la sua creatività. Siamo stati fra i primi in Italia ad aver applicato la qualità totale: un tempo si produceva un tessuto con 8-10 difetti ogni 100 metri; grazie alla tecnologia si è scesi a 2. Il miglioramento decisivo - sottolineo - si deve al fatto che sono stati coinvolti direttamente i dipendenti. Nessuno può migliorare il proprio lavoro più di chi lo fa. E non è il capo a risolvere il problema, ma egli si mette al servizio dei suoi dipendenti per aiutarli a capire, per raggiungere gli obiettivi.
I giapponesi, mi si perdoni la battuta, hanno scoperto l'acqua calda. Gesù, duemila anni fa, ci ha spiegato che il capo è il servo dei servi. Personalmente trovo un parallelismo tra l'atteggiamento suggerito dal Vangelo e i presupposti della qualità totale che all'apparenza sembrerebbero antitetici. In realtà, la passione, la dedizione, l'entusiasmo che un imprenditore mette nella sua attività sono una forma di donazione.
LA CULTURA GIAPPONESE si ferma alla creazione dell'utile, ciò che, invece, qualifica l'imprenditore cristiano è che la creazione dell'utile è un momento essenziale, ma finalizzato alla creazione di sviluppo durevole, nel tempo. Nel momento in cui un imprenditore si ubriaca dei successi del momento e si lascia prendere dalla sensazione devastante del potere, allora cominciano i problemi.
Sembrerà una battuta, ma ho trovato che alcune indicazioni della Caritas in veritate sono già in opera. Penso al metodo Deming (dal nome del suo promotore, uno studioso americano - ndr). La nostra azienda ha riscoperto il Deming nel periodo in cui tutti inseguivano un'organizzazione del lavoro nel segno della parcellizzazione, basata sull'assunto che competenze molto limitate rendono la «sostituibilità» dell'individuo molto elevata. Il metodo Deming, al contrario, valorizzava l'individuo e la sua creatività. Siamo stati fra i primi in Italia ad aver applicato la qualità totale: un tempo si produceva un tessuto con 8-10 difetti ogni 100 metri; grazie alla tecnologia si è scesi a 2. Il miglioramento decisivo - sottolineo - si deve al fatto che sono stati coinvolti direttamente i dipendenti. Nessuno può migliorare il proprio lavoro più di chi lo fa. E non è il capo a risolvere il problema, ma egli si mette al servizio dei suoi dipendenti per aiutarli a capire, per raggiungere gli obiettivi.
I giapponesi, mi si perdoni la battuta, hanno scoperto l'acqua calda. Gesù, duemila anni fa, ci ha spiegato che il capo è il servo dei servi. Personalmente trovo un parallelismo tra l'atteggiamento suggerito dal Vangelo e i presupposti della qualità totale che all'apparenza sembrerebbero antitetici. In realtà, la passione, la dedizione, l'entusiasmo che un imprenditore mette nella sua attività sono una forma di donazione.
LA CULTURA GIAPPONESE si ferma alla creazione dell'utile, ciò che, invece, qualifica l'imprenditore cristiano è che la creazione dell'utile è un momento essenziale, ma finalizzato alla creazione di sviluppo durevole, nel tempo. Nel momento in cui un imprenditore si ubriaca dei successi del momento e si lascia prendere dalla sensazione devastante del potere, allora cominciano i problemi.
Un antidoto per non cadere in tentazione?
Per me è passare tutte le
mattine davanti alla ferrovia di Dhaka per vedere quanti dormono sotto una
tendina. Beninteso: non do l'elemosina a nessuno, non serve a nulla. Meglio investire sull'educazione.
È quel che cerco di fare, cercando di insegnare un metodo di lavoro, tirando
giù i ragazzi dalle palme e mettendoli davanti ad un computer.
http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=1720
(testo raccolto da padre Franco Cagnasso, missionario del Pime)
(testo raccolto da padre Franco Cagnasso, missionario del Pime)
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