domenica 8 settembre 2013

Fabio, in Madagascar per insegnare forme alternative di agricoltura

 Fabio Tinti, 50 anni, è un Grossetano puro sangue e fa l’agronomo in Madagascar.


Quando sei arrivato in Madagascar?
“La prima volta nel 1998, ero volontario in una scuola di agricoltura gestita dalla chiesa. Lavoravamo in progetti di riqualificazione del territorio, come l’allevamento bovino e la produzione del latte. Siamo stati i primi ad aprire un caseificio e produrre formaggio. E’ tutt’ora una produzione attiva che porta lavoro alla regione. Sono rimasto due anni e in quell’occasione ho conosciuto anche mia moglie, che è malgascia, con la quale poi siamo tornati a Grosseto, dove siamo rimasti 13 anni e abbiamo avuto nostra figlia.

Come mai ci sei tornato?
“Ho sempre avuto intenzione di tornare qua. Nel 2001 ho avuto un’occasione con la FAO per lavorare nel mio settore di formazione, che è quello di ricercatore microbiologo e sono venuto qua per la seconda volta. Finalmente quest’ anno mi sono trasferito con tutta la famiglia perché ho un contratto quinquennale con la Delta Petroli di Roma, per la produzione di biocarburanti con un progetto che amo molto.”

Che tipo di progetto è?
“Si chiama PDJM –Progetto Delta Jatropha Madagascar – mira a convertire l’olio di semi della Jatropha che è un arbusto perenne, appartenente alla famiglia delle Euphorbiaceae, in biocarburante o biodiesel. La cosa interessante è che la Jatropha, oltre ad offrire nuove prospettive di sviluppo per le aree povere del pianeta, mettendo a coltura terreni improduttivi senza ulteriore deforestazione, consentirà agli oli di girasole, di soia, di colza e di palma di tornare ad occupare un mercato esclusivamente alimentare e quindi a prezzi di mercato più accessibili, senza competere con le superfici dedicate a queste colture. Ma soprattutto si avvia un processo di sviluppo agricolo.”

Quindi sono stati anni di avanti e indietro tra il Madagascar e Grosseto
“Si, anni difficili anche, perché ho cercato di realizzare a Grosseto un progetto importante, promosso dalla FAO, che però non è partito. Per me è stata una cocente delusione, sarebbe stato un onore poter fare qualcosa di simile nella mia terra.”

Cosa è successo?
“Nel 2002 la FAO mi dette carta bianca per realizzare un progetto di ricerca sullo sviluppo dei biofertilizzanti, cioè degli organismi fertilizzanti delle piante, che si sarebbe dovuto svolgere a Grosseto. Era quella l’epoca dell’Azienda Il Terzo, un ente privato che quando venne disfatto fu regalato dallo Stato al Comune di Grosseto. C’era una convenzione scritta della FAO, in cui è mancata solo la firma delle Istituzioni Grossetane, per cui sarebbe dovuto partire un progetto internazionale in cui ricercatori africani avrebbero lavorato sull’impiego dei biofertilizzanti. L’allora responsabile FAO del settore orticoltura, Alison Hodder, che curava il progetto, mirava a fare di Grosseto un centro di ricerca internazionale con questa operazione e a riconvertire a tale scopo l’azienda Il Terzo, che alla fine è stata venduta ad un privato per soldi. E’ stato molto difficile per me, frustrante anche perché ho lavorato al progetto anni, per poi scontrarmi con dei muri di gomma e non poter far nulla.”

Questa esperienza ti ha motivato ad andartene definitivamente?
“Ho sempre voluto tornare qua, ma avere la possibilità di lavorare con la FAO a Grosseto mi avrebbe fatto rimanere e creare un ponte tra quelle che sono adesso le mie due terre e dare a Grosseto un risalto internazionale in campo scientifico.”


Al di là di questa esperienza cosa pensi della Maremma?
“Che è un posto meraviglioso e anche adesso che vivo in un posto altrettanto bello lo penso di più. Ovviamente ho nostalgia della mia famiglia dei miei amici e della mia terra di origine. Abbiamo delle prerogative uniche e delle eccellenze, soprattutto territoriali, ma anche la Maremma soffre del male dell’Italia, dove si sono invertirti tutti i valori. Saranno solo le nuove generazioni a poter cambiare le cose, svegliandosi e ribellandosi a quello che da sempre accade, politicamente soprattutto, perché la politica ancora, purtroppo, decide le cose.”
Fonte: I Maremmani nel Mondo: a cura di Giulia Carri http://www.ilgiunco.net/
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Aldo Sunseri nominato tesoriere dell’Unione Italiani nel Mondo

Sono veramente onorato di affiancare la Presidente Anna Maria Siani, decana del Patronato Ital Uil di Johannesburg, alla direzione dell’UIM Africa e questo incarico  è di grande aiuto per gli italiani del Madagascar vista la imminente evoluzione politica ed ecomica del Paese.”

Aldo Sunseri è arrivato in Madagascar nel 2001 per dirigere una azienda di artigianato locale e alla fine del 2005, ha costituito l’AIM ( Associazione Italiani in Madagascar) della quale è stato Segretario Generale fino al 2011.
“La fondazione dell’AIM nel 2005 è stata una necessità per non far sentire, i circa 2000 italiani residenti in Madagascar, soli e abbandonati dalle istituzioni italiane. Infatti l’Ambasciata Italiana di Antananarivo era stata chiusa nel 2000 e nel 2005 è venuto a mancare anche il Consolato Onorario Italiano.”

“Sono stati tempi molto duri, perchè l’AIM si è dovuta assumere l’onere che fino ad allora era riservato ad una rappresentanza consolare e ha dovuto aiutare i connazionali nel disbrigo delle varie documentazioni quali le nascite, matrimoni, domande di cittadinanza,  rilascio e  rinnovo dei passaporti, visti per i familiari, adozioni ecc. in quanto il riferimento consolare si trovava a Pretoria in Sud Africa”

Successivamente Aldo Sunseri è stato e continua ad essere il responsabile del Patronato Ital Uil per continuare nella sua missione di aiuto e sostegno sia per i pensionati italiani che per i giovani e gli investitori italiani che desiderano emigrare in Madagascar.
Oggi il Madagascar, con le elezioni politiche di ottobre e dicembre prossimo, sta aprendo una nuova era di stabilità politica e di rilancio sociale ed economico; quindi la presenza dell’UIM in Madagascar è una dimostrazione che l’Italia crede fermamente in una ripresa di questo paese.    
La UIM, Unione Italiani nel Mondo, è una associazione che si occupa della tutela dei diritti e degli interessi degli italiani nel mondo, e che offre loro supporto ed assistenza in ambito sociale, politico e previdenziale.
La UIM costituisce un organismo senza fini di lucro, il cui obiettivo è fornire una risposta concreta ai bisogni e alle esigenze degli emigrati italiani, favorendo sia una piena e soddisfacente integrazione nel contesto sociale e nella realtà quotidiana, sia il mantenimento di un rapporto effettivo e partecipato con la comunità italiana di origine.
La molteplicità di aspetti e di situazioni connessi alla vita degli italiani all’estero, unita all’esperienza maturata sul campo, ha portato la UIM ad espandere progressivamente il proprio campo d’azione, cercando di rendere sempre più mirata e specifica la propria offerta di servizi riservando una particolare attenzione alle esigenze dei giovani, dei lavoratori e degli investitori.

Si ringrazia il Segretario Genarale della UIM Massimo Marani per l'accoglienza che ha voluto riservare ai dirigenti della Ital Uil venuti da Roma e per la superlativa organizzazione dell'incontro.
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Guida turistica del Madagascar

Informazioni Paese

LINGUA - Le lingue ufficiali sono il malgascio e il francese.
VALUTA - La moneta ufficiale è l’Ariary (MGA). Il tasso di cambio è molto variabile. Indicativamente 1 euro = 2800 MGA circa.
FUSO ORARIO - +2 rispetto all’Italia (+1 quando in Italia vige l’ora legale).
DOCUMENTI - È necessario il passaporto valido almeno 6 mesi, con due pagine libere, e il visto turistico ottenibile all'ingresso in Madagascar.
AVVERTENZE SANITARIE (VACCINAZIONI PROFILASSI) E PRECAUZIONI - Nessuna vaccinazione obbligatoria. Fortemente consigliata la profilassi antimalarica.

Come arrivare

Air Italy effettua un volo diretto da Milano e da Roma per Nosy Be, con tempo di percorrenza di circa 11 ore. Con Air France si raggiunge Antananarivo facendo scalo a Parigi.

Periodo migliore per partire

Le stagioni sono invertite rispetto a quelle del nostro emisfero. Il periodo migliore va da aprile a ottobre, mentre da novembre a marzo si va incontro al rischio di uragani.

La capitale: cosa vedere

Gli edifici storici della capitale Antananarivo, tra i quali quello che rimane di Rova, il Palazzo della Regina distrutto in un incendio, si trovano quasi tutti nella parte alta della città. Più sotto ci sono le vecchie case di legno dal tetto aguzzo e infine, nella parte bassa, le zone più commerciali. Una tra le zone più vivaci è quella intorno a Kianja ny Fahaleovantena (Place de l'Indépendance), dove si concentrano anche ristoranti e locali. Nella parte sud dell’abitato si aprono le acque del lago di Anosy, circondato da alberi di jacaranda, in mezzo al quale sorge un monumento ai caduti della prima guerra mondiale. Da non perdere la visita dei tanti variopinti mercati che si svolgono in città, il più grande dei quali è quello di Zoma, dove viene venduto il meglio dell’artigianato locale. Un’”assaggio” della grande natura malgascia si può trovare nel Parc Botanique et Zoologique de Tsimbazaza, dove si trovano tra l’altro varie specie di lemuri.

I luoghi da non perdere in Madagascar

Quando arrivano in Madagascar, gli amanti del mare e delle immersioni puntano solitamente su Nosy Be, una bella isola con tante spiagge e fondali incontaminati, divenuta il principale centro turistico del Paese. Ma il richiamo unico è esercitato dai grandi parchi naturali che costellano il Madagascar. La Montagne d’Ambre è una vasta area di vegetazione lussureggiante, popolata da diverse specie di lemuri, intorno a un massiccio vulcanico. Il Parc National de Ranomafana si raggiunge con due ore di pista accidentata. Nella foresta pluviale al suo interno, tra torrenti e cascate, si possono fare safari sia diurni che notturni per andare alla ricerca di lemuri, farfalle, orchidee e felci arboree. Un’altra straordinaria area, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è il Parc National des Tsingy de Bemaraha, Gli “tsingy” sono pinnacoli calcarei, attorno ai quali sono state costruite passerelle e ponti in legno per consentirne la visita da distanza ravvicinata.

Feste ed eventi

In maggio a Nosy Be si svolge il Donia, uno dei più grandi festival africani di musica tradizionale, che richiama decine di migliaia di persone nell’arco di cinque giorni di concerti e spettacoli. Si cambia musica, invece, per il Madajazzcar, grande festival internazionale di jazz che ha luogo in ottobre nella capitale con artisti da tutto il mondo. Sempre ad Antananarivo, tra novembre e dicembre è il momento del Gasytsara, interessante festival di musica contemporanea. Tra gli appuntamenti legati al folklore religioso, ha rilevanza a Majunga, tra luglio e agosto, la cerimonia del Fitampoha, una immersione rituale di reliquie sacre nell’acqua del fiume. Un’altra cerimonia di purificazione è il Fisemana, organizzata a giugno dalla popolazione antakàrama. La festa nazionale principale è il Giorno dell'Insurrezione con cui, ogni 29 marzo, si ricorda la rivolta contro la Francia, avvenuta nel 1947.

In valigia

Per lui: abbigliamento leggero, come pantaloni lunghi in cotone o lino e camicie con le maniche lunghe. Costume da bagno se si punta al mare e tutto l’occorrente per il trekking se si va nei parchi, compreso una k-way. Un golfino o giubbino per le serate fresche o i soggiorni in altura.
Per lei: se la destinazione sono le spiagge, telo mare, costume, occhiali da sole e crema solare. Per escursioni nella natura scarponcini da trekking o arrampicata, pantaloni lunghi e camicie con maniche lunghe, di colori non troppo vivaci. Cappello e felpe.
Da non dimenticare, oltre ai soliti medicinali di uso corrente, compresse contro i disturbi gastro-intestinali e repellenti per le zanzare.

Cosa mangiare

Il riso è il protagonista indiscusso della cucina malgascia. Viene solitamente accompagnato nei piatti da carne di zebù, pollo, maiale o al pesce e ai crostacei nelle zone costiere. Il tutto insaporito da spezie e salse varie. Molto gustosa è la frutta, soprattutto ananas, lytchees, mango e banane. Piatti tipici sono il ravitoto (uno stufato con germogli di manioca e pezzi di zebù o maiale) e il mosakiky (spiedini di carne accompagnati da mango condito e tagliato a sottili filamenti oppure da patate o altro ancora). Da assaggiare la betsabetsa, una bevanda alcolica prodotta con la canna da zucchero, che viene servita soprattutto nelle zone costiere.

Cosa comprare

L’artigianato malgascio è molto ricco. I legni sono rinomati per la loro qualità e vengono intagliati abilmente per la produzione di diversi oggetti. Molto particolari sono anche i fogli, le buste, le bomboniere, i portafoto ottenuti con la carta chiamata papier antaimoro, ricavata dalla lavorazione di una pianta e poi decorata a mano. Altri acquisti tipici sono quelli dei batik, di cesti e borse in rafia e sisal, di piccoli oggetti ottenuti dal corno di zebù, come posate e monili. Gli appassionati di minerali possono trovare parecchie occasioni per acquistare a buon prezzo pietre e fossili di grande bellezza e rarità.

Da leggere sulla destinazione

Per una introduzione al Paese, Madagascar, l'Isola dei contrasti (ed. Velar) di Luciano Nervi e Madagascar (ed. Clup) di Elvio Annese. Per conoscere i più famosi protagonisti della fauna locale, Io e i Lemuri. Una spedizione in Madagascar (ed. Adelphi) di Gerald Durrell, mentre un insolito approccio all’isola è quello di Aldo Busi in La camicia di Hanta (Viaggio in Madagascar) (ed. Mondadori).

Indirizzi e link utili
Office National du Tourisme de Magadagascar: 3, rue Elysée Ravelontsalama – Ambatomena, 101 Antananarivo. Tel. 00261.202266115, www.madagascar-tourisme.com.
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Il cuore ferito del Madagascar

Grazie all’isolamento geografico, il paese è un paradiso di biodiversità. Ma la pressione demografica e l’instabilità politica accelerano il saccheggio delle sue preziose risorse.

Procediamo controcorrente nelle acque basse del Fiume Onive. In piedi sulla piroga, Remon, un giovane in calzoncini e canottiera, spinge avanti l’imbarcazione con una lunga pertica di bambù. Sopra di noi il cielo minaccioso dispensa raffiche di pioggia, poi sole, poi ancora pioggia. Il ragazzo non se ne cura, così come ignora i coccodrilli prostrati sulla riva.
Altri uomini in piroga navigano in direzione opposta. Remon li saluta con un grido, loro ricambiano. Sono i suoi “colleghi” del fiume, e ognuno trasporta un gigantesco tronco di legno di rosa (una varietà di palissandro) abbattuto illegalmente dalla foresta pluviale ai depositi di legname della città di Antalaha, nel Nord-Est del Madagascar. Lì riceveranno in cambio un assegno. Remon farà lo stesso dopo averci lasciati ai margini della foresta.
A Remon non piace questo lavoro. Il suo capo - di cui non conosce il nome - gli ha detto che deve lavorare tutto il giorno senza sosta; le guardie forestali sono state pagate per tenersi alla larga per un periodo limitato, al termine del quale si aspetteranno di ricevere un’altra bustarella. Trasportare alberi già abbattuti è comunque meglio che abbatterli. Remon lo sa bene: prima faceva quel lavoro, ma lo ha lasciato perché era diventato troppo rischioso. Benché fosse praticato da anni, l’abbattimento illegale ha subito una brusca impennata dal marzo 2009 quando, in seguito alla caduta del governo malgascio, i controlli sono scomparsi e la foresta ha cominciato a pullulare di bande organizzate scatenate in una corsa sfrenata al disboscamento, alimentata anche dall’insaziabile appetito di legname degli approvvigionatori cinesi, che nel giro di pochi mesi hanno importato dalle foreste del Nord-Est del paese legno di rosa per un valore di circa 160 milioni di euro. Remon racconta di un taglialegna di sua conoscenza al quale una banda ha rubato il legname con una minaccia semplice ma efficace: «Noi siamo in 30, tu sei solo».
A un certo punto la corrente del fiume si placa, e Remon accende una sigaretta di tabacco e marijuana. Parla dei fady, i tabù che hanno protetto per secoli la foresta. Ogni volta che un albero cade e sfonda la testa di qualcuno, o che qualcun altro si rompe una gamba nelle rapide del fiume, tra i predatori di legname si diffonde l’inquietudine: Abbiamo fatto arrabbiare i nostri antenati. Ci stanno punendo. Remon è stato avvertito dagli anziani dei rischi che si corrono nel depredare ciò che è sacro.
«Ma provate voi a dare da mangiare alla vostra famiglia il legno di quegli alberi», ribatte.

Prima Remon sfamava la famiglia lavorando nelle piantagioni di vaniglia vicino ad Antalaha, città costiera che, come tutta l’isola, è ricca di risorse e povera sotto ogni altro punto di vista. Vent’anni fa, l’allora presidente del Madagascar, Didier Ratsiraka, andava talmente fiero della reputazione di Antalaha come capitale mondiale della produzione di vaniglia che mandò un funzionario a rendere omaggio alla città. «Il presidente credeva che avessimo grandi palazzi e strade asfaltate», racconta l’esportatore di vaniglia Michel Lomone. «Rimase profondamente deluso dal resoconto del suo consigliere».

Da allora, un susseguirsi di cicloni e il crollo dei prezzi hanno contribuito a privare la città del suo primato di “regina della vaniglia”. Oggi Antalaha è un centro polveroso e sonnolento, e anche se la sua arteria principale, Rue de Tananarive, è stata finalmente asfaltata nel 2005 con i fondi dell’Unione Europea, il traffico è costituito per lo più da qualche taxi malandato, biciclette arrugginite, pollame, capre, e soprattutto pedoni che camminano scalzi sotto la pioggia coprendosi la testa con le grandi foglie della cosiddetta “palma del viaggiatore”.
Così almeno è stato fino alla primavera del 2009. In quel periodo, infatti, per le strade di Antalaha sì è cominciato a udire il rombo delle motociclette. Nell’unico negozio di Rue de Tananarive che le vendeva sono andate a ruba in poco tempo, tanto che, in risposta alla grande richiesta, è stato aperto un secondo negozio sulla stessa strada. Gli acquirenti erano tutti giovani magri e ossuti, e chiunque ad Antalaha sapeva da dove provenissero i loro effimeri guadagni. Di sicuro non dalle piantagioni di vaniglia. Erano gli stessi giovani che si vedevano arrivare in città seduti sul retro di furgoni carichi di legname abbattuto illegalmente, e che si riempivano le tasche di facili guadagni abbattendo in modo selettivo i preziosi alberi di legno di rosa delle foreste del Madagascar.
Il Madagascar è un’isola. Certo, è la quarta del mondo per superficie (585 mila chilometri quadrati), ma è pur sempre un’isola. Sebbene tutte le isole abbiano una loro biosfera unica, il Madagascar (che si è separato dall’Africa circa 165 milioni di anni fa) è un caso a sé: circa il 90 per cento della flora e della fauna sono endemiche, e non si trovano in nessun altro luogo del pianeta. 

Lo spettacolo extraterrestre di enormi baobab con i tronchi a forma di carota, di spettrali lemuri, e di intere “foreste” di alti pinnacoli di pietra può far sgranare gli occhi anche al più navigato dei viaggiatori. Ma questa bellezza unica e indimenticabile va a braccetto con la disperazione quotidiana della popolazione. I malgasci, principale gruppo etnico dell’isola, hanno un modo di dire a dir poco eloquente:  “meglio morire domani che morire oggi”. Il malgascio medio vive con circa un dollaro al giorno.
E dato che la popolazione del Madagascar, più di 20 milioni di abitanti, cresce del tre per cento ogni anno - uno dei tassi di crescita più alti di tutta l’Africa - il contrasto tra la ricchezza della terra e la povertà dei suoi abitanti aumenta di giorno in giorno. Per questo motivo gli ambientalisti, allarmati, hanno definito il Madagascar un punto caldo della biodiversità, esprimendo la loro disapprovazione in particolare per la pratica agricola del “taglia e brucia”, molto diffusa sull’isola, che consiste nel dare fuoco ad ampi tratti di foresta per convertirli in risaie.
Nel 2002 la comunità ambientalista internazionale aveva accolto con entusiasmo l’elezione  del presidente Marc Ravalomanana, con il suo programma sensibile all’ambiente. Allo stesso modo ha reagito con sconforto quando, nella primavera del 2009, un golpe militare lo ha destituito, insediando al suo posto un ex disc jockey radiofonico troppo giovane, secondo la costituzione, per ricoprire la carica di presidente.
Nel settembre del 2009, dopo diversi mesi in cui ogni giorno veniva tagliato illegalmente legno di rosa per un valore di oltre 360 mila euro, il nuovo governo, a corto di denaro, ha revocato il divieto di esportazione del legno, in vigore dal 2000, e ha emanato un decreto per legalizzare la vendita dei tronchi già abbattuti e stoccati nei depositi. Lo scorso aprile, messo sotto pressione dalla comunità internazionale, il governo ha rimesso in vigore il bando. Ma il taglio continua.
In realtà il resto del mondo non è nella posizione di poter giudicare, data la sua voracità - a volte benefica, altre meno - nei confronti delle straordinarie risorse del Madagascar. Il saccheggio delle foreste dimostra con quanta facilità si possa spezzare il fragile equilibrio tra le esigenze umane e quelle della natura, equilibrio che in Madagascar è sempre stato precario. I diritti di prospezione ed estrazione mineraria delle riserve d’oro, nichel, cobalto, ilmenite e zaffiri sono per lo più in mano a holding straniere. La ExxonMobil ha dato inizio quattro anni fa alle ricerche per il petrolio nelle acque al largo dell’isola, e per anni i migliori costruttori di chitarre americani hanno dotato i loro strumenti di tastiere realizzate in pregiato ebano del Madagascar. In tempi recenti il governo federale dell’isola ha tentato di affittare terreni arabili alla Corea del Sud e di vendere acqua all’Arabia Saudita. Una politica che porta allo sfruttamento di una grande quantità di risorse con ben pochi benefici per il malgascio medio. Non c’è da stupirsi quindi se i minatori locali depredano la terra di pietre preziose da smerciare sui mercati asiatici. O che animali come il geco dalla coda a foglia o la testuggine dal vomere, in via d’estinzione, vengano esportati clandestinamente da piccoli commercianti di animali che li vendono ai collezionisti. O che i giovani smagriti di Antalaha finiscano per decidere che è meglio morire domani, e intascare oggi i soldi dei cinesi che comprano il legno di rosa.
«È un bene per l’economia, un male per l’ecologia», commenta un uomo coinvolto nel commercio illecito di legname. Ma ad Antalaha il piccolo boom economico si è rivelato una bolla di sapone. Anche volendo lasciare da parte le devastanti conseguenze a lungo termine della spoliazione della foresta (la scomparsa del prezioso legno su almeno 10 mila dei 4,5 milioni di ettari di area protetta del paese, l’estinzione dei lemuri e di altre specie endemiche, la piaga dell’erosione del suolo che fa insabbiare i fiumi e fa morire i terreni agricoli confinanti, la perdita delle entrate derivanti dal turismo) i perversi effetti secondari del saccheggio del legno di rosa si sentono già da ora. Gli abitanti di Antalaha, che all’improvviso si sono trovati a dover schivare motociclette, hanno anche cominciato a notare l’aumento dei prezzi di pesce, riso e altri generi d’uso quotidiano. La ragione è semplice: ci sono meno uomini sia in mare, sia nei campi.

«Sono nella foresta», afferma Michel Lomone, l’esportatore di vaniglia. «Sono tutti nella foresta».
Per andare da Antalaha alla foresta - dove per foresta s’intende il Parco nazionale di Masoala, il più esteso del paese - bisogna intraprendere un viaggio lungo e faticoso. Il confine sudoccidentale del parco è segnato dalla Baia di Antongil, dove tra luglio e settembre partoriscono le megattere. Nel ventre selvaggio di questa foresta pluviale di 235 mila ettari, la perseveranza del visitatore può essere ripagata da straordinarie apparizioni di orchidee, piante carnivore, aquile serpentarie, sfolgoranti camaleonti di Parson o lemuri come il vari rosso. Masoala offre una varietà apparentemente infinita di erbe medicinali, bacche selvatiche e legna da ardere per gli abitanti dei villaggi, che si recano quotidianamente a piedi nudi nella foresta, cantando o chiacchierando. I giovani che vengono dalla città per affari, invece, sembrano smarriti in questo umido e misterioso groviglio di vegetazione.
Campeggiano in piccoli gruppi vicino agli alberi che hanno selezionato per il taglio, cibandosi di riso e caffè per settimane. Poi appare il capo che, dopo aver ispezionato gli alberi, dà l’ordine di abbatterli. I tronchi vengono tagliati a colpi d’ascia. Nel giro di poche ore si abbatte un albero che magari aveva messo radici 500 anni prima. I taglialegna rimuovono con le asce tutta la parte esterna del tronco finché rimane solo il caratteristico cuore violaceo. L’albero viene quindi ridotto in ceppi lunghi circa due metri. Un altro gruppo di due uomini imbraga ciascun ceppo con delle corde e lo trascina attraverso la foresta fino alla sponda del fiume, un’impresa che richiede due giorni e viene pagata tra gli 8 e i 16 euro a ceppo, a seconda della distanza percorsa.
Avanzando con difficoltà nella foresta, mi imbatto di tanto in tanto in due figure che trascinano stoicamente un ceppo di 180 chili a cui fanno scalare pendii impossibili, discendere cascate e attraversare acquitrini simili a sabbie mobili: uno sforzo di proporzioni bibliche, se non fosse che i due lo fanno per soldi.     
Come per soldi (20 euro a ceppo) lo fa il tizio che i due incontreranno al fiume, che legherà il ceppo a una zattera fatta a mano con la quale supererà le rapide. Per soldi (9,5 euro a ceppo) lo fa anche il conducente della piroga che attende la zattera dove le acque tornano calme. Per soldi (160 euro per due settimane) lo fa la guardia forestale che i signori del legname hanno corrotto perché si tenesse alla larga. E per soldi (16 euro a testa) lo fanno anche i poliziotti ai posti di blocco sulla strada che porta ad Antalaha. Il danno alla foresta è di gran lunga più grave della perdita del prezioso legname: per ciascuno di quei ceppi di legno di rosa vengono abbattuti quattro o cinque alberi dal tronco più leggero, con i quali viene fabbricata la zattera che porterà il pesante ceppo a valle.
L’uomo che ha incantato l’Occidente con la promessa di una nuova era di coscienza ambientale e con lo slogan “Madagascar naturellement”, è Marc Ravalomanana, un ex venditore di yogurt asceso alla carica di sindaco della città di Antananarivo che ha poi rovesciato il presidente socialista Ratsiraka e fondato, nel 2002, il partito politico “Tiako I Madagasikara” (Io amo il Madagascar). L’ex presidente ha costruito strade e ospedali, ha distribuito divise scolastiche e ha reciso il cordone che ancora legava simbolicamente il paese alla Francia colonialista adottando come valuta nazionale l’ariary malgascio al posto del franco. Ravalomanana ha anche rafforzato il bando contro l’agricoltura “taglia e brucia” (si direbbe, purtroppo, senza alcun risultato), ha annunciato il Madagascar Action Plan, un piano d’azione per promuovere la salvaguardia della biodiversità del paese, e si è impegnato a triplicare la superficie delle aree protette dell’isola. Sue dichiarazioni come “La nostra risorsa più importante è l’ambiente” suonavano come musica alle orecchie della comunità verde.
Purtroppo, nella realtà, sotto il tavolo del presidente venivano messi in atto “piani d’azione” di tutt’altro genere: Ravalomanana è stato accusato di aver confiscato ai baroni del legname legno di alberi già abbattuti per venderlo per profitto personale. In presenza di testimoni, avrebbe preteso il 10 per cento dei costi esplorativi di una compagnia petrolifera. E man mano che il portafoglio del presidente si gonfiava, crollava il potere di acquisto dei suoi connazionali. Il 7 febbraio 2009, migliaia di manifestanti hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale, ma sono stati accolti dalle fucilate, che hanno lasciato sul terreno 30 morti. Un mese dopo l’esercito si è rivoltato contro Ravalomanana, che è fuggito nello Swaziland. Appena esiliato, l’ex presidente è stato dichiarato colpevole di aver confiscato lotti di terreno comunale per affari di famiglia e di aver utilizzato fondi pubblici per acquistare un aereo da 50 milioni di euro.
La comunità internazionale si è rifiutata di riconoscere il nuovo governo guidato da un altro ex sindaco di Antananarivo, il trentaquattrenne Andry Rajoelina. Banca Mondiale, Onu, Usaid e altri donatori hanno revocato i finanziamenti. Alcuni paesi occidentali hanno cominciato a sconsigliare ai propri cittadini di recarsi nel paese, e a quel punto la “svolta verde” di Ravalomanana ha subito una netta inversione di tendenza: il nuovo governo non aveva più fondi da investire per applicare le norme in vigore nelle aree protette.
Ma qualcuno aveva motivo di festeggiare per ciò che stava accadendo. Il 17 marzo 2009, giorno in cui Marc Ravalomanana rassegnava le sue dimissioni, una folla di non meno di 20 mila persone si riuniva nello stadio di Antalaha, dove venivano arrostiti 12 zebù, la birra scorreva a fiumi e la gente ballava tutta la notte al ritmo di musica dal vivo. Tanto, a pagare il conto ci pensavano i 13 baroni del legname della zona. Da quel giorno, la foresta non era più protetta.
La foresta era loro.
Il magnate del legno siede su una sedia di palissandro, davanti a una scrivania d’ebano, in una stanza con pareti, soffitto e pavimento di palissandro. Anche se le sue origini sono cinesi (i suoi genitori sono emigrati dalla Cina negli anni Trenta) e dichiara che «i cinesi vanno matti per il palissandro», lui, che è nato vicino ad Antalaha, ha un debole per il palissandro di colore più scuro. Il suo ufficio è saturo del profumo di vaniglia proveniente dall’attiguo magazzino, e invaso dal ruggito delle seghe proveniente dal suo deposito, dove giacciono in piena vista cataste di tronchi di legno di rosa. 
Lui si chiama Roger Thunam, ed è ritenuto da molti uno dei più grossi commercianti di legno di rosa del Madagascar. È un uomo di mezza età dai lineamenti asiatici, non particolarmente alto. Porta gli occhiali, e ha quella padronanza di sé tipica di coloro che detengono il potere. La piccola comunità di immigrati cinesi dell’isola si è perfettamente integrata con la gente del luogo, e Thunam ne è la prova: ad Antalaha è stimato e rispettato, è sempre pronto a dare una mano se un contadino non sa come pagare un funerale ed è una persona utile da conoscere se si cerca un lavoro ben pagato. Ma per quanto il processo di produzione del legname comporti il pagamento di diverse prestazioni (i taglialegna, gli uomini che trasportano i ceppi fino al fiume, quelli che li aspettano con le zattere, quelli che spingono le piroghe, l’intermediario, gli autisti dei furgoni e tutti i poliziotti che si incontrano lungo la strada che conduce ai porti di Iharana e Toamasina), la gran parte dei proventi va a uomini come lui, che, confessa, non ricorda l’ultima volta che è stato nella foresta.
«Thunam non è un uomo d’affari, è un trafficante», dice un funzionario locale. «Taglia quello che non è suo. Ha rubato dal parco, che è pubblico. E adesso altri pensano che sia legittimo prendersi ciò che è proibito prendere». Naturalmente, Thunam fornisce un’altra versione dei fatti. Nato professionalmente nel settore della vaniglia, ha allargato la sua attività al campo del legname 30 anni fa. Da allora, dice, il governo gli ha concesso varie licenze.
In effetti, il governo ha sempre sospeso il bando contro l’esportazione del legno di rosa nei periodi in cui i cicloni devastavano la foresta lungo la costa orientale dell’isola, in modo che si potessero abbattere e smerciare gli alberi danneggiati dalle intemperie. Questa politica ha permesso ai baroni di accumulare scorte di legname tagliato illegalmente nei periodi in cui il bando è attivo e di venderli come legname “recuperato” nei periodi in cui il bando viene revocato. Una scappatoia che incoraggia ulteriormente il taglio illegale nei parchi nazionali, dove si trova gran parte degli alberi che danno legno di rosa.
Thunam insiste nel dichiarare che taglia solo alberi che gli è permesso tagliare. E se il suo deposito in questo momento è pieno di tronchi di legno di rosa, lui è in grado di spiegare il perché: «Non può immaginare quante persone taglino alberi là fuori. Sono gli stessi che prima praticavano l’agricoltura taglia e brucia. Non sono mai andati a scuola. Non si preoccupano delle generazioni future. Sono loro i distruttori... Ma questo legname che vede è già tagliato. Se non siamo noi a comprarlo da loro, lo farà qualcun altro».

Thunam riconosce che i cinesi, con la loro fissazione per il legno di rosa, «sono i maggiori acquirenti». (Una sala da pranzo in legno di rosa prodotta in Cina si vende a più di 4.000 euro.) E anche quando il nuovo governo ha concesso una revoca temporanea del bando, terminata nell’estate del 2009, i cinesi hanno continuato a passare ordini a Thunam. Lasciare tutti quegli affari alla concorrenza lo avrebbe danneggiato, spiega. «In sei mesi saremmo diventati una piccola azienda».
Per Risy Aimé, sindaco di Antalaha, fermare l’abbattimento degli alberi è facile: «Basta arrestare 13 persone», dichiara, riferendosi a Roger Thunam e agli altri baroni del legname. Occasionalmente il governo ci ha provato, incriminando i baroni sospettati di commercio illegale. Ma questi commercianti detengono un grande potere, e sono stati in grado di trarre vantaggio dalla confusione giuridica in materia di taglio del legname. Secondo un rapporto di Global Witness e dell’Environmental Investigation Agency, Thunam è uno dei due baroni (su sei casi noti) riconosciuti colpevoli di aver esportato legno di rosa. È stato rimesso in libertà nel 2008 dopo aver risarcito i danni attraverso un accordo extragiudiziario, incriminato di nuovo nel 2009, e alla fine giudicato innocente. Oggi siede alla sua scrivania d’ebano che domina un deposito di legname brulicante di attività.
La mia guida a Masoala, Rabe, è un ex impiegato del parco, e negli ultimi dieci anni è stato nella foresta almeno un centinaio di volte. Procede rapido e scalzo nel claustrofobico groviglio di vegetazione, dimostrando familiarità con l’ambiente. Ma dalla sua ultima visita, avvenuta pochi mesi prima, nota con sorpresa che è cambiato qualcosa.
«Non ci sono lemuri», dice. «Sono scomparsi».
I responsabili sono i predatori del legno di rosa. Stanchi della loro dieta a base di riso, hanno cominciato a piazzare trappole nella foresta. Veniamo a sapere che un gruppo avrebbe catturato 16  lemuri in una sola giornata. Non tutti vengono consumati sul posto. Nella città di Sambava, appena a nord di Antalaha, tre ristoranti propongono piatti a base di carne di lemure, a dispetto delle leggi federali. Il risultato è che le foreste pluviali del Madagascar nordoccidentale stanno rapidamente perdendo specie come il vari rosso, il valuvi forcifero, il chirogaleo bruno e l’aye-aye. I lemuri non si trovano in nessun altro luogo della Terra, tranne che nelle vicine Isole Comore.
«Non vogliamo proteggere una foresta vuota, dove si possono vedere solo alberi», dice Jonah Ratsimbazafy, primatologo del Durrell Wildlife Conservation Trust. Quest’isola ha una straordinaria ricchezza biologica, ma il lemure ne è il simbolo e la mascotte, e gioca un ruolo fondamentale nella redditizia industria turistica del Madagascar, come attestano le migliaia di turisti che visitano la Riserva Speciale di Analamazaotra. Questi primati arboricoli dagli occhi sporgenti affascinano non solo perché si trovano esclusivamente qui, ma anche perché sono presenti in una grande varietà di specie. Le 50 specie di lemure finora catalogate sono tutte poligame, hanno code molto appariscenti e producono versi simili al grugnito dei maiali. Ma c’è anche l’indri, dal manto bianco e nero, che è monogamo, privo di coda, e scuote la foresta con i suoi ululati spettrali. Sembra incredibile, ma i ricercatori continuano a scoprire nuove specie di lemuri sull’isola. Ognuna di esse, però, conta pochi individui, e nel frattempo ben cinque sono entrate a far parte dell’elenco delle 25 specie di primati a maggior rischio del mondo.
Finora a sostegno della causa del lemure non si è levato alcun coro di solidarietà nazionale. I malgasci «dovrebbero essere orgogliosi dei loro lemuri perché il Madagascar è l’unico luogo adatto a ospitarli», dice Ratsimbazafy, «ma ci sono persone qui che non sanno, o che non sono interessate. I malgasci che vivono lontano dalle aree turistiche pensano che i lemuri siano solo roba da vazaha [i bianchi], non riescono ad apprezzarne il potenziale». In effetti, benché alcuni gruppi tribali considerino sacre certe specie di lemure, l’aye-aye, con quel suo aspetto un po’ inquietante e quegli occhi e quelle orecchie enormi, è considerato segno di malaugurio dalle tribù del Nord e per questo viene ucciso a vista.
Il comportamento dei malgasci è stato condizionato per secoli da simili tabù, o fady. Si tratta di ammonimenti degli antenati, che continuano a vivere sulla Terra come intermediari dell’oltretomba e vanno quindi ascoltati e rabboniti. A volte - come ho potuto vedere con i miei occhi - tramite il famadihana, una cerimonia durante la quale i resti degli antenati vengono disseppelliti, avvolti in nuovi sudari bianchi, fatti danzare intorno alla tomba e infine restituiti alla terra. Presso altre tribù è considerato fady toccare un camaleonte, parlare dei coccodrilli, mangiare carne di maiale e lavorare di giovedì. Numerosi i fady che proibiscono di violare montagne, grossi massi, boschetti di alberi, e persino intere foreste, tutti segno di un profondo, seppur complicato, rapporto con la terra e di un investimento spirituale nella sua buona salute. Ciò nonostante, alla fin fine, i fady che vengono rispettati con più rigore sono quelli che non entrano in collisione con la verità dei malgasci secondo la quale è meglio morire domani.
“Vede quel tratto di terra spoglia?”. Olivier Behra indica una radura disboscata al centro di una zona boscosa. «C’è un tizio laggiù che sta tagliando gli alberi. Sto cercando di convincerlo a fermarsi».
«Come intende farlo?», gli domando.
«Dandogli lavoro», risponde con un sorriso.
I tentativi di Behra rappresentano una soluzione illuminata, seppur circoscritta, al dilemma delle risorse del Madagascar: promuovere tra gli abitanti dei villaggi i benefici immediati che si possono trarre da una foresta vitale. Behra, francese, arrivò per la prima volta in Madagascar nel 1987 con un progetto Onu per la salvaguardia dei coccodrilli dell’isola, poco amati e a grave rischio. Resosi conto che «solo dando valore ai coccodrilli la gente si sarebbe interessata a loro», Behra cominciò a pagare la gente del posto perché ne raccogliesse le uova.
Dal 2000, attraverso la sua Ong Man and the Environment, Behra applica la stessa strategia alle foreste a rischio del Madagascar. A Vohimana, 160 chilometri a est della capitale, si è imbattuto in una foresta che nel corso degli ultimi 40 anni era stata ridotta della metà. Utilizzando le conoscenze della popolazione locale ha catalogato 90 piante medicinali ed elaborato le strategie per immetterle sul mercato estero, tanto che, a un certo punto, l’azienda francese Chanel si è interessata agli estratti delle foglie di alcune piante, come il marungi, per i suoi profumi. Così, già nel 2007 a Vohimana non si disboscava più, e oggi, invece di tagliare e bruciare, centinaia di abitanti dei villaggi raccolgono e vendono foglie che non avrebbero mai pensato potessero avere un valore economico.
«Io qui mi sono costruito la casa», racconta Behra. «La gente vede che non vado da nessuna parte, così sa che può fidarsi di me». La sua è una presenza utile ma discreta. Quando si è reso conto che «non si può semplicemente prendere uno che per tutta la vita ha fatto il taglialegna e pensare di trasformarlo in un agricoltore», Behra ha convinto il governo malgascio a consentire alla popolazione locale di continuare a usare una parte della foresta per raccogliere la legna con cui fare il carbone per uso domestico. Quando ha saputo che nel villaggio c’era un cacciatore di lemuri, Behra lo ha assunto come guida per i turisti appassionati del primate, mentre a un altro abitante locale, che si era sempre guadagnato da vivere raccogliendo specie rare di orchidee, ha affidato la gestione della sua serra di orchidee. Quando gli è venuto in mente di allevare i cinghiali della foresta, che stavano distruggendo la piantagione di manioca che aveva avviato lui stesso, i membri della tribù Betsimisaraka gli hanno detto che i cinghiali erano fady, e lui ha concluso che «ciò va rispettato». Behra ha anche convinto la Chanel a fare una donazione in denaro per il personale medico e per i pasti scolastici a Vohimana.
«Forse, operare su piccola scala come sta facendo Behra è più efficace che inseguire il sogno di salvare intere foreste», osserva Jean-Aimé Rakotoarisoa, per 30 anni direttore del Museo di Arte e Archeologia dell’Università di Antananarivo. «Quasi tutti i programmi di salvaguardia ambientale dicono: “Non bruciate la foresta perché è il vostro futuro”; ma queste persone non possono aspettare il futuro. Hanno fame adesso. Bisogna mostrare alla comunità i benefici immediati».
Questo messaggio sembra aver fatto presa tra  alcune aziende che si occupano di estrazione di risorse su larga scala. Oggi Rakotoarisoa lavora come consulente per il progetto Ambatovy, un’operazione mineraria da 3,5 miliardi di euro per l’estrazione di nichel e cobalto guidata da un consorzio straniero e localizzata non lontano dalla foresta di Olivier Behra. Il progetto, benché controverso, dato che non ha ancora mantenuto tutte le sue promesse, è stato pensato per evitare siti fady, e prevede di risarcire (e, dove necessario, trasferire) gli abitanti che ne hanno subito le ripercussioni e di coinvolgere continuamente la popolazione. Ma non si tratta di manifestazioni d’altruismo, ammette Rakotoarisoa. «Per motivi d’immagine, la società deve avere cura delle questioni ambientali e sociali. Non si possono fare affari qui se ci sono proteste sociali».
All’estremità sudorientale dell’isola, vicino a Tôlanaro, la società mineraria anglo-australiana Rio Tinto sta cercando di mettere in atto un’ambiziosa politica di cooperazione per compensare un progetto da 745 milioni di euro per l’estrazione dell’ilmenite, minerale ricco di titanio nonché ingrediente comune di vernici, carta e plastica. L’attività estrattiva ha portato alla devastazione di un habitat unico di foreste costiere che ospitava 19 specie endemiche di alberi, piante medicinali e canne utilizzate per intrecciare cesti. Tuttavia, a differenza dei baroni del legno del Nord del paese, la Rio Tinto sta cercando di conservare ogni singola specie. La società ha accantonato aree di foresta da proteggere, lanciato un programma di formazione agricola, costruito un porto marino pubblico, e per l’anno prossimo programma di recuperare le aree naturali danneggiate.
Benché gli abitanti di Tôlanaro abbiano una nuova strada, scuole nuove o ristrutturate e, in alcuni casi, nuovi posti di lavoro alla miniera, resta vivo tra i locali un certo scetticismo, insieme al dubbio che la società stia badando esclusivamente ai propri interessi.
L’aeroporto di Antalaha è piccolo e spoglio. Cani e polli vagano in cerca di avanzi di cibo. Decine di persone attendono il volo in arrivo da Antananarivo. Dalla porta entra Roger Thunam, accompagnato dal suo assistente. Il magnate percorre l’edificio da una parte all’altra stringendo le mani a tutti, abbracciando le donne, scambiando parole gentili con gli astanti.
Poi esce fuori, e fino all’arrivo dell’aereo, resta appoggiato con aria soddisfatta a un chiosco che vende frutta, bevendo da una noce di cocco assieme alla gente comune. È come loro, un uomo del popolo, che conosce la sua gente... e che dà loro da vivere, almeno per oggi.
Fonte: www.nationalgeographic.it

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Madagascar: popolazione allo stremo dopo quattro anni di crisi politica

Il 24 luglio scorso si sarebbero  dovute tenere le elezioni in Madagascar. La crisi politica, con pesanti contraccolpi  sulle condizioni della popolazione,  deflagrò nel 2009, quando l’allora presidente  Ravalomanana fu costretto alle  dimissioni dalla congiunta pressione popolare e delle Forze armate. Il regime di transizione con a capo Andry Rajoelina, nato subito dopo, non è riuscito a trovare la via della conciliazione per tornare alla normalità costituzionale con libere elezioni politiche e presidenziali.
I politici malgasci nonostante molti e autorevoli tentativi di mediazione non trovano un accordo e la tensione resta alta come dimostrano le proteste contro lo slittamento del voto che hanno portato all’arresto di Laza Razafiarison, uno dei candidati e segretario generale del partito Avotra ho An’ny firenena, e di altre sette persone in occasione di una manifestazione tenutasi nella capitale Antananarivo.
La situazione non è mai degenerata talmente tanto da provocare, come in altri stati africani, una guerra civile. La sensazione è che i militari non abbiano intenzione di lasciarsi sfuggire la situazione come ha dichiarato qualche  settimana fa un generale a tre stelle. Gli stati maggiori dell’esercito e della gendarmeria sono costantemente  in contatto e condividono la stessa opinione. In questo contesto non bisogna dimenticare che ci sono circa seicento colonnelli senza lavoro.
La comunità internazionale, con poche eccezioni come quella degli USA più possibilista, considera illegittimi i tre candidati principali (sono quarantuno in totale) alle elezioni: l’attuale presidente Andry Rajoelina, Lalao Ravalomanana, la moglie dell’ex presidente del Madagascar Marc Ravalomanana, e l’ex presidente Didier Ratsirika. La richiesta unanime è quella del ritiro delle candidature, ma nessuno dei tre pensa a fare un passo indietro. È questo il maggior ostacolo verso la strada del compromesso utile.
Il Consiglio di pace e di sicurezza (CPS) dell’Unione africana ha approvato le conclusioni della riunione del Gruppo internazionale di contatto sul Madagascar (ICG-M) del 26 giugno scorso con il risultato della richiesta perentoria del ritiro delle candidature entro il 31 luglio 2013. Superata la data verranno applicate sanzioni da parte dell’Unione africana.
Anche il Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane in Madagascar, che riunisce le quattro maggiori chiese cristiane del Paese (cattolica, luterana, anglicana e protestante), ha svolto un ruolo nella mediazione tra le parti per consentire la partecipazione ai colloqui di riconciliazione nazionale dell’ex Presidente Marc Ravalomanana.
Se l’impossibilità di governare l’isola ancora non ha fatto scoppiare una  guerra civile ha provocato dei danni economico-sociali tali che il candidato alle presidenziali Rabeharisoa Saraha Georget,  in un’intervista rilasciata ad Afrik.com, dichiarava: «attualmente, vi è un genocidio silenzioso del popolo malgascio e nessuno se n’è accorto» . E le sue parole non sono lontane dalla realtà.
Don Luca Treglia direttore di Radio don Bosco nella capitale ha spiegato che la gente prova a sopravvivere in qualsiasi modo, «non sono infrequenti rapine violente con sparatorie anche in pieno giorno. Continuano inoltre i furti di bestiame da parte di bande organizzate, soprattutto nel sud. Questo avviene perché lo Stato non ha fondi per pagare i poliziotti. A causa della situazione politica infatti, sono stati sospesi gli aiuti internazionali alle istituzioni governative anche se continuano le donazioni dirette alla popolazione inviate tramite alcune Ong» .
L’economia malgascia è allo stremo e così la popolazione di un’isola con capacità enormi. Il 5 giugno un rapporto della Banca mondiale sottolinea che dal 2008 le persone che vivono con meno di due dollari al giorno sono aumentate di dieci punti arrivando al 92% degli abitanti.
Il reddito pro capite è tornato ai livelli del 2001. Il Madagascar avrebbe grandi potenzialità nella produzione agricola ma è oramai diventato il sesto paese al mondo per malnutrizione. A questo si aggiungono la chiusura di molte strutture sanitarie che aggravano ulteriormente la condizione della popolazione soprattutto infantile. Con la crisi politica molti finanziamenti europei e africani sono stati bloccati complicando notevolmente il bilancio pubblico.
Il paese ha perso dal 2008 la metà circa dei turisti, una fonte importante dell’economia così come altre  attività produttive, come quella tessile stanno scomparendo.
Un paradiso terrestre che è oramai divenuto un inferno.
Fonte: www.mentinfuga.com/Pasquale Esposito

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A rischio la biodiversità del Madagascar

Il Madagascar, nell’Oceano Indiano è il centro per eccellenza della biodiversità grazie alla presenza di circa l’80% di specie animali uniche al mondo;  ma lo sconvolgimento politico causato da un colpo di stato nel 2009 sta causando effetti proprio su questo meraviglioso ecosistema.
La foresta di Andasibe Mantadia è una foresta pluviale lussureggiante circa tre ore di distanza dalla capitale Antananarivo, è una zona protetta famosa per le sue cascate e fauna selvatica ed è la patria della specie più grande al mondo di lemure: l’Indri Indri. Il parco è un magnete turistico ma l’aumento vertiginoso della crescita della popolazione sta mettendo in pericolo quest’angolo verde.
L’ aumento dell’ agricoltura ha sviluppato il fenomeno del “slash-and-burn” per cui si  bruciano grandi aree, spesso ricche di flora e fauna, per bonificare il terreno per le colture vegetali.
“E ‘una pratica utilizzata dalla comunità circostante del parco per sopravvivere,”  afferma Oly Raoliharivao Andriamandimbisoa, direttore del parco nazionale di Andasibe-Mantadia. “Attualmente, il peso demografico è in aumento. e non ci sono presidii nel parco sufficienti per alleviare la pressione sulla foresta.”
I residenti sono stati invitati a partecipare alla protezione del parco, hanno formato dei comitati (CLP) per aiutare a proteggere la foresta per le generazioni future in modo che possano godere della bellezza di questo luogo.
L’ agricoltura non è l’unica minaccia per le risorse naturali dell’isola; i disordini politici in corso e l’aumento della povertà ha portato ad un incremento nella registrazione del disboscamento  e delle miniere illegali.
L’ONG Madagascar National Parks si occupa di circa 50 aree protette in tutto il Madagascar che sono a rischio a causa del commercio del palissandro nel nord-est dell’isola.
“Il problema è peggiorato dall’inizio della crisi politica“, dice il vice amministratore delegato Herijaona Randriamanantenasoa. “Non stiamo parlando di decine di persone che tagliano legna nel bosco, ma in realtà centinaia o addirittura migliaia di persone. L’ insicurezza prevale in queste aree.”
L’esportazione di legni duri è illegale qui, ma il governo provvisorio non è riuscita a far rispettare la legge: ”C’è un punto debole nell’ applicazione della legge a causa della corruzione e del potere di questa rete illegale di trafficanti“, dice Andry Andriamanga Ralamboson, il coordinatore nazionale della coalizione ambientalista Vohary Gasy.

Le conseguenze economiche sono enormi: solo il due per cento del reddito prodotto dalla vendita del legno va ai boscaioli locali, secondo Vohary Gasy, mentre gli esportatori intascano la maggior parte del flusso finanziario.

I lemuri del Madagascar potrebbero estinguersi entro 20 anni
Tutte le specie di lemuri sono endemiche del Madagascar, la quarta isola più grande del mondo e un hot spot della biodiversità mondiale, ma questi nostri lontani parenti sono sempre più minacciati  dalla perdita di habitat e dalla caccia di frodo. Tutti gli studi più recenti concordano sul fatto che ben il 91% delle specie di questi primati devono essere inserite nella Lista Rossa Iucn delle specie a rischio di estinzione, facendo così dei lemuri il gruppo di mammiferi più minacciato del mondo.
Una delle più grandi minacce per i lemuri è la deforestazione. In Madagascar decenni di concessioni forestali, insieme alle miniere e all’espansione dell’agricoltura con la tecnica primitiva del taglia e brucia  hanno già distrutto il 90% delle foreste dell’isola, costringendo i lemuri a rifugiarsi negli ultimi frammenti di foreste rimasti. Negli ultimi anni, dopo il golpe militare, l’instabilità politica ha aggravato ulteriormente la situazione e l’impoverimento di una popolazione già poverissima ha costretto molti malgasci a diventare carbonai illegali e bracconieri per poter sopravvivere.
Jonah Ratsimbazafy, un primatologo malgascio dice che «se la deforestazione continua a questo ritmo, possiamo dire  che entro 20 o 25 anni non ci sarà più la foresta e quindi nemmeno più lemuri».
I maggiori esperti di primati del mondo si sono riuniti per cercare di trovare una soluzione alla probabile estinzione di questi eccezionali primati e hanno elaborato una strategia triennale per la loro salvaguardia un documento di 185 pagine che esamina lo status delle 103 (o forse 104) specie di lemuri e che si articola in 30 piani d’azione per i 30 diversi siti prioritari per la conservazione dei lemuri, proponendosi di raccogliere fondi per i singoli progetti.
Russ Mittermeier, presidente di Conservation International e presidente del SSC Primate Specialist Group dell’Iucn, dice che sono tre le principali azioni più efficaci per la salvaguardia dei lemuri in natura: «Primo, lavorare su progetti di base con le comunità locali, così la gente stessa può fare la differenza. Secondo,  il sostegno a progetti di eco-turismo; terzo, stabilire stazioni di ricerca come  strutture permanenti per la protezione da boscaioli e cacciatori».
Anche per Benjamin Andriamihaja, dell’Institute for the Conservation of Tropical Environments, la salvezza dei lemuri passa per il benessere dei malgasci più poveri: «Cerchiamo di finanziare attività che generano guadagni, come le piantagioni di fagioli, l’allevamento di maiali e polli o lo sviluppo dell’allevamento di pesci, in modo che i contadini smettano di distruggere la foresta».
Illustrando la nuova strategia per la conservazione dei lemuri, Christoph Schwitzer, responsabile della ricerca al Bristol Zoo Gardens, ha detto: «Il fatto è che se non agiamo ora rischiamo di perdere specie di lemuri per la prima volta in due secoli. L’importanza dei progetti che abbiamo delineato in questo documento non può essere semplicemente sottovalutata. Sono ottimista, non voglio rinunciare a nessuna specie di lemuri. Questo documento dimostra quanto le persone possono lavorare bene insieme quando le specie sono sull’orlo dell’estinzione. Sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto, ma il lavoro più duro deve ancora venire».
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