Davide Boschi ha trascorso due anni della sua vita
in Madagascar per fare il servizio militare e abbiamo delle testimonianze
incredibili. Una serie di foto dei suoi ricordi con le sue didascalie e
successivamente pubblicheremo due dei suoi racconti racconti che oggi fanno parte di un libro
Lavato e sbarbato per Benino. Davide Boschi
all’epoca della sua avventura in Madagascar.
Ampasimanjeva, Madagascar (1982). Sulle acque
del Farony, con Père Remigio (oggi scomparso). Una piroga davvero strana per
gli Antaimoro, in quanto aveva lo scafo fatto di vetro resina, anziché legno di
chinino. Era più leggera di quelle tradizionali, scolpite nel tronco degli
eucalipti e doveva consentire un alaggio più agevole, quindi la possibilità di
non doverla per forza ormeggiare o spiaggiare lungo le rive del fiume, ma di
portarsela «a casa». Don Remigio, a dispetto del suo nome, nel remare non era poi
un granché. Preferivo gli Antaimoro. Decisamente.
Irondro–Manakara, (1980–1986). La grande strada
doveva attraversare parte della foresta sud orientale. Si trattava della
statale che avrebbe collegato il villaggio di Irondro alla cittadina di
Manakara, in modo più diretto e veloce di quanto non facesse la vecchia pista
colonica. Ora, credo che al suo posto ci sia rimasto un lungo e sinuoso taglio,
nella terra rossa delle colline di brousse. La nuova statale distava 12
chilometri dal mio villaggio, quello di Ampasimanjeva e, a volte, occorrevano
due o tre ore di Land Rover solo per raggiungerla. Se non ti piantavi prima in
modo definitivo.
La strada di Ampasimanjeva. Forse i dodici
chilometri più lunghi della mia vita, e gli ultimi, per tanti ammalati, feriti
gravi o donne con problemi di parto, che non riuscivamo ad evacuare verso
Manakara. Comunque si poteva morire tranquillamente anche a Mankara.
Mi rendo conto che, guardando queste foto, non
si direbbe, ma la nostra officina, alla Fondation Medicale d’Ampasimanjeva, era
un autentico avamposto della tecnologia nell’assistenza automobilistica e non
solo. Buona parte delle risorse economiche e umane, venivano spese per la
mobilità dell’ospedale. Tante quante se ne spendevano per i medicinali o forse
anche di più. (Qui sopra, due particolari della Land Rover-amulanza: il
cerchione di una ruota e l’imboccatura del serbatoio).
Anche sotto gli acquazzoni tropicali, la
distribuzione degli indumenti proseguiva senza intoppi, come se la pioggia non
esistesse. La gente veniva anche da lontanissimo per farsi dare qualcosa. Da
tempo avevamo deciso di non regalare più nulla a vanvera, si era rivelato
diseducativo e controproducente anche per noi. Il rischio era quello di passare
per «distributori automatici a uffa», con l’eventualità di venire anche
«scassinati». Avevamo optato per l’antica e collaudata tecnica commerciale
dello scambio, quella del baratto insomma. La gente doveva portare qualche
materia prima, che potesse diventare utile in qualche modo, anche solo da
donare agli ultimissimi che non avevano nemmeno quella. Scoprimmo che la rafia,
la paglia per intrecciare le stuoie, gli indumenti tribali e tantissimi altri
accessori della vita quotidiana, erano risorse naturali di cui quasi tutti i
locali disponevano. Fra le mani delle donne e dei bambini, fasci di questo
vegetale che, come il riso, è parte della loro stessa vita.
Dopo un devastante attacco di malaria, che mi
indicò con estrema precisione la strada per tornare alla «casa del Padre»,
ritornai invece a guardare il sole dei Tropici, fuori dalla mia angusta e
stropicciata stanza. La bilancia per pesare il riso diceva che non superavo i
49 chili. E io non avevo ascoltato le indicazioni della malaria.
Soa, piccola ospite dell’ospedale di
Ampasimajeva. Voleva diventare la mia fidanzata, e me lo disse lei. Ma oggi,
qui, non si può dire, è roba da pedofili.
Loholoka, costa orientale del Madagascar (1983).
Il mio studio (camera, casa ecc.) nella foresta di Loholoka. Fra gli Antaimoro,
ogni tipo di stuoia ha un nome ben preciso, e un impiego altrettanto specifico.
Non vanno mai usate come capita, come se fossero semplicemente «stuoie». Quella
sul pavimento, senza decori, si chiama Lafika: ha la funzione di un tappeto o comunque
di un piano di calpestio, non è educato dormirci sopra. Lo fanno gli ubriachi.
Quella che si intravede in basso, distesa a destra, a maglie più fini e
decorata di verde e rosso è invece il letto, il giaciglio sul quale coricarsi.
si chiama Tsihy e possibilmente non va calpestata. Quella piccola rettangolare
sotto il panno e il libro con i fogli per gli appunti, è la Fandabanana: la
tavola, quella dove si appoggiano le foglie di palma ricolme di riso cotto.
Nell’angolo vediamo, avvolta su se stessa, un’altra Fandambanana e due
Ondanbody (cuscini per il culo), da non confondere con gli Ondandoha che sono
cuscini per la testa e, in qualche modo – dicono gli Antaimoro – vi
assomigliano.
Ambozontany, Fianantsoa, Plateau Central,
Madagascar (1983). Nella libreria dei Gesuiti di Ambozontany. Mi impossessavo,
anche furtivamente, dei libri e dei testi originali, sui quali avrei potuto
studiare la lingua malgascia.
Boloky, il mio pappagallo. Quand’era ancora un
«pulcino».
Ampasimanjeva (costa orientale). In Madagascar,
queste grandi farfalle si chiamano Loholo che significa «spirito». Non bisogna
toccarle neanche con un dito. Per questo, Charlotte, staccò il ramo sul quale
il meraviglioso insetto era posato, senza sfiorarlo. Fatta la foto, tornò a
riportarlo fra le fronde dalle quali lo aveva preso.
Ma quel mattino aveva
il viso dei vent’anni
senza rughe
e rabbia d’avventura…».
(Francesco Guccini)
il viso dei vent’anni
senza rughe
e rabbia d’avventura…».
(Francesco Guccini)
Grazie a Dio Père Remigio (don Remigio) è ancora vivente, anche se anziano. E' don Paolo Ronzoni che è morto nel 2007.
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