di Davide Boschi
Il naufragio del Mahajanghé ha per me una peculiarità unica, che lo distingue sensibilmente da ogni altro che io abbia già potuto raccontare.
Infatti, nel gennaio del 1984 a bordo del «Caboteur» Mahajanghé, insieme a un centinaio di persone tra equipaggio e passeggeri, stipati tra migliaia di bottiglie di rum vuote, scarafaggi, topi e innumerevoli altre schifezze, C’ERO ANCH’IO. Questa storia è talmente intrisa di Madagascar, pregna di ricordi di quegli anni della mia giovinezza, trascorsi come dentro a un lunghissimo e indimenticabile film, girato in pieno oceano Indiano, che francamente non so se riuscirò a raccontarla, pigiando i bottoni sulla tastiera di questo computer… così lontano. Il Mahajanghé, come tante imbarcazioni da trasporto malgascie, era già un relitto prima ancora di affondare, con una sola anomalia, anziché starsene sul fondo, attorniato dai pesci a concrezionarsi di ostriche, galleggiava in superficie, pattugliato dai cormorani, attratti dal suo lezzo «dantesco». La «struttura» dello scafo fu la prima cosa che mi colpì (dopo il fetore) di questo arnese, lungo una trentina di metri. Era un puzzle di coriandoli in lamiera monocroma tinta ruggine, di cui il più grande non raggiungeva per estensione la quinta parte di un metro quadrato. I cordoni di saldature che univano questi pezzi a migliaia, sembravano trame di un fitto e intricato reticolo di «vasi sanguigni», in rilievo sulla cute di un mostro moribondo, all’ormeggio. Verso sera la bassa marea l’aveva lasciata in secca come la carcassa di una balena spiaggiata, dilaniata dai gabbiani, ma impietosi di questo stato, gli indigeni continuavano a caricarla di bagagli e di cose d’ogni genere, stipando le une sulle altre, aggiungendo giri di rafia su giri di rafia per salire ancora con la «pila» del carico. Le due cime che la tenevano ormeggiata, una di poppa e una di prua, erano cosi tese da emanare un certo «qual suono» che diventava agghiacciante quando un sasso, sotto il peso della chiglia, cedeva o si spaccava. Mi sentivo partecipe di quello strazio al punto da desiderare il rimontare della marea che, se pur ci avesse indotto a salpare, avrebbe almeno posto fine a quell’agonia.
Vi posso garantire che a nessun occidentale, ma dico proprio NESSUNO, sarebbe mai venuto in mente d’imbarcarsi su un affare del genere per affrontare qualche giorno di navigazione tra le onde e le correnti del Canal de Mozambique. Tant’è che persino molti malgasci scelsero le proprie gambe come mezzo di locomozione per raggiungere la nostra lontana e comune meta. Il rottame armava: un motore diesel 12 cilindri, guasto (girava con un paio di meno), un timone guasto anch’esso, ruotava al 50 per cento e aveva un «gioco vuoto» che lo rendeva praticamente ingovernabile, il ricordo (e solo quello) di una pompa di sentina guasta (dove il guasto fu motivo della sua asportazione che ne determinò l’univoco ricordo) della quale rimanevano un supporto in legno e alcuni brandelli di tubo ancora fasciati alle paratie. In plancia, invece, brillava per la sua totale assenza la radio. Salimmo in un centinaio di esseri umani su quel cumulo galleggiante (neanche tanto) di cianfrusaglie maleodoranti e ancora oggi non riesco a spiegarmi come riuscimmo a prendervi posto tutti. Il ponte di coperta era sepolto sotto una montagna di carico, malcelata da brandelli di teli di plastica e di stuoie sommariamente rabberciati tra loro e il camminamento laterale era «imballato», fino alle battagliole all’altezza del corrimano, con casse di bottiglie vuote.
Quest’ultima «criminale» disposizione di carico rendeva pericolosissimo ogni tentativo di deambulazione sul ponte (in Madagascar si cammina scalzi ovunque non solo in barca, nessuno a bordo possedeva scarpe) e induceva a farlo soltanto in caso di assoluta necessità (di vita o di morte) pena il rischio di squartarsi un’arteria. Ebbene… non ci crederete… stavamo andando in vacanza! So che per voi non è plausibile una cosa del genere, ma vi posso assicurare che stavamo proprio andando in vacanza. Ed eravamo felicissimi, dopo mesi trascorsi nella foresta a lottare con la strada sempre impraticabile, volevamo finalmente raggiungere il nord e l’isola di Nosy Be, per goderci il mare. Io, Giorgio e Rolland. Questo «trio»… non è un qualsiasi gruppetto di amici che si è messo d’accordo per andare a fare un giro, seppure ardito, ma un’indelebile pagina della mia vita che mi ha segnato per sempre e che per sempre mi impedirà di diventare un uomo normale, un uomo come gli altri. Il favore di marea ci colse all’alba, quando la luce del mattino illuminò il delta-estuario del grande fiume Bestiboka, rendendoci partecipi di uno spettacolo unico al mondo che ci fece dimenticare tutto. Avevamo pagato i «filibustieri» il giorno prima di vedere il naviglio, e se avessimo rinunciato a imbarcarci avremmo perso i soldi. Giorgio conosceva bene le Land-Rover e le piste della foresta del sud est, ma non sapeva nuotare e poteva solo buttarla in ridere, mentre Rolland, da vero Antaimoro, sapeva che non era bene sfidare gli spiriti dell’acqua e la sua gioia era offuscata da un velo di presagio che tanto avrebbe voluto sconfessare. Lui era abituato a pagaiare la piroga, la «lakana» sul fiume più che sul mare, e non ci voleva un etnologo per capire quanto avrebbe preferito trovarsi sul tronco intagliato di un chinino, piuttosto che su quella carretta arrugginita. La linea di galleggiamento del Mahajanghé, ormai in navigazione, corrispondeva quasi all’altezza del ponte di coperta, le murate erano praticamente immerse e una volta usciti dall’alveo del grande fiume e preso il mare, era facile intuire che saremmo stati sommersi dalle onde senza tanti complimenti.
Come se non bastasse, anche la nausea s’impossessò di me e cominciai a vomitare, intirizzito dal freddo e indebolito dal mal di mare; mi capitava di diventare l’involontario bersaglio dei conati di vomito altrui che provenivano un po’ da ogni dove, tanto l’onda successiva avrebbe lavato via tutto, anche l’umano tepore che quei liquidi gastrici infondevano alla mia carne intirizzita. E così mi accingevo ad affrontare la prima notte di crociera a bordo del Mahajanghé, mi raggomitolai incastrandomi tra un serbatoio di acqua putrida e una balla di tela dal contenuto ignoto, e con tutti gli eufemismi del caso, presi sonno. Un’onda più forte e più fredda delle altre mi svegliò di soprassalto, Giorgio e Rolland erano spariti… appena trovato l’equilibrio e la postura adatta sui colli di bottiglia, iniziai una ricerca convulsa e disperata. Rolland aveva trovato posto in coperta, in mezzo a quell’umanità, ridotta come in un girone dell’inferno e che tanto mi evocò il ventre di un galeone stracolmo di schiavi disperati e in catene. C’era caldo lì sotto, c’era caldo. Sdraiarsi fra quei corpi ammassati avrebbe significato salvarsi dall’ipotermia. Gli chiesi dove fosse Giorgio, ma scosse la testa, tenendo le pupille fisse sulle mie, poi disse di averlo lasciato vicino alla botola della sala macchine. Sala macchine?! Giusto, in sala macchine c’è il motore, o quel che ne rimane, quindi c’è anche Giorgio. Trovo la botola e scendo; 80 gradi, aria che scotta la faccia e i polmoni, monossido di carbonio al 50 per cento, sentina allagata da liquami che farebbero ribrezzo a una pantegana del Sarno… e un milione di decibel!!! Giorgio è lì, in piedi, lo sguardo fisso sulle pulsazioni dei due «filagni» di valvole, sporco e ridotto come un maiale, ma in perfetto stato di salute. Preferisce di sicuro quest’inferno al freddo del ponte tormentato delle onde, ma dai gesti e dalle mimiche labiali che si scambia col macchinista capisco, con un fiotto di orrore, che questo motorasso sta tentando di lasciarci a piedi, anzi, a nuoto (nella migliore delle ipotesi, alla deriva). Forse altri cilindri, oltre ai due già citati, mancano all’appello degli scoppi e nel suo insieme il propulsore non ha la forza di farci avanzare con questo mare contro e con questo sovraccarico che mantiene lo scafo pressoché in stato di totale immersione. Non ho mai capito per effetto di quale legge fisica il Mahajanghé abbia potuto galleggiare a pelo d’acqua per ben quattro interminabili giorni, ai margini di un ciclone tropicale. Avrebbe voluto almeno provare a ripararlo quel motore, ma non certo in navigazione e in moto, anche se dalla faccia del macchinista si capiva benissimo che il viaggio del Mahajanghé avrebbe avuto fine soltanto con il suo improbabilissimo approdo a Helle Ville, oppure con il suo naufragio.
La storia di Giorgio è un’altra di quelle vicende umane che
non si riescono a raccontare, quella di un uomo di fede cristiana profonda,
partito in gioventù verso la metà degli anni Settanta, come missionario laico,
tecnico elettricista e meccanico, per prestare servizio nell’ospedale di
Ampasimanjeva, nella foresta sud-est del Madagascar. Oggi, dopo trentasette
anni, quell’uomo, che ho avuto il timore e il presagio di veder annegare
davanti ai miei occhi prima di me, dirige e ancora lavora in quell’ospedale
fuori dal mondo e fuori da ogni tempo. Al di là e al di sopra di questo viaggio
avventuroso e di altrettanti epici e incredibili vissuti con lui, in quella
terra ai confini dell’umanità, mi preme ricordare che quest’uomo è stato per me
come e più di un fratello, di un padre, e che il mio affetto e la mia amicizia
per lui accompagneranno per sempre i giorni della mia vita. Poche ore prima,
Giorgio mi aveva detto: «Mi raccomando Davide, pensa a salvare te sesso se
affondiamo, perché se cerchi di salvare anche me moriamo tutti e due, tanto io
qua annego comunque. Davvero, salvati almeno tu, lasciami perdere, non potrei
perdonarmelo». Premesso che se fossimo affondati in mare aperto, il Mahajanghé
e il suo carico avrebbero attratto tanto pesce che gli zambesi, i martello e
tutti gli altri squali dell’oceano non avrebbero impiegato tanto ad arrivare e
a buttare in piedi una bella festa dell’Unità, indetta a nostre spese, e ci
sarebbe stato ben poco da nuotare… Non so come, ma arrivò l’alba, e ci trovò
ancora in navigazione, con la costa altalenante, verde e selvaggia a dritta e
la catena montuosa dell’oceano a sinistra. Ricordo che a tratti, avulso ormai
dal rollio della nave, vedevo solo mare, oppure solo cielo e avvertivo il peso
della mia testa quando non la tenevo appoggiata a qualcosa. L’unica acqua
bevibile era il «ranonampango» (l’acqua che si fa bollire nella pignatta del
riso dopo la sua cottura), ma né io né i miei compagni avevamo pignatte o riso,
e quei pochi che ne erano provvisti stentavano a portare a termine anche una
singola cottura, erano più le pignatte che si rovesciavano di quelle che
arrivavano a «fine ciclo». Eh già, in Madagascar non esiste proprio bere
l’acqua così al naturale come nelle nostre pubblicità televisive (allora non
esistevano là né le bottiglie di plastica e nemmeno le lattine) solo gli
animali bevono l’acqua così com’è, gli uomini bevono il ranonampango…
diversamente, muoiano di sete! Orinare non era un grosso problema, bastava
tirar fuori il pisello da sotto il cavallo delle brache, con la dovuta
indifferenza, e farla lì sul posto senza manco pensare a sporgersi per scherzo.
Per le donne era pure più semplice, infatti queste saltavano il preliminare del
pisello e del cavallo e partivano direttamente dalla fase cruciale, sempre e
liberamente, ovunque si trovassero. Il defecare, per contro, era una pratica di
ben più sentito imbarazzo, almeno per uno con il culo bianco in mezzo a tanti
culi neri e divenne per di più, un bisogno insostenibile, specialmente dopo
aver bevuto l’acqua putrida della cisterna… Un marinaio mi narrò dell’esistenza
di una latrina nel gavone di prua… Dopo una «cordata» da lemure che durò
un’eternità, a giudizio del mio intestino, e durante la quale misi a
repentaglio la mia stessa vita, la raggiunsi… Non racconterò altro. Dopo il
tramonto, per la seconda notte di navigazione, dovetti cedere alla stanchezza
(sommata a quella prima della partenza, questa notte sarebbe stata la terza
consecutiva insonne) e ruzzolai sottocoperta. Presi posto in un corridoietto
già occupato da due dita di liquido tiepido e posata la testa sul mio fagotto
da viaggio, mi lasciai calpestare da chiunque passasse… tramortito. Dormii
nell’acqua, proprio come negli esempi di paradosso, che oltretutto
«sciabordava» in quel passaggio angusto, mossa dal rollio della barca. Alle
primissime e tenui luci dell’alba, mi alzai inzaccherato e sudicio come appena
uscito da una fossa biologica. Salii in cima al cassero semideserto e notai che
avevamo assunto una discreta vicinanza alla linea di costa. Vedere la terra
ricoperta dalla foresta, così vicina da distinguere gli alberi, mi confortò non
poco, e anche se la rotta non era variata, navigavamo almeno ben più «sotto
costa», tanto da sperare di poterla raggiungere in caso di naufragio. Scesi in
plancia di comando dove il timoniere, imbalsamato alla barra, taceva e guardava
avanti. «Sandokan» doveva trovarsi infognato in qualche cabina, allietato dalla
compagnia di qualcuna delle ragazze che tanto mi avevano chiamato con la manina
nelle notti precedenti, da riuscire a farmi scappare (come facessero queste a
«lavorare» in certe condizioni, non l’ho mai capito). Ma doveva aver già
impartito i suoi ordini. Il viaggio non prevedeva scali intermedi, almeno
ufficialmente, eppure, doppiando un enorme scoglio dalle pareti verticali alte
come montagne e ricoperto di vegetazione, iniziammo a ruotare la barra verso
est, dirigendo la prua in direzione di un’enorme baia, fino a quel momento
invisibile dalla nostra angolazione. Durante il «mezzo» periplo di quel grande
e affascinante scoglio che ricordava un maniero da cartoon disneyano, spuntò
Sandokan da una porticina, trafelato e sbraitante come uno sciamano posseduto.
Seguito dalla ragazza, spettinata da paura che lo assisteva come una
sacerdotessa, si accostò al parapetto. Teneva in una mano una bottiglia di
«toaka» (rum malgascio) e nell’altra dei soldi bene in vista, bagnò i soldi con
la toaka e iniziò ad «aspergerli» in mare, lo stesso fece col resto del
contenuto della bottiglia, passandosi infine le mani inzuppate di rum tra i
capelli e sulla fronte, più e più volte. Il nostro capitano aveva appena fatto
una «fafy» (un sacrificio); ci trovavamo in luogo sacro, in un luogo in cui,
per transitare, bisognava chiedere il permesso agli spiriti poiché quella era
una loro dimora. Questo genere di rito, fatto alla buona, viene celebrato
spessissimo in Madagascar, mentre una vera e propria fafy implica un maggior
dispendio cerimoniale ed economico e vede normalmente partecipi i soli
appartenenti del «clan» coinvolto nella «faccenda» e non certo dei vazaha.
Mentre il capitano «officiava», mi procurai doverosamente qualche moneta così
da poter fare la mia parte, ma non appena Sandokan si accorse della mia
presenza, tornò a tuonare: «AZA MANDOTO ITY TOHERANA ITY, FA MASINA BE NY
ATO!!!» [non sporcare (pisciare/cagare, implicito) in questo luogo perché è un
luogo molto sacro]. Non fece seguire alcuna traduzione in francese, ben conscio
del fatto che la mia piccola fafy non era un gesto da «fontana di Trevi» ma
un’autentica «aspersione», fatta con tutta l’anima «gasy» (malgascia) di cui
disponevo. E, d’altra parte, mica c’era tanto da fare i furbi, gli scetticoni
occidentali, in quelle condizioni era facilissimo farsela addosso e giurerei di
aver pregato anche il «nostro» Padre Eterno, chiedendogli di aiutarci a
riportare tutti i nostri culi, bianchi e neri, a terra. Man mano che
penetravamo nella baia, le onde si placavano a vista d’occhio e, in un tempo
che non riesco più a quantificare, ricordo che ci ritrovammo finalmente a
navigare su di una vasta distesa d’acqua, piatta come una tavola. Sembrava un
miracolo, non so se fosse stato merito di Dio oppure degli spiriti, ma avrei
pianto di gioia solo per questo. Eppure non ci voleva tanto a capire… il merito
di questa pace lo dovevamo al capitano che aveva dato ordine di entrare in quel
paradiso, anche se il vero motivo di quella virata rimase sempre un mistero. Fu
giorno molto inoltrato quando raggiungemmo la foce del fiume dal quale aveva
origine la baia che ci eravamo lasciati alle spalle e gettammo l’ancora a 150
metri circa da riva, di fronte al villaggio di Analalava. Quando finalmente si
spense lo scatarrare del motore, si udì la voce silenziosa del fiume che ci
veniva incontro e il chiasso del villaggio che stava alando le piroghe per
venirci ad abbordare. Vedevo LA BIRRA volare! Questo angolo di Madagascar non
sarebbe mai potuto diventare meta volontaria di un nostro viaggio, eppure aveva
un fascino tutto particolare, immerso in una vegetazione lussureggiante e
misteriosa che inghiottiva tutto ciò che si addentrava verso terra oltre la
spiaggia. Ero anchilosato e disidratato, avevo bisogno di bere e di camminare e
avrei anche mangiato un gatto bollito pur di mettere sotto i denti qualcosa. Quando
le prime lakana abbordarono le bassissime murate del Mahajanghé, ci fu un
assalto al contrario, furono infatti i passeggeri di quest’ultima ad arraffarsi
i pochi posti a sedere sui i tronchi di chinino e non i locali ad assalire la
nave per visionarne le mercanzie. Una volta compreso l’andazzo, gli indigeni
diedero vita a un servizio «taxi bateau» per portare a terra i malcapitati
bisognosi di tutto. Io e Rolland saltammo sulla prima lakana disponibile,
mentre Giorgio, per paura di rovesciarsi in acqua, scelse di rimanere a bordo
confidando nei rifornimenti che gli avremmo portato al ritorno. Percorremmo di
corsa i sentierini rossi di terra battuta che risalivano la piccola falesia
lussureggiante e quando raggiungemmo la spianata centrale del villaggio,
restammo abbagliati dai colori della frutta in vendita, esposta fuori dalle
capanne. Individuate fra queste le poche costruzioni in muratura e lamiera
ondulata, potenzialmente in grado di alloggiare un frigo a petrolio, ci
precipitammo in ordine sparso. Trovato finalmente l’immancabile commerciante
«chinoise» col sorriso già stampato sulle labbra all’avvistamento del vazaha,
supplicai… «LA BIÈRA MANGATSIAKA TOMPKO!!!» (una birra ghiacciata, la prego). «Mai
bevanda alcuna poté appagar cotanta umana sete, che nel ricordo ancor, mi
strugge». Beh insomma… fossi stato capace, avrei composto una poesia dedicata
alla birra che neanche Dante Alighieri… Mangiai avidamente anche un bel mucchio
di “tsaky tsaky” (pezzetti di carne appartenuti a ogni genere di animale,
arrostiti alla brace). Già al rientro, verso sera, i «manato» (ragazzi-giovani)
vogatori, fecero una certa fatica nel ricondurci al Mahajanghé, perché
l’effetto della bassa marea, che stava iniziando, liberava il «tappo» dalla
foce del fiume, consentendo alle acque di questo di scaricarsi precipitosamente
in mare. Il fiume si chiamava «loza» letteralmente PERICOLO e la sua voce
silenziosa stava per trasformarsi in un URLO, che sarebbe durato diverse ore. Né
Sandokan né il suo timoniere fecero rientro a bordo e il Mahajanghé rimase alla
fonda, con l’ancora che già iniziava ad arare vistosamente, senza nessuno che
lo potesse governare. Solo, con i suoi passeggeri, davanti a una muraglia
d’acqua di sei metri che stava per alzare il sipario. Già, sei metri di
escursione di marea… ben presto le sponde verdi di Analalava cominciarono a
scorrere davanti ai nostri occhi e nessuna piroga a remi, per parecchie ore, si
sarebbe lanciata nella corrente per venirci a recuperare. Cozzammo contro il
fondale, fummo condotti in acque profonde e distanti da riva, scese il buio sui
rumori dell’acqua e del naviglio e tornammo a respirare odore di morte. Un uomo
cadde in acqua nel nero della notte, sentii parlare di una colluttazione, di
una lite, poi anche di uno sfortunato incidente, morale, non seppi mai con
precisione cosa fosse accaduto. Rimasero di lui soltanto la moglie, i figli e
senz’altro qualche parente anch’esso tra i passeggeri. In silenzio, muti e
senza una lacrima, su quello spettro di ferro che ancora si ostinava a
galleggiare. I malgasci hanno un rapporto molto diretto con la morte, quasi
«quotidiano»: in Madagascar, nei villaggi di «brusse», la gente muore quasi
sempre davanti agli occhi dei figli, dei genitori, dei tanti fratelli e
sorelle, grandi «famiglie allargate». Non ci sono camici bianchi, dottori o
infermieri frettolosi, lunghi corridoi d’ospedale, porte di alluminio, sale di
attesa e barelle con le lenzuola verdi, a contrastare o preannunciare l’arrivo
di nostra «sora morte». L’ospedale di Ampasimanjeva, dove vivevamo, era un
avamposto più unico che raro nella sterminata realtà delle foreste delle savane
e degli altipiani di questa primordiale terra. L’unica cosa che conta veramente
per loro è di poter inumare, secondo il proprio rito, la salma del caro estinto
nella tomba del clan. Pur di riuscire a fare questo, un malgascio è disposto a
uccidere. Il fatto quindi che il nostro compagno di viaggio fosse stato portato
via dalla corrente, in acque dove nessuno avrebbe mai potuto condurre alcuna
ricerca, gettava sul Mahajanghé e i suoi occupanti la peggiore delle
maledizioni. Non so come accadde, ma il motore del Mahajanghé tornò a
rantolare, qualcuno lo aveva messo in moto, qualcuno dell’equipaggio forse.
Ricominciammo a contrastare la corrente e la deriva, come un vascello fantasma,
lentissimo nel buio, coi nostri volti dannati e silenziosi. Tranne il motore,
tutto il resto taceva. Qui il ricordo si fa vivissimo e non mi spiego il
perché: un rumore ben definito proviene dal buio fuori bordo, sono voci umane,
ansimanti, che sembrano incitarsi reciprocamente e si distingue bene lo
scrosciare di due pagaie che spingono nell’acqua con tutta la forza umanamente
possibile. Sono due vogatori giovani ed erculei su una lakana senza bilancere
(più veloce, come quelle dei nostri Antaimoro) che stanno sputando l’anima per
vincere la corrente e raggiungere il nostro battello. Tra l’uomo di prua e
quello di poppa, nel piccolo ventre della piroga, ci sono due sacchi di juta,
sembrano i classici sacchi di riso. Nessuno li guarda, nessuno sembra nemmeno
accorgesi di loro. Allora inizio a gridare: «MISY OLO! MISY OLONA! LAKANA EO
AN-DRANO!» (c’è gente! C’è una lakana in acqua). Nessuno mi caga… Sembra che io
abbia un’allucinazione e che tutti gli altri mi compatiscano come un ubriaco.
Scavalco il passamano e mi allungo fuoribordo a braccia aperte, una per
sostenermi e l’altra protesa, mentre aspetto che la prua della lakana copra
l’ultimo metro che la separa dalle mie dita (sul Mahajanghé neanche una cima a
pagarla). Lo sforzo dei due guerrieri è sovrumano e io non so che cazzo
inventarmi per «coprire» quella distanza infima. Loro non cedono e finalmente
aggancio il «piriolino» di prua. Il primo uomo butta la pagaia, mi afferra
fulmineo il braccio e fa: «Zaka vè?» (mi reggi?): rispondo «Eka!» (sì!). Con la
mano libera si toglie una corda di rafia da tracolla mentre con l’altra tiene
il mio braccio come una cima d’ormeggio. Poi, confidando nella mia presa, mi
molla e lega la sua piroga alle sponde del nostro battello, con la destrezza di
un ormeggiatore che non fa altro dall’alba al tramonto. Non un grazie, non un
saluto, (in tutto il Madagascar il saluto è un dovere sacrosanto, praticato
sistematicamente da chiunque, fuorché animali e vegetali). L’imponente «manato»
salta a bordo del nostro «sambo» (battello) come un lemure di 90 chili e in
poco tempo trasborda, aiutato dal compagno, i sacchi di juta sul Mahajanghé.
Superata la trappola delle bottiglie, con un’abile manovra di «Sant’Antonio»
(vedi «la catena…»), i due caricano in spalla un sacco ciascuno e spariscono
sotto coperta. A questo punto il ricordo torna a sbiadirsi, levigato dai
ventisei anni trascorsi da allora. Non ero sicuramente l’unico ad aver
assistito alla scena (seppur l’unico a prendervi parte) ma di tutti i
passeggeri, non uno proferì una sillaba né, men che meno, mosse un dito. I
vogatori d’assalto uscirono sul ponte con poche cose tra le mani, e con la
stessa determinazione con la quale avevano abbordato, saltarono sulla loro
«lakana» impiccata alla bitta, mollarono la rafia e tornarono a sparire nel
buio dal quale erano provenuti, lasciandosi portare dalla corrente. Ebbi la
sensazione di aver aiutato dei terroristi in perizoma, due rapinatori, ma
nessuno mi accusò di nulla. Dopo quattro giorni e quattro notti a bordo di
questo «scontapeccati» ero allo stremo delle forze e, seppur giovane e
gagliardo come un daino degli Appennini, avevo esaurito ogni umana risorsa in
questo «stralcio» di vita, da Madagascar estremo. Sentii l’ancora infrangere la
superficie dell’acqua, anche la marea ormai «era stanca» e, prima che arrivasse
il giorno, mi intrufolai sottocoperta per cercare una tana dove dormire.
Scavalcai i corpi umani dormienti, come fossero i cadaveri di uno sterminio, e
raggiunta l’estremità più estrema di poppa, dove le paratie si uniscono a
chiudere lo scafo, mi attorcigliai intorno all’asse verticale del timone
assumendo la sagoma di una C. E crollai nel sonno.
SVEGLIATI, SVEGLIATI!!!! STIAMO AFFONDANDO!».
Era la voce di Giorgio che mi fece resuscitare dal limbo e
nel dormiveglia mi apparve con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Mentre
propendevo per mandarlo a cagare e tornarmene nell’oltretomba, m’accorsi che
l’acqua, che da giorni allagava i corridoi sottocoperta, s’era ammucchiata in
una precisa porzione di spazio, con un’inclinazione rispetto al piano e alle
pareti, che palesava quella dello scafo. Mi resi conto in un attimo che la cosa
più probabile che restava da fare al Mahajanghé era proprio quella di affondare
e realizzai quindi la situazione: STAVAMO AFFONDANDO. Giorgio cercò di
giustificare la radiosità del suo volto: «Sì, ma affondiamo lentamente, non c’è
fretta e siamo vicini al villaggio di Analalava». Per lui, più di ogni altro,
questo naufragio significava la fine di un incubo, gli restava solo da
raggiungere la riva e sarebbe finito tutto. Finalmente. Riuscii a fatica a «svolgermi»
d’attorno all’asse del timone che cingevo da non so quante ore e cercai di
raggiungere il ponte. Il sole era già alto in cielo e i passeggeri del
Mahajanghé erano rinati a nuova vita, vocianti e chiassosi come in un mercato
della capitale, tutti intenti a fare qualcosa e a litigarsi i posti sulle
«lakana» che ancora non avevano raggiunto il battello, in un brulichio di mani,
di volti e di umanità viva e trepidante. Mi sedetti su qualcosa, appoggiai
comodamente i piedi sulle nostre care bottiglie e mi accesi un’altra sigaretta.
Giorgio era felice come un bambino che sta per andare allo zoo, mentre il
Mahajanghé s’inclinava lentamente. Aspettammo in santa pace una lakana che non
traboccasse di gente, per salirvi sopra. Analalava… (letteralmente: la lunga
foresta) ma quanto sarebbe stata lunga questa foresta? A terra Rolland mi
raggiunse con passo lento e l’espressione titubante, quando mi fu vicino,
avvampò di vergogna e mi disse : «Scusami, sono scappato tra i primi perché
avevo paura». «Hai fatto bene» risposi «ti ricordi che io sono amico degli
spiriti dell’acqua, vero?».
«Misaotra Davida« (grazie Davide).
Rahalakely Davida.
(Boschi Davide in lingua malgascia)
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