Grazie
all’isolamento geografico, il paese è un paradiso di biodiversità. Ma la
pressione demografica e l’instabilità politica accelerano il saccheggio delle
sue preziose risorse.
Procediamo
controcorrente nelle acque basse del Fiume Onive. In piedi sulla piroga, Remon,
un giovane in calzoncini e canottiera, spinge avanti l’imbarcazione con una
lunga pertica di bambù. Sopra di noi il cielo minaccioso dispensa raffiche di
pioggia, poi sole, poi ancora pioggia. Il ragazzo non se ne cura, così come
ignora i coccodrilli prostrati sulla riva.
Altri
uomini in piroga navigano in direzione opposta. Remon li saluta con un grido,
loro ricambiano. Sono i suoi “colleghi” del fiume, e ognuno trasporta un
gigantesco tronco di legno di rosa (una varietà di palissandro) abbattuto
illegalmente dalla foresta pluviale ai depositi di legname della città di
Antalaha, nel Nord-Est del Madagascar. Lì riceveranno in cambio un assegno.
Remon farà lo stesso dopo averci lasciati ai margini della foresta.
A Remon
non piace questo lavoro. Il suo capo - di cui non conosce il nome - gli ha
detto che deve lavorare tutto il giorno senza sosta; le guardie forestali sono
state pagate per tenersi alla larga per un periodo limitato, al termine del
quale si aspetteranno di ricevere un’altra bustarella. Trasportare alberi già
abbattuti è comunque meglio che abbatterli. Remon lo sa bene: prima faceva quel
lavoro, ma lo ha lasciato perché era diventato troppo rischioso. Benché fosse
praticato da anni, l’abbattimento illegale ha subito una brusca impennata dal
marzo 2009 quando, in seguito alla caduta del governo malgascio, i controlli
sono scomparsi e la foresta ha cominciato a pullulare di bande organizzate
scatenate in una corsa sfrenata al disboscamento, alimentata anche
dall’insaziabile appetito di legname degli approvvigionatori cinesi, che nel
giro di pochi mesi hanno importato dalle foreste del Nord-Est del paese legno
di rosa per un valore di circa 160 milioni di euro. Remon racconta di un
taglialegna di sua conoscenza al quale una banda ha rubato il legname con una
minaccia semplice ma efficace: «Noi siamo in 30, tu sei solo».
A un certo
punto la corrente del fiume si placa, e Remon accende una sigaretta di tabacco
e marijuana. Parla dei fady, i tabù che hanno protetto per secoli la foresta.
Ogni volta che un albero cade e sfonda la testa di qualcuno, o che qualcun
altro si rompe una gamba nelle rapide del fiume, tra i predatori di legname si
diffonde l’inquietudine: Abbiamo fatto arrabbiare i nostri antenati. Ci stanno
punendo. Remon è stato avvertito dagli anziani dei rischi che si corrono nel
depredare ciò che è sacro.
«Ma
provate voi a dare da mangiare alla vostra famiglia il legno di quegli alberi»,
ribatte.
Prima
Remon sfamava la famiglia lavorando nelle piantagioni di vaniglia vicino ad
Antalaha, città costiera che, come tutta l’isola, è ricca di risorse e povera
sotto ogni altro punto di vista. Vent’anni fa, l’allora presidente del
Madagascar, Didier Ratsiraka, andava talmente fiero della reputazione di
Antalaha come capitale mondiale della produzione di vaniglia che mandò un
funzionario a rendere omaggio alla città. «Il presidente credeva che avessimo
grandi palazzi e strade asfaltate», racconta l’esportatore di vaniglia Michel
Lomone. «Rimase profondamente deluso dal resoconto del suo consigliere».
Da allora,
un susseguirsi di cicloni e il crollo dei prezzi hanno contribuito a privare la
città del suo primato di “regina della vaniglia”. Oggi Antalaha è un centro
polveroso e sonnolento, e anche se la sua arteria principale, Rue de
Tananarive, è stata finalmente asfaltata nel 2005 con i fondi dell’Unione
Europea, il traffico è costituito per lo più da qualche taxi malandato,
biciclette arrugginite, pollame, capre, e soprattutto pedoni che camminano
scalzi sotto la pioggia coprendosi la testa con le grandi foglie della
cosiddetta “palma del viaggiatore”.
Così
almeno è stato fino alla primavera del 2009. In quel periodo, infatti, per le
strade di Antalaha sì è cominciato a udire il rombo delle motociclette.
Nell’unico negozio di Rue de Tananarive che le vendeva sono andate a ruba in
poco tempo, tanto che, in risposta alla grande richiesta, è stato aperto un
secondo negozio sulla stessa strada. Gli acquirenti erano tutti giovani magri e
ossuti, e chiunque ad Antalaha sapeva da dove provenissero i loro effimeri
guadagni. Di sicuro non dalle piantagioni di vaniglia. Erano gli stessi giovani
che si vedevano arrivare in città seduti sul retro di furgoni carichi di legname
abbattuto illegalmente, e che si riempivano le tasche di facili guadagni
abbattendo in modo selettivo i preziosi alberi di legno di rosa delle foreste
del Madagascar.
Il
Madagascar è un’isola. Certo, è la quarta del mondo per superficie (585 mila
chilometri quadrati), ma è pur sempre un’isola. Sebbene tutte le isole abbiano
una loro biosfera unica, il Madagascar (che si è separato dall’Africa circa 165
milioni di anni fa) è un caso a sé: circa il 90 per cento della flora e della
fauna sono endemiche, e non si trovano in nessun altro luogo del pianeta.
Lo spettacolo extraterrestre di enormi baobab con i tronchi a forma di carota, di spettrali lemuri, e di intere “foreste” di alti pinnacoli di pietra può far sgranare gli occhi anche al più navigato dei viaggiatori. Ma questa bellezza unica e indimenticabile va a braccetto con la disperazione quotidiana della popolazione. I malgasci, principale gruppo etnico dell’isola, hanno un modo di dire a dir poco eloquente: “meglio morire domani che morire oggi”. Il malgascio medio vive con circa un dollaro al giorno.
Lo spettacolo extraterrestre di enormi baobab con i tronchi a forma di carota, di spettrali lemuri, e di intere “foreste” di alti pinnacoli di pietra può far sgranare gli occhi anche al più navigato dei viaggiatori. Ma questa bellezza unica e indimenticabile va a braccetto con la disperazione quotidiana della popolazione. I malgasci, principale gruppo etnico dell’isola, hanno un modo di dire a dir poco eloquente: “meglio morire domani che morire oggi”. Il malgascio medio vive con circa un dollaro al giorno.
E dato che
la popolazione del Madagascar, più di 20 milioni di abitanti, cresce del tre
per cento ogni anno - uno dei tassi di crescita più alti di tutta l’Africa - il
contrasto tra la ricchezza della terra e la povertà dei suoi abitanti aumenta
di giorno in giorno. Per questo motivo gli ambientalisti, allarmati, hanno
definito il Madagascar un punto caldo della biodiversità, esprimendo la loro
disapprovazione in particolare per la pratica agricola del “taglia e brucia”,
molto diffusa sull’isola, che consiste nel dare fuoco ad ampi tratti di foresta
per convertirli in risaie.
Nel 2002
la comunità ambientalista internazionale aveva accolto con entusiasmo
l’elezione del presidente Marc
Ravalomanana, con il suo programma sensibile all’ambiente. Allo stesso modo ha
reagito con sconforto quando, nella primavera del 2009, un golpe militare lo ha
destituito, insediando al suo posto un ex disc jockey radiofonico troppo
giovane, secondo la costituzione, per ricoprire la carica di presidente.
Nel
settembre del 2009, dopo diversi mesi in cui ogni giorno veniva tagliato
illegalmente legno di rosa per un valore di oltre 360 mila euro, il nuovo
governo, a corto di denaro, ha revocato il divieto di esportazione del legno,
in vigore dal 2000, e ha emanato un decreto per legalizzare la vendita dei
tronchi già abbattuti e stoccati nei depositi. Lo scorso aprile, messo sotto
pressione dalla comunità internazionale, il governo ha rimesso in vigore il
bando. Ma il taglio continua.
In realtà
il resto del mondo non è nella posizione di poter giudicare, data la sua
voracità - a volte benefica, altre meno - nei confronti delle straordinarie
risorse del Madagascar. Il saccheggio delle foreste dimostra con quanta
facilità si possa spezzare il fragile equilibrio tra le esigenze umane e quelle
della natura, equilibrio che in Madagascar è sempre stato precario. I diritti
di prospezione ed estrazione mineraria delle riserve d’oro, nichel, cobalto,
ilmenite e zaffiri sono per lo più in mano a holding straniere. La ExxonMobil
ha dato inizio quattro anni fa alle ricerche per il petrolio nelle acque al
largo dell’isola, e per anni i migliori costruttori di chitarre americani hanno
dotato i loro strumenti di tastiere realizzate in pregiato ebano del
Madagascar. In tempi recenti il governo federale dell’isola ha tentato di
affittare terreni arabili alla Corea del Sud e di vendere acqua all’Arabia
Saudita. Una politica che porta allo sfruttamento di una grande quantità di
risorse con ben pochi benefici per il malgascio medio. Non c’è da stupirsi
quindi se i minatori locali depredano la terra di pietre preziose da smerciare
sui mercati asiatici. O che animali come il geco dalla coda a foglia o la
testuggine dal vomere, in via d’estinzione, vengano esportati clandestinamente
da piccoli commercianti di animali che li vendono ai collezionisti. O che i
giovani smagriti di Antalaha finiscano per decidere che è meglio morire domani,
e intascare oggi i soldi dei cinesi che comprano il legno di rosa.
«È un bene
per l’economia, un male per l’ecologia», commenta un uomo coinvolto nel
commercio illecito di legname. Ma ad Antalaha il piccolo boom economico si è
rivelato una bolla di sapone. Anche volendo lasciare da parte le devastanti
conseguenze a lungo termine della spoliazione della foresta (la scomparsa del
prezioso legno su almeno 10 mila dei 4,5 milioni di ettari di area protetta del
paese, l’estinzione dei lemuri e di altre specie endemiche, la piaga
dell’erosione del suolo che fa insabbiare i fiumi e fa morire i terreni
agricoli confinanti, la perdita delle entrate derivanti dal turismo) i perversi
effetti secondari del saccheggio del legno di rosa si sentono già da ora. Gli
abitanti di Antalaha, che all’improvviso si sono trovati a dover schivare
motociclette, hanno anche cominciato a notare l’aumento dei prezzi di pesce,
riso e altri generi d’uso quotidiano. La ragione è semplice: ci sono meno
uomini sia in mare, sia nei campi.
«Sono
nella foresta», afferma Michel Lomone, l’esportatore di vaniglia. «Sono tutti
nella foresta».
Per andare
da Antalaha alla foresta - dove per foresta s’intende il Parco nazionale di
Masoala, il più esteso del paese - bisogna intraprendere un viaggio lungo e
faticoso. Il confine sudoccidentale del parco è segnato dalla Baia di Antongil,
dove tra luglio e settembre partoriscono le megattere. Nel ventre selvaggio di
questa foresta pluviale di 235 mila ettari, la perseveranza del visitatore può
essere ripagata da straordinarie apparizioni di orchidee, piante carnivore,
aquile serpentarie, sfolgoranti camaleonti di Parson o lemuri come il vari
rosso. Masoala offre una varietà apparentemente infinita di erbe medicinali,
bacche selvatiche e legna da ardere per gli abitanti dei villaggi, che si
recano quotidianamente a piedi nudi nella foresta, cantando o chiacchierando. I
giovani che vengono dalla città per affari, invece, sembrano smarriti in questo
umido e misterioso groviglio di vegetazione.
Campeggiano
in piccoli gruppi vicino agli alberi che hanno selezionato per il taglio,
cibandosi di riso e caffè per settimane. Poi appare il capo che, dopo aver
ispezionato gli alberi, dà l’ordine di abbatterli. I tronchi vengono tagliati a
colpi d’ascia. Nel giro di poche ore si abbatte un albero che magari aveva
messo radici 500 anni prima. I taglialegna rimuovono con le asce tutta la parte
esterna del tronco finché rimane solo il caratteristico cuore violaceo.
L’albero viene quindi ridotto in ceppi lunghi circa due metri. Un altro gruppo
di due uomini imbraga ciascun ceppo con delle corde e lo trascina attraverso la
foresta fino alla sponda del fiume, un’impresa che richiede due giorni e viene
pagata tra gli 8 e i 16 euro a ceppo, a seconda della distanza percorsa.
Avanzando
con difficoltà nella foresta, mi imbatto di tanto in tanto in due figure che
trascinano stoicamente un ceppo di 180 chili a cui fanno scalare pendii
impossibili, discendere cascate e attraversare acquitrini simili a sabbie
mobili: uno sforzo di proporzioni bibliche, se non fosse che i due lo fanno per
soldi.
Come per
soldi (20 euro a ceppo) lo fa il tizio che i due incontreranno al fiume, che
legherà il ceppo a una zattera fatta a mano con la quale supererà le rapide.
Per soldi (9,5 euro a ceppo) lo fa anche il conducente della piroga che attende
la zattera dove le acque tornano calme. Per soldi (160 euro per due settimane)
lo fa la guardia forestale che i signori del legname hanno corrotto perché si
tenesse alla larga. E per soldi (16 euro a testa) lo fanno anche i poliziotti
ai posti di blocco sulla strada che porta ad Antalaha. Il danno alla foresta è
di gran lunga più grave della perdita del prezioso legname: per ciascuno di
quei ceppi di legno di rosa vengono abbattuti quattro o cinque alberi dal
tronco più leggero, con i quali viene fabbricata la zattera che porterà il
pesante ceppo a valle.
L’uomo che
ha incantato l’Occidente con la promessa di una nuova era di coscienza
ambientale e con lo slogan “Madagascar naturellement”, è Marc Ravalomanana, un
ex venditore di yogurt asceso alla carica di sindaco della città di Antananarivo
che ha poi rovesciato il presidente socialista Ratsiraka e fondato, nel 2002,
il partito politico “Tiako I Madagasikara” (Io amo il Madagascar). L’ex
presidente ha costruito strade e ospedali, ha distribuito divise scolastiche e
ha reciso il cordone che ancora legava simbolicamente il paese alla Francia
colonialista adottando come valuta nazionale l’ariary malgascio al posto del
franco. Ravalomanana ha anche rafforzato il bando contro l’agricoltura “taglia
e brucia” (si direbbe, purtroppo, senza alcun risultato), ha annunciato il
Madagascar Action Plan, un piano d’azione per promuovere la salvaguardia della
biodiversità del paese, e si è impegnato a triplicare la superficie delle aree
protette dell’isola. Sue dichiarazioni come “La nostra risorsa più importante è
l’ambiente” suonavano come musica alle orecchie della comunità verde.
Purtroppo,
nella realtà, sotto il tavolo del presidente venivano messi in atto “piani
d’azione” di tutt’altro genere: Ravalomanana è stato accusato di aver
confiscato ai baroni del legname legno di alberi già abbattuti per venderlo per
profitto personale. In presenza di testimoni, avrebbe preteso il 10 per cento
dei costi esplorativi di una compagnia petrolifera. E man mano che il
portafoglio del presidente si gonfiava, crollava il potere di acquisto dei suoi
connazionali. Il 7 febbraio 2009, migliaia di manifestanti hanno preso
d’assalto il palazzo presidenziale, ma sono stati accolti dalle fucilate, che
hanno lasciato sul terreno 30 morti. Un mese dopo l’esercito si è rivoltato
contro Ravalomanana, che è fuggito nello Swaziland. Appena esiliato, l’ex
presidente è stato dichiarato colpevole di aver confiscato lotti di terreno
comunale per affari di famiglia e di aver utilizzato fondi pubblici per
acquistare un aereo da 50 milioni di euro.
La
comunità internazionale si è rifiutata di riconoscere il nuovo governo guidato
da un altro ex sindaco di Antananarivo, il trentaquattrenne Andry Rajoelina.
Banca Mondiale, Onu, Usaid e altri donatori hanno revocato i finanziamenti.
Alcuni paesi occidentali hanno cominciato a sconsigliare ai propri cittadini di
recarsi nel paese, e a quel punto la “svolta verde” di Ravalomanana ha subito
una netta inversione di tendenza: il nuovo governo non aveva più fondi da
investire per applicare le norme in vigore nelle aree protette.
Ma
qualcuno aveva motivo di festeggiare per ciò che stava accadendo. Il 17 marzo
2009, giorno in cui Marc Ravalomanana rassegnava le sue dimissioni, una folla
di non meno di 20 mila persone si riuniva nello stadio di Antalaha, dove
venivano arrostiti 12 zebù, la birra scorreva a fiumi e la gente ballava tutta
la notte al ritmo di musica dal vivo. Tanto, a pagare il conto ci pensavano i
13 baroni del legname della zona. Da quel giorno, la foresta non era più
protetta.
La foresta
era loro.
Il magnate
del legno siede su una sedia di palissandro, davanti a una scrivania d’ebano,
in una stanza con pareti, soffitto e pavimento di palissandro. Anche se le sue
origini sono cinesi (i suoi genitori sono emigrati dalla Cina negli anni
Trenta) e dichiara che «i cinesi vanno matti per il palissandro», lui, che è
nato vicino ad Antalaha, ha un debole per il palissandro di colore più scuro.
Il suo ufficio è saturo del profumo di vaniglia proveniente dall’attiguo
magazzino, e invaso dal ruggito delle seghe proveniente dal suo deposito, dove
giacciono in piena vista cataste di tronchi di legno di rosa.
Lui si
chiama Roger Thunam, ed è ritenuto da molti uno dei più grossi commercianti di
legno di rosa del Madagascar. È un uomo di mezza età dai lineamenti asiatici,
non particolarmente alto. Porta gli occhiali, e ha quella padronanza di sé
tipica di coloro che detengono il potere. La piccola comunità di immigrati
cinesi dell’isola si è perfettamente integrata con la gente del luogo, e Thunam
ne è la prova: ad Antalaha è stimato e rispettato, è sempre pronto a dare una
mano se un contadino non sa come pagare un funerale ed è una persona utile da
conoscere se si cerca un lavoro ben pagato. Ma per quanto il processo di
produzione del legname comporti il pagamento di diverse prestazioni (i
taglialegna, gli uomini che trasportano i ceppi fino al fiume, quelli che li
aspettano con le zattere, quelli che spingono le piroghe, l’intermediario, gli
autisti dei furgoni e tutti i poliziotti che si incontrano lungo la strada che
conduce ai porti di Iharana e Toamasina), la gran parte dei proventi va a
uomini come lui, che, confessa, non ricorda l’ultima volta che è stato nella
foresta.
«Thunam
non è un uomo d’affari, è un trafficante», dice un funzionario locale. «Taglia
quello che non è suo. Ha rubato dal parco, che è pubblico. E adesso altri
pensano che sia legittimo prendersi ciò che è proibito prendere». Naturalmente,
Thunam fornisce un’altra versione dei fatti. Nato professionalmente nel settore
della vaniglia, ha allargato la sua attività al campo del legname 30 anni fa.
Da allora, dice, il governo gli ha concesso varie licenze.
In
effetti, il governo ha sempre sospeso il bando contro l’esportazione del legno
di rosa nei periodi in cui i cicloni devastavano la foresta lungo la costa
orientale dell’isola, in modo che si potessero abbattere e smerciare gli alberi
danneggiati dalle intemperie. Questa politica ha permesso ai baroni di
accumulare scorte di legname tagliato illegalmente nei periodi in cui il bando
è attivo e di venderli come legname “recuperato” nei periodi in cui il bando
viene revocato. Una scappatoia che incoraggia ulteriormente il taglio illegale
nei parchi nazionali, dove si trova gran parte degli alberi che danno legno di
rosa.
Thunam
insiste nel dichiarare che taglia solo alberi che gli è permesso tagliare. E se
il suo deposito in questo momento è pieno di tronchi di legno di rosa, lui è in
grado di spiegare il perché: «Non può immaginare quante persone taglino alberi
là fuori. Sono gli stessi che prima praticavano l’agricoltura taglia e brucia.
Non sono mai andati a scuola. Non si preoccupano delle generazioni future. Sono
loro i distruttori... Ma questo legname che vede è già tagliato. Se non siamo
noi a comprarlo da loro, lo farà qualcun altro».
Thunam
riconosce che i cinesi, con la loro fissazione per il legno di rosa, «sono i
maggiori acquirenti». (Una sala da pranzo in legno di rosa prodotta in Cina si
vende a più di 4.000 euro.) E anche quando il nuovo governo ha concesso una
revoca temporanea del bando, terminata nell’estate del 2009, i cinesi hanno
continuato a passare ordini a Thunam. Lasciare tutti quegli affari alla
concorrenza lo avrebbe danneggiato, spiega. «In sei mesi saremmo diventati una
piccola azienda».
Per Risy
Aimé, sindaco di Antalaha, fermare l’abbattimento degli alberi è facile: «Basta
arrestare 13 persone», dichiara, riferendosi a Roger Thunam e agli altri baroni
del legname. Occasionalmente il governo ci ha provato, incriminando i baroni
sospettati di commercio illegale. Ma questi commercianti detengono un grande
potere, e sono stati in grado di trarre vantaggio dalla confusione giuridica in
materia di taglio del legname. Secondo un rapporto di Global Witness e
dell’Environmental Investigation Agency, Thunam è uno dei due baroni (su sei
casi noti) riconosciuti colpevoli di aver esportato legno di rosa. È stato
rimesso in libertà nel 2008 dopo aver risarcito i danni attraverso un accordo
extragiudiziario, incriminato di nuovo nel 2009, e alla fine giudicato
innocente. Oggi siede alla sua scrivania d’ebano che domina un deposito di
legname brulicante di attività.
La mia
guida a Masoala, Rabe, è un ex impiegato del parco, e negli ultimi dieci anni è
stato nella foresta almeno un centinaio di volte. Procede rapido e scalzo nel
claustrofobico groviglio di vegetazione, dimostrando familiarità con
l’ambiente. Ma dalla sua ultima visita, avvenuta pochi mesi prima, nota con
sorpresa che è cambiato qualcosa.
«Non ci
sono lemuri», dice. «Sono scomparsi».
I
responsabili sono i predatori del legno di rosa. Stanchi della loro dieta a
base di riso, hanno cominciato a piazzare trappole nella foresta. Veniamo a
sapere che un gruppo avrebbe catturato 16
lemuri in una sola giornata. Non tutti vengono consumati sul posto.
Nella città di Sambava, appena a nord di Antalaha, tre ristoranti propongono
piatti a base di carne di lemure, a dispetto delle leggi federali. Il risultato
è che le foreste pluviali del Madagascar nordoccidentale stanno rapidamente
perdendo specie come il vari rosso, il valuvi forcifero, il chirogaleo bruno e
l’aye-aye. I lemuri non si trovano in nessun altro luogo della Terra, tranne
che nelle vicine Isole Comore.
«Non
vogliamo proteggere una foresta vuota, dove si possono vedere solo alberi»,
dice Jonah Ratsimbazafy, primatologo del Durrell Wildlife Conservation Trust.
Quest’isola ha una straordinaria ricchezza biologica, ma il lemure ne è il
simbolo e la mascotte, e gioca un ruolo fondamentale nella redditizia industria
turistica del Madagascar, come attestano le migliaia di turisti che visitano la
Riserva Speciale di Analamazaotra. Questi primati arboricoli dagli occhi
sporgenti affascinano non solo perché si trovano esclusivamente qui, ma anche
perché sono presenti in una grande varietà di specie. Le 50 specie di lemure finora
catalogate sono tutte poligame, hanno code molto appariscenti e producono versi
simili al grugnito dei maiali. Ma c’è anche l’indri, dal manto bianco e nero,
che è monogamo, privo di coda, e scuote la foresta con i suoi ululati
spettrali. Sembra incredibile, ma i ricercatori continuano a scoprire nuove
specie di lemuri sull’isola. Ognuna di esse, però, conta pochi individui, e nel
frattempo ben cinque sono entrate a far parte dell’elenco delle 25 specie di
primati a maggior rischio del mondo.
Finora a
sostegno della causa del lemure non si è levato alcun coro di solidarietà
nazionale. I malgasci «dovrebbero essere orgogliosi dei loro lemuri perché il
Madagascar è l’unico luogo adatto a ospitarli», dice Ratsimbazafy, «ma ci sono
persone qui che non sanno, o che non sono interessate. I malgasci che vivono
lontano dalle aree turistiche pensano che i lemuri siano solo roba da vazaha [i
bianchi], non riescono ad apprezzarne il potenziale». In effetti, benché alcuni
gruppi tribali considerino sacre certe specie di lemure, l’aye-aye, con quel
suo aspetto un po’ inquietante e quegli occhi e quelle orecchie enormi, è
considerato segno di malaugurio dalle tribù del Nord e per questo viene ucciso
a vista.
Il
comportamento dei malgasci è stato condizionato per secoli da simili tabù, o
fady. Si tratta di ammonimenti degli antenati, che continuano a vivere sulla
Terra come intermediari dell’oltretomba e vanno quindi ascoltati e rabboniti. A
volte - come ho potuto vedere con i miei occhi - tramite il famadihana, una cerimonia
durante la quale i resti degli antenati vengono disseppelliti, avvolti in nuovi
sudari bianchi, fatti danzare intorno alla tomba e infine restituiti alla
terra. Presso altre tribù è considerato fady toccare un camaleonte, parlare dei
coccodrilli, mangiare carne di maiale e lavorare di giovedì. Numerosi i fady
che proibiscono di violare montagne, grossi massi, boschetti di alberi, e
persino intere foreste, tutti segno di un profondo, seppur complicato, rapporto
con la terra e di un investimento spirituale nella sua buona salute. Ciò
nonostante, alla fin fine, i fady che vengono rispettati con più rigore sono
quelli che non entrano in collisione con la verità dei malgasci secondo la
quale è meglio morire domani.
“Vede quel
tratto di terra spoglia?”. Olivier Behra indica una radura disboscata al centro
di una zona boscosa. «C’è un tizio laggiù che sta tagliando gli alberi. Sto
cercando di convincerlo a fermarsi».
«Come
intende farlo?», gli domando.
«Dandogli
lavoro», risponde con un sorriso.
I
tentativi di Behra rappresentano una soluzione illuminata, seppur circoscritta,
al dilemma delle risorse del Madagascar: promuovere tra gli abitanti dei
villaggi i benefici immediati che si possono trarre da una foresta vitale.
Behra, francese, arrivò per la prima volta in Madagascar nel 1987 con un
progetto Onu per la salvaguardia dei coccodrilli dell’isola, poco amati e a
grave rischio. Resosi conto che «solo dando valore ai coccodrilli la gente si
sarebbe interessata a loro», Behra cominciò a pagare la gente del posto perché
ne raccogliesse le uova.
Dal 2000,
attraverso la sua Ong Man and the Environment, Behra applica la stessa
strategia alle foreste a rischio del Madagascar. A Vohimana, 160 chilometri a
est della capitale, si è imbattuto in una foresta che nel corso degli ultimi 40
anni era stata ridotta della metà. Utilizzando le conoscenze della popolazione
locale ha catalogato 90 piante medicinali ed elaborato le strategie per
immetterle sul mercato estero, tanto che, a un certo punto, l’azienda francese
Chanel si è interessata agli estratti delle foglie di alcune piante, come il
marungi, per i suoi profumi. Così, già nel 2007 a Vohimana non si disboscava
più, e oggi, invece di tagliare e bruciare, centinaia di abitanti dei villaggi
raccolgono e vendono foglie che non avrebbero mai pensato potessero avere un
valore economico.
«Io qui mi
sono costruito la casa», racconta Behra. «La gente vede che non vado da nessuna
parte, così sa che può fidarsi di me». La sua è una presenza utile ma discreta.
Quando si è reso conto che «non si può semplicemente prendere uno che per tutta
la vita ha fatto il taglialegna e pensare di trasformarlo in un agricoltore»,
Behra ha convinto il governo malgascio a consentire alla popolazione locale di
continuare a usare una parte della foresta per raccogliere la legna con cui
fare il carbone per uso domestico. Quando ha saputo che nel villaggio c’era un
cacciatore di lemuri, Behra lo ha assunto come guida per i turisti appassionati
del primate, mentre a un altro abitante locale, che si era sempre guadagnato da
vivere raccogliendo specie rare di orchidee, ha affidato la gestione della sua
serra di orchidee. Quando gli è venuto in mente di allevare i cinghiali della
foresta, che stavano distruggendo la piantagione di manioca che aveva avviato
lui stesso, i membri della tribù Betsimisaraka gli hanno detto che i cinghiali
erano fady, e lui ha concluso che «ciò va rispettato». Behra ha anche convinto
la Chanel a fare una donazione in denaro per il personale medico e per i pasti
scolastici a Vohimana.
«Forse,
operare su piccola scala come sta facendo Behra è più efficace che inseguire il
sogno di salvare intere foreste», osserva Jean-Aimé Rakotoarisoa, per 30 anni
direttore del Museo di Arte e Archeologia dell’Università di Antananarivo.
«Quasi tutti i programmi di salvaguardia ambientale dicono: “Non bruciate la
foresta perché è il vostro futuro”; ma queste persone non possono aspettare il
futuro. Hanno fame adesso. Bisogna mostrare alla comunità i benefici
immediati».
Questo
messaggio sembra aver fatto presa tra
alcune aziende che si occupano di estrazione di risorse su larga scala.
Oggi Rakotoarisoa lavora come consulente per il progetto Ambatovy,
un’operazione mineraria da 3,5 miliardi di euro per l’estrazione di nichel e
cobalto guidata da un consorzio straniero e localizzata non lontano dalla
foresta di Olivier Behra. Il progetto, benché controverso, dato che non ha
ancora mantenuto tutte le sue promesse, è stato pensato per evitare siti fady,
e prevede di risarcire (e, dove necessario, trasferire) gli abitanti che ne
hanno subito le ripercussioni e di coinvolgere continuamente la popolazione. Ma
non si tratta di manifestazioni d’altruismo, ammette Rakotoarisoa. «Per motivi
d’immagine, la società deve avere cura delle questioni ambientali e sociali.
Non si possono fare affari qui se ci sono proteste sociali».
All’estremità
sudorientale dell’isola, vicino a Tôlanaro, la società mineraria
anglo-australiana Rio Tinto sta cercando di mettere in atto un’ambiziosa
politica di cooperazione per compensare un progetto da 745 milioni di euro per
l’estrazione dell’ilmenite, minerale ricco di titanio nonché ingrediente comune
di vernici, carta e plastica. L’attività estrattiva ha portato alla
devastazione di un habitat unico di foreste costiere che ospitava 19 specie
endemiche di alberi, piante medicinali e canne utilizzate per intrecciare
cesti. Tuttavia, a differenza dei baroni del legno del Nord del paese, la Rio
Tinto sta cercando di conservare ogni singola specie. La società ha accantonato
aree di foresta da proteggere, lanciato un programma di formazione agricola,
costruito un porto marino pubblico, e per l’anno prossimo programma di
recuperare le aree naturali danneggiate.
Benché gli
abitanti di Tôlanaro abbiano una nuova strada, scuole nuove o ristrutturate e,
in alcuni casi, nuovi posti di lavoro alla miniera, resta vivo tra i locali un
certo scetticismo, insieme al dubbio che la società stia badando esclusivamente
ai propri interessi.
L’aeroporto
di Antalaha è piccolo e spoglio. Cani e polli vagano in cerca di avanzi di
cibo. Decine di persone attendono il volo in arrivo da Antananarivo. Dalla
porta entra Roger Thunam, accompagnato dal suo assistente. Il magnate percorre
l’edificio da una parte all’altra stringendo le mani a tutti, abbracciando le
donne, scambiando parole gentili con gli astanti.
Poi esce
fuori, e fino all’arrivo dell’aereo, resta appoggiato con aria soddisfatta a un
chiosco che vende frutta, bevendo da una noce di cocco assieme alla gente
comune. È come loro, un uomo del popolo, che conosce la sua gente... e che dà
loro da vivere, almeno per oggi.
Fonte: www.nationalgeographic.it
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