Dopo
Davide Boschi scopriamo che un altro fidentino molto noto è andato alla
scoperta del Madagascar. È Marco Cavallini, appassionato viaggiatore e
fotografo che sul suo sito racconta una bella fetta di mondo.
di Marco
Cavallini
Continuo a leggere notizie
angoscianti sul Madagascar, paese poverissimo e popolato da gente pacifica
sempre sorridente e disponibile, e mi tornano alla mente i tanti momenti e i
tanti incontri indimenticabili vissuti durante le mie visite, e allora perchè
non raccontare qualcosa… così per cercare di regalare un po’ di attenzione ad
uno dei tanti paesi dimenticati dai mass-media ma purtroppo non dai grandi
interessi, e magari serve un po’ anche un semplice racconto di viaggio magari
scritto maluccio.
Arrivato all’aeroporto di Tana
(popolare abbreviazione di Antananarivo), mi dirigo subito agli imbarchi
nazionali per prendere il volo per Morondava, non prima di essere stato intercettato
da due infermieri che mi porgono due pastiglie contro il colera (sempre pronto
a mietere vittime in varie zone dell’isola rossa!) e un bicchiere d’acqua.
Mentre mi allontano per appoggiare il bagaglio, con le pillole in mano, vengo
seguito dall’infermiere che mi cura perchè «pare» che i vazaha (termine
malgascio per indicare gli stranieri) abbiano la pessima abitudine di tenere le
pillole sotto la lingua per poi sputarle nella toelette.
Salito sul TwinOuter (piccolo e
«spettacolare» aereo da 18-20 posti che rappresenta la maggioranza della flotta
aerea malgascia), grazie all’effetto-culla che mi fanno gli sballottamenti,
vengo subito colto dal sonno per poi svegliarmi mentre l’aereo barcollando
punta verso una pista invisibile, mimetizzata in un paesaggio da favola
dominato da migliaia di baobab, ma guardando la tranquillità degli altri
(pochi!) passeggeri mi convinco che non stiamo precipitando ma che quella
striscia marrone che piano piano appare alla visuale è proprio una specie di
pista d’atterraggio!
Arrivato a Morondava e superato il
rumoroso sbarramento dei taxisti, comincio subito a cercare informazioni per
organizzarmi il viaggio agli Tsingy di Bemaraha, uno degli obiettivi
naturalistici di questo mio viaggio, ma la strada da fare è decisamente lunga e
impegnativa. È necessario noleggiare un 4×4 con autista e quindi anche trovarsi
un qualche compagno di viaggio per suddividere la spesa, e allora capita il
caso di incontrare Bernard: un giovane maestro svizzero arrivato sull’isola
rossa per fare visita ad un vecchio zio trasferitosi lì da anni a coltivare la
sua passione botanica, che certamente qui ha trovato la sua realizzazione vista
la quantità di piante uniche (tra cui gli stranissimi baobab, le piante
carnivore e molte curiose specie di piante grasse, nonché un’infinità di
orchidee) che popolano l’isola. Pare che circa l’80% tra flora e fauna qui
presente proliferi soltanto in Madagascar, anche se purtroppo i continui
disboscamenti attuati per coltivare (bruciando le foreste!) o per raccattare
legname hanno piano piano ridotto l’isola da un giardino strepitoso ad una
terra bruciacchiata con solo qualche rara e protetta «aiuola»!
Alle 5 della mattina partiamo, e
appena usciti da Morondava ci immettiamo sulla Statale, una lunga pista sabbiosa
contornata da cespugli e piante che non ci permettono una grossa visuale
dell’ambiente circostante: sembra semplicemente una striscia di sabbia rossa
che lotta per non essere riassorbita dall’immensa foresta circostante. Dopo una
quindicina di chilometri ci troviamo nell’Avenue du Baobab, una delle zone più
famose del Madagascar dove migliaia di baobab contornano la strada, e si
differenziano dai loro parenti del continente africano perchè invece di
presentare una grossa “chioma”, sopra il loro massiccio tronco (sembrano dei
patatoni!!) presentano solo radi ciuffetti, fino al “monumento degli
innamorati”, due baobab intrecciati che per il loro significato hanno purtroppo
subito la triste abitudine delle incisioni delle iniziali delle coppie di
innamorati sul proprio tronco.
Malgrado i salti (quante
craniate!!!) e gli insabbiamenti, Bernard si addormenta per poi risvegliarsi
quando ci troviamo di fronte allo Tsiribihina, un importante fiume che dovremo
attraversare per riprendere la strada, e non trova di meglio da fare che
procurarsi, in modo tuttora a me oscuro, due bottiglie fresche di birra, la
famosa Three Little Horses (la cui traduzione “casualmente” mi suona molto
famigliare!) che ci beviamo mangiucchiando dei pesciolini fritti su un tavolo
nello spiazzo vicino a riva, senza accorgerci che intanto tutta la gente si è
spostata e all’improvviso ci troviamo circondati da una numerosa mandria di
zebù (le mucche con la gobba, n.d.r.!!!) arrivate sulla riva per abbeverarsi
….. e io mi sento tanto Ernesto Calindri!! )
Però resta il problema di
procurarci la benzina e dopo una lunga trattativa, mi vengono portate alcune
casse da dodici di bottiglie di birra che però contengono benzina(!!), quindi
fatto il pieno saliamo in auto sulla chiatta quasi manuale (di ponti non c’è
traccia!) che ridiscenderà lo Tsiribihina per alcuni chilometri fino a
ritrovare la pista.
Appena sbarcati incontriamo un
canadese che da alcuni mesi sta arrancando in bicicletta per l’isola.
Riprendiamo quindi la strada in un
ambiente un pò più brullo, caratterizzato dalla presenza di baobab più giovani
e sottili di quelli visti finora, che io ribattezzo “baobini”!!
E quando ormai giunge il tramonto
ci troviamo all’ultimo fiume, però dobbiamo abbandonare il mezzo e possiamo
attraversare soltanto grazie a delle piccole canoe (su cui ovviamente bisogna
stare immobili!) e in venti minuti di buio pesto arriviamo sull’altra sponda e
finalmente chiedo (ovviamente solo adesso, perchè stamattina mi ero cambiato le
mutande!!) se il fiume è popolato da coccodrilli e altrettanto “ovviamente” mi
viene data risposta positiva!
Ma adesso il problema è come
raggiungere l’alberghetto dove dovremmo passare la notte, è già buio pesto, le
zanzare cominciano a farsi sentire e la stanchezza per il viaggio anche, quindi
l’idea di farci una camminata al buio di un’oretta non è certo stimolante … ma
sotto un’enorme acacia vediamo parcheggiato un fuoristrada, praticamente un
miraggio (!!), carico di casse di birra e sacchi di patate e carote, che sta
aspettando l’ambasciatore francese e due suoi ospiti momentaneamente impegnati
in una battuta di caccia, visto che per molti francesi dall’innato spirito
colonialista l’isola rossa altro non è che un terreno di caccia, in tutti i
sensi! (:-
Non che ci piaccia molto la compagnia,
ma la stanchezza prevale sull’etica e ci facciamo dare un passaggio,
“comodamente” seduti e legati sul tetto del fuoristrada, per rimanere però a
piedi dopo pochi chilometri, ovvero alla prima grossa buca; ma dopo mezz’ora a
favoleggiare su un’ambita quanto improbabile zuppa di birra a base di patate e
carote, la fantasiosa e vitale arte d’arrangiarsi, tipicamente africana,
dell’autista ha la meglio e la macchina riprende il cammino.
Arrivati a destinazione nel
piccolo villaggio di Bekopaka, mi trovo subito davanti ad una bistecca di carne
di zebù con ai lati una salsina verde, in cui con “prontezza” intingo la carne
per poi rimanere un buon dieci minuti con la bocca aperta e senza parole
(strano a credersi, ma vero!!) in attesa che si spenga il clamoroso incendio
che nella gola!
Dopo il giusto riposo, all’alba
siamo subito in piedi per incamminarci verso gli Tsingy ed essendo piovuto
durante la notte ci viene sconsigliato di andare al Grande Tsingy (per
visitarlo bene ci vorrebbero comunque tre giorni e va fatto in periodo
assolutamente secco!) quindi ci dirigiamo verso il piccolo. Sulla riva del
fiume ci sono tutte le donne di Bekopaka (un villaggio popolato prevalentemente
durante la stagione asciutta) che l’una con l’altra stanno lavorando alle capigliature
e rimango estasiato ad osservarle mentre suddividono la superficie cranica in 8
parti facendo altrettante trecce che poi annodano tra loro fino a trasformare
la testa in una bellissima composizione artistica, che sfoggeranno in occasione
della grande festa di stasera per l’Ambiente!
La moglie di Marcel (la nostra
strepitosa guida malgascia!) mi invita a danzare con lei stasera perchè ci sarà
anche un grande concorso, ovviamente mi rivolgo “preoccupato” a Marcel
dicendogli che non so ballare ma lui mi zittisce immediatamente asserendo che
con due birre sarei diventato un grande ballerino e che sua moglie ci tiene a
classificarsi prima di lui nel concorso, bella prospettiva!!!
Davanti al sentiero da cui si
accede al piccolo tsingy, c’è una tenda canadese: per sei mesi all’anno è la
casa di JeanClaude un geologo francese che vive sei mesi a Mahajanga e negli
altri sei mesi lavora alla conservazione di questo patrimonio naturale e che ci
accompagnerà durante l’escursione. Prima di tutto ci prega di stare molto
attenti a dove mettiamo i piedi perchè, oltre ad essere estremamente pericoloso
camminare dentro e sopra gli tsingy in quanto sono formazioni calcaree erose
dall’acqua ed estremamente alte e appuntite per cui una caduta potrebbe essere
anche fatale, è molto importante essere delicati in quanto si rischia di
romperle. Da qui Jean Claude prende spunto per dichiararsi molto contento delle
notevoli difficoltà che bisogna superare per raggiungere questo meraviglioso
luogo, difficoltà che fanno sì che soltanto pochi turisti riescano a metterci
piede limitando quindi la possibilità di fare danni irrimediabili e che lui
quando sente che la famosa pista da Morondava in futuro potrebbe essere
sostituita da una strada asfaltata va in panico, molto meglio che la Bekopaka
Autoroute rimanga così com’è con la sua sabbia e le sue buche micidiali, che
possono scoraggiare molti turisti ma che senz’altro sono un’ottima barriera di
sicurezza per questo delicatissimo ecosistema.
Durante la camminata Jean Claude
si accorge prima che è sparita una corda (indispensabile per muoversi in
sicurezza tra le lame acuminate!) e poi che in una piccola grotta c’è un’anfora
e soprattutto che c’è della cenere calda, e il discorso cade inevitabilmente
sui Vazhimba. I Vazhimba sono una popolazione pigmea considerata tra i primi
abitanti dell’isola rossa e di cui si sa pochissimo se non alcune leggende, tra
cui quelle che sostengono che molti di loro non hanno mai avuto contatti con le
altre popolazioni malgasce o occidentali, e che vivono in zone inaccessibili
della foresta primaria o nelle immense grotte e cavità presenti nel Grande
Tsingy e tuttora inesplorate.
Caratteristica degli Tsingy, oltre
alle sue forme acuminate, sono i piccoli canyons che si riempiono d’acqua nella
stagione delle piogge, le piante grasse dalle forme diversissime e che riescono
a prendere vita in punti anche assai complessi della formazione calcarea nonchè
gli immancabili lemuri, i primati che vivono soltanto sull’isola rossa
costituendone uno dei maggiori simboli e che si differenziano in diverse
sottospecie, tra cui i lemuri notturni di cui potrò ammirare gli occhi che mi
osservano circospetti dal buco di un tronco e i favolosi sifaka talmente
curiosi che anche se tu non li vedi nel fitto della foresta, loro sono
sicuramente ben piazzati con la famiglia al completo che ti osservano.
Quando chiedo perchè si chiamano
tsingy, il sempre sorridente Marcel dà un colpetto ad una lastra calcarea
facendomi ascoltare il suono che ne deriva, appunto “tsing” da cui deriva il
nome onomatopeico (così com’è la derivazione di tante altre parole della lingua
malgascia) della stessa formazione calcarea.
Prima di concludere l’interessante
camminata-arrampicata decidiamo di scendere in una grotta: si scende di
parecchie decine di metri aiutandosi infilando le mani nelle tante fessure ma
Marcel dopo una decina di minuti con modo decisamente tranquillo ci invita a
non mettere le mani in una determinata fessura, noi guardiamo e vediamo un
ragno bianco-marrone grande quanto un palmo di mano, fermo immobile, quindi
notata la tranquillità del tono di Marcel gli chiediamo che effetto farebbe su
di noi quel ragno per sentirci rispondere sempre con estrema tranquillità “non
ci sarebbe nemmeno bisogno di portarvi in superficie”!
Continuiamo a scendere ma con
maggiore attenzione, sentiamo rumori strani in lontananza e Marcel continua a
pronunciare una parola francese che ho già sentito ma di cui non ricordo il
significato; arrivati in una specie di salone immenso e con magnifici
stalagtiti, Marcel mi invita a battere le mani e io (sempre più suonato!)
convinto di fare una prova per l’eco le batto e subito mi ricordo che la famosa
parola francese “sans souris” significa “pipistrelli” e sono anche decisamente
grandi, praticamente sono vampiri!! L’uscita dalla grotta sarà estremamente
veloce!! )
Tornati alla base ci mangiamo una
bistecca, ovviamente senza salse (!!), e poi ci cimentiamo nella gara di ballo.
La festa si tiene nell’aula della scuola e noi siamo gli unici due vazaha e di
conseguenza anche i due che destano maggiore curiosità e veniamo trattati come
ospiti importanti (….ma quante birre ci offrono!!??), la festa è decisamente
importante per il villaggio e tutti sono vestiti al loro meglio: le donne con i
capelli intrecciati e gli uomini con i vestiti più belli o gli accessori più
intriganti, magliette di squadre di calcio e occhiali a specchio!! La serata è
semplicemente eccezionale (musicalmente domina il grande Jao Joby) e non
mancano le standing ovation per Bernard che insieme alla cognata di Marcel
lotta per la vittoria finale (io mi piazzerò in un discreto e sorprendente
quarto posto … ma avevo bevuto una birra in meno!!!) e alla fine dovrà cedere
di fronte alle peripezie della coppia favorita, i due maestri che anch’essi si
trasferiscono qui sei mesi all’anno per continuare gli insegnamenti scolastici
ai bambini.
L’ultimo giorno è ovviamente e
interamente dedicato al duro rientro, e tra buche, guadi e salti, a circa 40
chilometri da Morondava, quando il buio sta calando, incontriamo un camion
militare che avanza a passo d’uomo sulla sabbia: da sopra il cofano ci
salutano, è il ciclista canadese che in cambio di un passaggio (arriverà
l’indomani al tramonto!) è stato assunto, insieme alla sua torcia, come
fanale!!
Arrivati all’alberghetto di
Morondava, una piccola folla ci attende … per chiederci com’è stato il viaggio,
se abbiamo avuto problemi e soprattutto cosa ne pensiamo delle loro bellezze
naturali e allora mi trasformo in cantastorie con un pubblico educato e
attentissimo di adulti e bambini.
Quando preparavo i miei viaggi in
terra malgascia sapevo sempre che i pericoli più grossi erano rappresentati dai
coccodrilli e da qualche insetto, sapevo che la gente malgascia pur nella sua
drammatica povertà ha una dignità e una disponibilità eccezionali ma adesso so
che probabilmente non si erano ancora fatti i conti con il progresso e con quei
grossi interessi che quatti quatti portano il caos anche tra le popolazioni più
pacifiche! (:-
davide scrive:
Mi sembra di ricordare quando sei tornato, se
non dal primo, forse dal secondo dei tuoi viaggi in Madagascar. Non dico che ci
cercavamo come due pirati che dovevano riunire i lembi di una unica mappa per
trovare un tesoro, ma di certo avevamo più bisogno di parlarci di quanto non ne
avessero due turisti rientrati dal Kenya o dalle Maldive.
M’incuriosiva sentire cosa pensavi tu, che avevi girato tanti paesi del mondo, di quel luogo talmente remoto, da albergare ormai quasi soltanto nei ricordi della mia giovinezza.
Dovevi passare nel pomeriggio, così, a bere qualcosa al volo, dopo le quattro ma,,, alle tre del mattino seguente eravamo ancora in cortile come due ubriachi a parlare della grande isola.
Stavo attento a non “metterti le parole in bocca”, a non influenzarti perche quello che m’interessava era, prima di tutto, capire le tue sensazioni.
Che per me il Madagascar fosse una luogo particolare, in grado di suscitare ricordi anche invalidanti, stava nella logica delle cose, ma restai sorpreso quando tu, viaggiatore dell’intero globo, lo definisti:
“una terra ai confini del mondo”.
Anche chi lo ha visitato semplicemente come turista è sempre rimasto particolarmente colpito da quel posto e dalla gente che lo popola. Mi sono sempre chiesto il motivo,,, ma non ho mai trovato risposta.
Come direbbe ogni buon malgascio: “izany no lahatr’an Andriamanitra” (così ha disposto il Creatore).
Rahalakely Davida
M’incuriosiva sentire cosa pensavi tu, che avevi girato tanti paesi del mondo, di quel luogo talmente remoto, da albergare ormai quasi soltanto nei ricordi della mia giovinezza.
Dovevi passare nel pomeriggio, così, a bere qualcosa al volo, dopo le quattro ma,,, alle tre del mattino seguente eravamo ancora in cortile come due ubriachi a parlare della grande isola.
Stavo attento a non “metterti le parole in bocca”, a non influenzarti perche quello che m’interessava era, prima di tutto, capire le tue sensazioni.
Che per me il Madagascar fosse una luogo particolare, in grado di suscitare ricordi anche invalidanti, stava nella logica delle cose, ma restai sorpreso quando tu, viaggiatore dell’intero globo, lo definisti:
“una terra ai confini del mondo”.
Anche chi lo ha visitato semplicemente come turista è sempre rimasto particolarmente colpito da quel posto e dalla gente che lo popola. Mi sono sempre chiesto il motivo,,, ma non ho mai trovato risposta.
Come direbbe ogni buon malgascio: “izany no lahatr’an Andriamanitra” (così ha disposto il Creatore).
Rahalakely Davida
Articoli correlati
Nessun commento:
Posta un commento