martedì 14 maggio 2013

Vuoi più malaria? Continua ad abbattere foreste


Ci sono tanti buoni motivi per proteggere le foreste: dalla biodiversità, al clima, alle riserve d’acqua dolce, alla protezione dei suoli, ai popoli nativi.
Ora se ne aggiunge un’altra: il controllo della malaria. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS, la protezione della biodiversità delle foreste tropicali può contribuire a ridurre la diffusione della malaria. Uno studio pubblicato nel 2010 dagli scienziati dell’Università del Wisconsin sulla rivista Emerging Infectious Diseases CDC, giungeva alle stesse conclusioni: la deforestazione in Amazzonia è legata a un aumento dell’incidenza della malaria. Lo studio però si basava sulla statistica epidemiologica, combinando l’incidenza della malaria nei 54 distretti sanitari brasiliani, e comparandola alle immagini satellitari ad alta risoluzione che testimoniano l’abbattimento nella foresta amazzonica. Ora il nuovo studio spiega anche il motivo della relazione tra deforestazione e diffusione della malaria.           Lo studio si basa su un modello matematico, “una rappresentazione delle dinamiche di trasmissione della malaria”, spiega Gabriele Laporta, epidemiologo dell’Università di San Paolo del Brasile, “La dinamica inizia quando un essere umano infetto dalla malaria  viene morso da una zanzara vettore. Questa zanzara vettore si infetta e può trasmettere il parassita ad un altro essere umano.” Laporta e il suo team hanno usato il modello matematico per esaminare due fattori che possono influenzare la trasmissione della malaria nelle aree di foresta. Il numero di animali a sangue caldo -uccelli come tucani e quaglie silvestri, e mammiferi come scimmie urlatrici e scoiattoli- e il numero di zanzare che non sono portatrici di malaria. Nei fatti, in presenza di animali a sangue caldo, le zanzare non portatrici competono con quelle portatrici di malaria. In assenza di biodiversità, la zanzara portatrice di malaria prevale, e la malaria con essa. Fino ad oggi le amministrazioni comunali si adoperavano ad abbattere le foreste tutt’attorno alle città per combattere la malaria, in realtà non facevano che incrementarne la propagazione. Lo stesso avviene oggi, con la lobby agraria che cerca di spacciare per lotta alla malaria la deforestazione e la conversione delle foreste in piantagioni e pascoli. Ma quello che succede, secondo gli scienziati, è esattamente il contrario. Insomma, “la protezione delle foreste e la lotta alla malaria non sono incompatibili, anzi, la protezione della biodiversità dovrebbe essere parte integrante di tutti i programmi di eradicazione della malaria”.
Fonte: www.salvaleforeste.it
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L’insicurezza alimentare apre le porte alla tubercolosi


Toliara  – Malnutrizione e tubercolosi (TB) sono strettamente collegate: la prima indebolisce il sistema immunitario, aumentando la vulnerabilità alla malattia, mentre la TB riduce l’appetito, peggiora l’assorbimento di micronutrienti e altera il metabolismo dei pazienti. Attualmente, gli esperti della salute temono che l’interruzione della distribuzione di aiuti alimentari in Madagascar stia contribuendo all’aumento dei casi di TB a Toliara, capoluogo della provincia omonima e della regione di Atsimo-Andrefana, situata sulla costa sudoccidentale del Madagascar. In seguito al colpo di stato del 2009 i donatori hanno sospeso ogni tipo di assistenza nel paese africano, e la scarsità dei finanziamenti ha diminuito notevolmente l’assistenza alimentare. Inoltre l’impatto del ciclone Haruna, abbatutosi sul paese nel mese di febbraio 2013, ha aggravato il problema, la catena di distribuzione è stata intermittente e i casi di TB stanno aumentando. Ad aggravare la situazione le piogge irregolari e una recente invasione di locuste che ha devastato la metà del paese. Si teme che su 20 milioni di abitanti circa 13 milioni saranno a rischio di insicurezza alimentare nel 2013-14. Secondo le stime del Programma Nazionale di Controllo della TB in Madagascar nel 2012 sono stati confermati 26,182 casi, sebbene il numero complessivo di contagi si pensa sia di circa 50 mila, il 5% dei quali letali. Gli esperti del centro di assistenza per la TB hanno dichiarato che a Toliara, nel primo trimestre del 2012, sono stati registrati 56 nuovi casi in cura, rispetto ai 68 dello stesso periodo di quest’anno. Presso il centro di Toliara, a seguito del ciclone Haruna, gli approvvigionamenti alimentari sono stati esauriti nel febbraio del 2013,. La gente ha bisogno di lavorare per poter mangiare e spesso sono costretti ad interrompere le terapie. Circa 23 mila persone, malati e loro famiglie, ricevono cibo dal programma Food by Prescription (FBP) del PAM, tuttavia il programma è stato temporaneamente sospeso in 22 dei 51 centri sanitari a causa della mancanza di fondi. Oltre tre quarti della popolazione malgascia vive con meno di US$1 al giorno. Inoltre l’80% della popolazione è rurale, e il 65% vive a 10km o più di distanza dal centro sanitario. (AP)  (Agenzia Fides)
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Il naufragio del Mahajanghé


di Davide Boschi


Il naufragio del Mahajanghé ha per me una peculiarità unica, che lo distingue sensibilmente da ogni altro che io abbia già potuto raccontare.                                   


Infatti, nel gennaio del 1984 a bordo del «Caboteur» Mahajanghé, insieme a un centinaio di persone tra equipaggio e passeggeri, stipati tra migliaia di bottiglie di rum vuote, scarafaggi, topi e innumerevoli altre schifezze, C’ERO ANCH’IO.          Questa storia è talmente intrisa di Madagascar, pregna di ricordi di quegli anni della mia giovinezza, trascorsi come dentro a un lunghissimo e indimenticabile film, girato in pieno oceano Indiano, che francamente non so se riuscirò a raccontarla, pigiando i bottoni sulla tastiera di questo computer… così lontano. Il Mahajanghé, come tante imbarcazioni da trasporto malgascie, era già un relitto prima ancora di affondare, con una sola anomalia, anziché starsene sul fondo, attorniato dai pesci a concrezionarsi di ostriche, galleggiava in superficie, pattugliato dai cormorani, attratti dal suo lezzo «dantesco». La «struttura» dello scafo fu la prima cosa che mi colpì (dopo il fetore) di questo arnese, lungo una trentina di metri. Era un puzzle di coriandoli in lamiera monocroma tinta ruggine, di cui il più grande non raggiungeva per estensione la quinta parte di un metro quadrato. I cordoni di saldature che univano questi pezzi a migliaia, sembravano trame di un fitto e intricato reticolo di «vasi sanguigni», in rilievo sulla cute di un mostro moribondo, all’ormeggio. Verso sera la bassa marea l’aveva lasciata in secca come la carcassa di una balena spiaggiata, dilaniata dai gabbiani, ma impietosi di questo stato, gli indigeni continuavano a caricarla di bagagli e di cose d’ogni genere, stipando le une sulle altre, aggiungendo giri di rafia su giri di rafia per salire ancora con la «pila» del carico. Le due cime che la tenevano ormeggiata, una di poppa e una di prua, erano cosi tese da emanare un certo «qual suono» che diventava agghiacciante quando un sasso, sotto il peso della chiglia, cedeva o si spaccava. Mi sentivo partecipe di quello strazio al punto da desiderare il rimontare della marea che, se pur ci avesse indotto a salpare, avrebbe almeno posto fine a quell’agonia.


 Vi posso garantire che a nessun occidentale, ma dico proprio NESSUNO, sarebbe mai venuto in mente d’imbarcarsi su un affare del genere per affrontare qualche giorno di navigazione tra le onde e le correnti del Canal de Mozambique. Tant’è che persino molti malgasci scelsero le proprie gambe come mezzo di locomozione per raggiungere la nostra lontana e comune meta. Il rottame armava: un motore diesel 12 cilindri, guasto (girava con un paio di meno), un timone guasto anch’esso, ruotava al 50 per cento e aveva un «gioco vuoto» che lo rendeva praticamente ingovernabile, il ricordo (e solo quello) di una pompa di sentina guasta (dove il guasto fu motivo della sua asportazione che ne determinò l’univoco ricordo) della quale rimanevano un supporto in legno e alcuni brandelli di tubo ancora fasciati alle paratie. In plancia, invece, brillava per la sua totale assenza la radio. Salimmo in un centinaio di esseri umani su quel cumulo galleggiante (neanche tanto) di cianfrusaglie maleodoranti e ancora oggi non riesco a spiegarmi come riuscimmo a prendervi posto tutti. Il ponte di coperta era sepolto sotto una montagna di carico, malcelata da brandelli di teli di plastica e di stuoie sommariamente rabberciati tra loro e il camminamento laterale era «imballato», fino alle battagliole all’altezza del corrimano, con casse di bottiglie vuote.


Quest’ultima «criminale» disposizione di carico rendeva pericolosissimo ogni tentativo di deambulazione sul ponte (in Madagascar si cammina scalzi ovunque non solo in barca, nessuno a bordo possedeva scarpe) e induceva a farlo soltanto in caso di assoluta necessità (di vita o di morte) pena il rischio di squartarsi un’arteria. Ebbene… non ci crederete… stavamo andando in vacanza! So che per voi non è plausibile una cosa del genere, ma vi posso assicurare che stavamo proprio andando in vacanza. Ed eravamo felicissimi, dopo mesi trascorsi nella foresta a lottare con la strada sempre impraticabile, volevamo finalmente raggiungere il nord e l’isola di Nosy Be, per goderci il mare. Io, Giorgio e Rolland. Questo «trio»… non è un qualsiasi gruppetto di amici che si è messo d’accordo per andare a fare un giro, seppure ardito, ma un’indelebile pagina della mia vita che mi ha segnato per sempre e che per sempre mi impedirà di diventare un uomo normale, un uomo come gli altri. Il favore di marea ci colse all’alba, quando la luce del mattino illuminò il delta-estuario del grande fiume Bestiboka, rendendoci partecipi di uno spettacolo unico al mondo che ci fece dimenticare tutto. Avevamo pagato i «filibustieri» il giorno prima di vedere il naviglio, e se avessimo rinunciato a imbarcarci avremmo perso i soldi. Giorgio conosceva bene le Land-Rover e le piste della foresta del sud est, ma non sapeva nuotare e poteva solo buttarla in ridere, mentre Rolland, da vero Antaimoro, sapeva che non era bene sfidare gli spiriti dell’acqua e la sua gioia era offuscata da un velo di presagio che tanto avrebbe voluto sconfessare. Lui era abituato a pagaiare la piroga, la «lakana» sul fiume più che sul mare, e non ci voleva un etnologo per capire quanto avrebbe preferito trovarsi sul tronco intagliato di un chinino, piuttosto che su quella carretta arrugginita. La linea di galleggiamento del Mahajanghé, ormai in navigazione, corrispondeva quasi all’altezza del ponte di coperta, le murate erano praticamente immerse e una volta usciti dall’alveo del grande fiume e preso il mare, era facile intuire che saremmo stati sommersi dalle onde senza tanti complimenti.


Il capitano sembrava una figura uscita da un racconto di Salgari, meticcio indiano, burbero e sdentato, con una chioma nera da tigrotto della Malesia, controbilanciata da una pancia piuttosto prominente che gli conferiva quello «status» di benestante così evidente in mezzo a una popolazione di gente assolutamente magra. Urlava e impartiva ordini a chiunque gli capitasse a tiro, equipaggio o passeggero e la presenza di due bianchi a bordo pareva metterlo a disagio, lo innervosiva, ci guardava col piglio di un assassino che tramava come «farci fuori». Era un pover’uomo, sicuramente molto preoccupato per il viaggio che stava intraprendendo, sapeva che i malgasci sanno accettare anche situazioni impossibili… ma questi due bianchi pazzi…? Cosa gli avrebbero combinato? I «vazaha» (occidentali/bianchi) hanno sempre i soldi per pagarsi l’avion, sennò come ci arriverebbero qui in Madagascar? Perché questi due stavano rischiando la pelle in questo viaggio? Cosa centrava lui in questa storia che aveva già i contorni di una tragedia per il solo fatto che vedeva coinvolti due vazaha? Quando lo incrociavo mi fulminava con lo sguardo da tigre di Mompracem, da Caronte (con gli occhi di bragia) e non mancava mai di scuotere la testa in segno di commiserazione, non so se commiserasse più me o se stesso… L’acqua rossa del Bestiboka andava diluendosi insieme a noi, lentamente, in quella azzurra del mare e l’orizzonte si tingeva del blu dell’oceano e del grigio plumbeo di un ciclone tropicale che ci attendeva al largo. Non passò molto tempo che cominciammo a beccheggiare e rollare paurosamente, infradiciati dalle onde via via sempre più fredde e violente che sembravano volerci strappare dal ponte per darci in pasto agli squali. L’unica posizione possibile, per non stare nel letamaio sotto coperta o in quello del cassero, era d’incastrare un arto superiore, nonché il suo corrispondente inferiore, sotto una cima del carico, sperando che questa non avesse a tranciarmi di colpo in conseguenza a un possibile, quanto prevedibile, spostamento dello stesso. Le bottiglie, come piano di calpestio, avrebbero preoccupato anche un fachiro, eppure era proprio su quelle che bisognava camminare, dovendosi spostare. Oltre a questo insolito impiego (per delle bottiglie) esse presero più propriamente quello d’imbarcare l’acqua dei flutti, aggiungendo parecchie tonnellate di peso al già gravoso carico di questa bagnarola e nella mente, non solo mia, si faceva strada l’idea di scaraventare tutte quelle casse in mare per guadagnare un minimo di galleggiamento e di mobilità. La stessa «idea» dovette in qualche misura appannare, seppur trasversalmente, i pensieri di «Sandokan», che dall’alto del cassero tuonò: «PAS TOUCHER LES BOUTEILLES! COMPRIS!!!». Con l’indice puntato come un arpione, scandì il suo anatema in francese, esplicitandone così, il legittimo destinatario… (il francese, in Madagascar, è la lingua dei vazaha).


 Come se non bastasse, anche la nausea s’impossessò di me e cominciai a vomitare, intirizzito dal freddo e indebolito dal mal di mare; mi capitava di diventare l’involontario bersaglio dei conati di vomito altrui che provenivano un po’ da ogni dove, tanto l’onda successiva avrebbe lavato via tutto, anche l’umano tepore che quei liquidi gastrici infondevano alla mia carne intirizzita. E così mi accingevo ad affrontare la prima notte di crociera a bordo del Mahajanghé, mi raggomitolai incastrandomi tra un serbatoio di acqua putrida e una balla di tela dal contenuto ignoto, e con tutti gli eufemismi del caso, presi sonno. Un’onda più forte e più fredda delle altre mi svegliò di soprassalto, Giorgio e Rolland erano spariti… appena trovato l’equilibrio e la postura adatta sui colli di bottiglia, iniziai una ricerca convulsa e disperata. Rolland aveva trovato posto in coperta, in mezzo a quell’umanità, ridotta come in un girone dell’inferno e che tanto mi evocò il ventre di un galeone stracolmo di schiavi disperati e in catene. C’era caldo lì sotto, c’era caldo. Sdraiarsi fra quei corpi ammassati avrebbe significato salvarsi dall’ipotermia. Gli chiesi dove fosse Giorgio, ma scosse la testa, tenendo le pupille fisse sulle mie, poi disse di averlo lasciato vicino alla botola della sala macchine. Sala macchine?! Giusto, in sala macchine c’è il motore, o quel che ne rimane, quindi c’è anche Giorgio. Trovo la botola e scendo; 80 gradi, aria che scotta la faccia e i polmoni, monossido di carbonio al 50 per cento, sentina allagata da liquami che farebbero ribrezzo a una pantegana del Sarno… e un milione di decibel!!! Giorgio è lì, in piedi, lo sguardo fisso sulle pulsazioni dei due «filagni» di valvole, sporco e ridotto come un maiale, ma in perfetto stato di salute. Preferisce di sicuro quest’inferno al freddo del ponte tormentato delle onde, ma dai gesti e dalle mimiche labiali che si scambia col macchinista capisco, con un fiotto di orrore, che questo motorasso sta tentando di lasciarci a piedi, anzi, a nuoto (nella migliore delle ipotesi, alla deriva). Forse altri cilindri, oltre ai due già citati, mancano all’appello degli scoppi e nel suo insieme il propulsore non ha la forza di farci avanzare con questo mare contro e con questo sovraccarico che mantiene lo scafo pressoché in stato di totale immersione. Non ho mai capito per effetto di quale legge fisica il Mahajanghé abbia potuto galleggiare a pelo d’acqua per ben quattro interminabili giorni, ai margini di un ciclone tropicale. Avrebbe voluto almeno provare a ripararlo quel motore, ma non certo in navigazione e in moto, anche se dalla faccia del macchinista si capiva benissimo che il viaggio del Mahajanghé avrebbe avuto fine soltanto con il suo improbabilissimo approdo a Helle Ville, oppure con il suo naufragio.


La storia di Giorgio è un’altra di quelle vicende umane che non si riescono a raccontare, quella di un uomo di fede cristiana profonda, partito in gioventù verso la metà degli anni Settanta, come missionario laico, tecnico elettricista e meccanico, per prestare servizio nell’ospedale di Ampasimanjeva, nella foresta sud-est del Madagascar. Oggi, dopo trentasette anni, quell’uomo, che ho avuto il timore e il presagio di veder annegare davanti ai miei occhi prima di me, dirige e ancora lavora in quell’ospedale fuori dal mondo e fuori da ogni tempo. Al di là e al di sopra di questo viaggio avventuroso e di altrettanti epici e incredibili vissuti con lui, in quella terra ai confini dell’umanità, mi preme ricordare che quest’uomo è stato per me come e più di un fratello, di un padre, e che il mio affetto e la mia amicizia per lui accompagneranno per sempre i giorni della mia vita. Poche ore prima, Giorgio mi aveva detto: «Mi raccomando Davide, pensa a salvare te sesso se affondiamo, perché se cerchi di salvare anche me moriamo tutti e due, tanto io qua annego comunque. Davvero, salvati almeno tu, lasciami perdere, non potrei perdonarmelo». Premesso che se fossimo affondati in mare aperto, il Mahajanghé e il suo carico avrebbero attratto tanto pesce che gli zambesi, i martello e tutti gli altri squali dell’oceano non avrebbero impiegato tanto ad arrivare e a buttare in piedi una bella festa dell’Unità, indetta a nostre spese, e ci sarebbe stato ben poco da nuotare… Non so come, ma arrivò l’alba, e ci trovò ancora in navigazione, con la costa altalenante, verde e selvaggia a dritta e la catena montuosa dell’oceano a sinistra. Ricordo che a tratti, avulso ormai dal rollio della nave, vedevo solo mare, oppure solo cielo e avvertivo il peso della mia testa quando non la tenevo appoggiata a qualcosa. L’unica acqua bevibile era il «ranonampango» (l’acqua che si fa bollire nella pignatta del riso dopo la sua cottura), ma né io né i miei compagni avevamo pignatte o riso, e quei pochi che ne erano provvisti stentavano a portare a termine anche una singola cottura, erano più le pignatte che si rovesciavano di quelle che arrivavano a «fine ciclo». Eh già, in Madagascar non esiste proprio bere l’acqua così al naturale come nelle nostre pubblicità televisive (allora non esistevano là né le bottiglie di plastica e nemmeno le lattine) solo gli animali bevono l’acqua così com’è, gli uomini bevono il ranonampango… diversamente, muoiano di sete! Orinare non era un grosso problema, bastava tirar fuori il pisello da sotto il cavallo delle brache, con la dovuta indifferenza, e farla lì sul posto senza manco pensare a sporgersi per scherzo. Per le donne era pure più semplice, infatti queste saltavano il preliminare del pisello e del cavallo e partivano direttamente dalla fase cruciale, sempre e liberamente, ovunque si trovassero. Il defecare, per contro, era una pratica di ben più sentito imbarazzo, almeno per uno con il culo bianco in mezzo a tanti culi neri e divenne per di più, un bisogno insostenibile, specialmente dopo aver bevuto l’acqua putrida della cisterna… Un marinaio mi narrò dell’esistenza di una latrina nel gavone di prua… Dopo una «cordata» da lemure che durò un’eternità, a giudizio del mio intestino, e durante la quale misi a repentaglio la mia stessa vita, la raggiunsi… Non racconterò altro. Dopo il tramonto, per la seconda notte di navigazione, dovetti cedere alla stanchezza (sommata a quella prima della partenza, questa notte sarebbe stata la terza consecutiva insonne) e ruzzolai sottocoperta. Presi posto in un corridoietto già occupato da due dita di liquido tiepido e posata la testa sul mio fagotto da viaggio, mi lasciai calpestare da chiunque passasse… tramortito. Dormii nell’acqua, proprio come negli esempi di paradosso, che oltretutto «sciabordava» in quel passaggio angusto, mossa dal rollio della barca. Alle primissime e tenui luci dell’alba, mi alzai inzaccherato e sudicio come appena uscito da una fossa biologica. Salii in cima al cassero semideserto e notai che avevamo assunto una discreta vicinanza alla linea di costa. Vedere la terra ricoperta dalla foresta, così vicina da distinguere gli alberi, mi confortò non poco, e anche se la rotta non era variata, navigavamo almeno ben più «sotto costa», tanto da sperare di poterla raggiungere in caso di naufragio. Scesi in plancia di comando dove il timoniere, imbalsamato alla barra, taceva e guardava avanti. «Sandokan» doveva trovarsi infognato in qualche cabina, allietato dalla compagnia di qualcuna delle ragazze che tanto mi avevano chiamato con la manina nelle notti precedenti, da riuscire a farmi scappare (come facessero queste a «lavorare» in certe condizioni, non l’ho mai capito). Ma doveva aver già impartito i suoi ordini. Il viaggio non prevedeva scali intermedi, almeno ufficialmente, eppure, doppiando un enorme scoglio dalle pareti verticali alte come montagne e ricoperto di vegetazione, iniziammo a ruotare la barra verso est, dirigendo la prua in direzione di un’enorme baia, fino a quel momento invisibile dalla nostra angolazione. Durante il «mezzo» periplo di quel grande e affascinante scoglio che ricordava un maniero da cartoon disneyano, spuntò Sandokan da una porticina, trafelato e sbraitante come uno sciamano posseduto. Seguito dalla ragazza, spettinata da paura che lo assisteva come una sacerdotessa, si accostò al parapetto. Teneva in una mano una bottiglia di «toaka» (rum malgascio) e nell’altra dei soldi bene in vista, bagnò i soldi con la toaka e iniziò ad «aspergerli» in mare, lo stesso fece col resto del contenuto della bottiglia, passandosi infine le mani inzuppate di rum tra i capelli e sulla fronte, più e più volte. Il nostro capitano aveva appena fatto una «fafy» (un sacrificio); ci trovavamo in luogo sacro, in un luogo in cui, per transitare, bisognava chiedere il permesso agli spiriti poiché quella era una loro dimora. Questo genere di rito, fatto alla buona, viene celebrato spessissimo in Madagascar, mentre una vera e propria fafy implica un maggior dispendio cerimoniale ed economico e vede normalmente partecipi i soli appartenenti del «clan» coinvolto nella «faccenda» e non certo dei vazaha. Mentre il capitano «officiava», mi procurai doverosamente qualche moneta così da poter fare la mia parte, ma non appena Sandokan si accorse della mia presenza, tornò a tuonare: «AZA MANDOTO ITY TOHERANA ITY, FA MASINA BE NY ATO!!!» [non sporcare (pisciare/cagare, implicito) in questo luogo perché è un luogo molto sacro]. Non fece seguire alcuna traduzione in francese, ben conscio del fatto che la mia piccola fafy non era un gesto da «fontana di Trevi» ma un’autentica «aspersione», fatta con tutta l’anima «gasy» (malgascia) di cui disponevo. E, d’altra parte, mica c’era tanto da fare i furbi, gli scetticoni occidentali, in quelle condizioni era facilissimo farsela addosso e giurerei di aver pregato anche il «nostro» Padre Eterno, chiedendogli di aiutarci a riportare tutti i nostri culi, bianchi e neri, a terra. Man mano che penetravamo nella baia, le onde si placavano a vista d’occhio e, in un tempo che non riesco più a quantificare, ricordo che ci ritrovammo finalmente a navigare su di una vasta distesa d’acqua, piatta come una tavola. Sembrava un miracolo, non so se fosse stato merito di Dio oppure degli spiriti, ma avrei pianto di gioia solo per questo. Eppure non ci voleva tanto a capire… il merito di questa pace lo dovevamo al capitano che aveva dato ordine di entrare in quel paradiso, anche se il vero motivo di quella virata rimase sempre un mistero. Fu giorno molto inoltrato quando raggiungemmo la foce del fiume dal quale aveva origine la baia che ci eravamo lasciati alle spalle e gettammo l’ancora a 150 metri circa da riva, di fronte al villaggio di Analalava. Quando finalmente si spense lo scatarrare del motore, si udì la voce silenziosa del fiume che ci veniva incontro e il chiasso del villaggio che stava alando le piroghe per venirci ad abbordare. Vedevo LA BIRRA volare! Questo angolo di Madagascar non sarebbe mai potuto diventare meta volontaria di un nostro viaggio, eppure aveva un fascino tutto particolare, immerso in una vegetazione lussureggiante e misteriosa che inghiottiva tutto ciò che si addentrava verso terra oltre la spiaggia. Ero anchilosato e disidratato, avevo bisogno di bere e di camminare e avrei anche mangiato un gatto bollito pur di mettere sotto i denti qualcosa. Quando le prime lakana abbordarono le bassissime murate del Mahajanghé, ci fu un assalto al contrario, furono infatti i passeggeri di quest’ultima ad arraffarsi i pochi posti a sedere sui i tronchi di chinino e non i locali ad assalire la nave per visionarne le mercanzie. Una volta compreso l’andazzo, gli indigeni diedero vita a un servizio «taxi bateau» per portare a terra i malcapitati bisognosi di tutto. Io e Rolland saltammo sulla prima lakana disponibile, mentre Giorgio, per paura di rovesciarsi in acqua, scelse di rimanere a bordo confidando nei rifornimenti che gli avremmo portato al ritorno. Percorremmo di corsa i sentierini rossi di terra battuta che risalivano la piccola falesia lussureggiante e quando raggiungemmo la spianata centrale del villaggio, restammo abbagliati dai colori della frutta in vendita, esposta fuori dalle capanne. Individuate fra queste le poche costruzioni in muratura e lamiera ondulata, potenzialmente in grado di alloggiare un frigo a petrolio, ci precipitammo in ordine sparso. Trovato finalmente l’immancabile commerciante «chinoise» col sorriso già stampato sulle labbra all’avvistamento del vazaha, supplicai… «LA BIÈRA MANGATSIAKA TOMPKO!!!» (una birra ghiacciata, la prego). «Mai bevanda alcuna poté appagar cotanta umana sete, che nel ricordo ancor, mi strugge». Beh insomma… fossi stato capace, avrei composto una poesia dedicata alla birra che neanche Dante Alighieri… Mangiai avidamente anche un bel mucchio di “tsaky tsaky” (pezzetti di carne appartenuti a ogni genere di animale, arrostiti alla brace). Già al rientro, verso sera, i «manato» (ragazzi-giovani) vogatori, fecero una certa fatica nel ricondurci al Mahajanghé, perché l’effetto della bassa marea, che stava iniziando, liberava il «tappo» dalla foce del fiume, consentendo alle acque di questo di scaricarsi precipitosamente in mare. Il fiume si chiamava «loza» letteralmente PERICOLO e la sua voce silenziosa stava per trasformarsi in un URLO, che sarebbe durato diverse ore. Né Sandokan né il suo timoniere fecero rientro a bordo e il Mahajanghé rimase alla fonda, con l’ancora che già iniziava ad arare vistosamente, senza nessuno che lo potesse governare. Solo, con i suoi passeggeri, davanti a una muraglia d’acqua di sei metri che stava per alzare il sipario. Già, sei metri di escursione di marea… ben presto le sponde verdi di Analalava cominciarono a scorrere davanti ai nostri occhi e nessuna piroga a remi, per parecchie ore, si sarebbe lanciata nella corrente per venirci a recuperare. Cozzammo contro il fondale, fummo condotti in acque profonde e distanti da riva, scese il buio sui rumori dell’acqua e del naviglio e tornammo a respirare odore di morte. Un uomo cadde in acqua nel nero della notte, sentii parlare di una colluttazione, di una lite, poi anche di uno sfortunato incidente, morale, non seppi mai con precisione cosa fosse accaduto. Rimasero di lui soltanto la moglie, i figli e senz’altro qualche parente anch’esso tra i passeggeri. In silenzio, muti e senza una lacrima, su quello spettro di ferro che ancora si ostinava a galleggiare. I malgasci hanno un rapporto molto diretto con la morte, quasi «quotidiano»: in Madagascar, nei villaggi di «brusse», la gente muore quasi sempre davanti agli occhi dei figli, dei genitori, dei tanti fratelli e sorelle, grandi «famiglie allargate». Non ci sono camici bianchi, dottori o infermieri frettolosi, lunghi corridoi d’ospedale, porte di alluminio, sale di attesa e barelle con le lenzuola verdi, a contrastare o preannunciare l’arrivo di nostra «sora morte». L’ospedale di Ampasimanjeva, dove vivevamo, era un avamposto più unico che raro nella sterminata realtà delle foreste delle savane e degli altipiani di questa primordiale terra. L’unica cosa che conta veramente per loro è di poter inumare, secondo il proprio rito, la salma del caro estinto nella tomba del clan. Pur di riuscire a fare questo, un malgascio è disposto a uccidere. Il fatto quindi che il nostro compagno di viaggio fosse stato portato via dalla corrente, in acque dove nessuno avrebbe mai potuto condurre alcuna ricerca, gettava sul Mahajanghé e i suoi occupanti la peggiore delle maledizioni. Non so come accadde, ma il motore del Mahajanghé tornò a rantolare, qualcuno lo aveva messo in moto, qualcuno dell’equipaggio forse. Ricominciammo a contrastare la corrente e la deriva, come un vascello fantasma, lentissimo nel buio, coi nostri volti dannati e silenziosi. Tranne il motore, tutto il resto taceva. Qui il ricordo si fa vivissimo e non mi spiego il perché: un rumore ben definito proviene dal buio fuori bordo, sono voci umane, ansimanti, che sembrano incitarsi reciprocamente e si distingue bene lo scrosciare di due pagaie che spingono nell’acqua con tutta la forza umanamente possibile. Sono due vogatori giovani ed erculei su una lakana senza bilancere (più veloce, come quelle dei nostri Antaimoro) che stanno sputando l’anima per vincere la corrente e raggiungere il nostro battello. Tra l’uomo di prua e quello di poppa, nel piccolo ventre della piroga, ci sono due sacchi di juta, sembrano i classici sacchi di riso. Nessuno li guarda, nessuno sembra nemmeno accorgesi di loro. Allora inizio a gridare: «MISY OLO! MISY OLONA! LAKANA EO AN-DRANO!» (c’è gente! C’è una lakana in acqua). Nessuno mi caga… Sembra che io abbia un’allucinazione e che tutti gli altri mi compatiscano come un ubriaco. Scavalco il passamano e mi allungo fuoribordo a braccia aperte, una per sostenermi e l’altra protesa, mentre aspetto che la prua della lakana copra l’ultimo metro che la separa dalle mie dita (sul Mahajanghé neanche una cima a pagarla). Lo sforzo dei due guerrieri è sovrumano e io non so che cazzo inventarmi per «coprire» quella distanza infima. Loro non cedono e finalmente aggancio il «piriolino» di prua. Il primo uomo butta la pagaia, mi afferra fulmineo il braccio e fa: «Zaka vè?» (mi reggi?): rispondo «Eka!» (sì!). Con la mano libera si toglie una corda di rafia da tracolla mentre con l’altra tiene il mio braccio come una cima d’ormeggio. Poi, confidando nella mia presa, mi molla e lega la sua piroga alle sponde del nostro battello, con la destrezza di un ormeggiatore che non fa altro dall’alba al tramonto. Non un grazie, non un saluto, (in tutto il Madagascar il saluto è un dovere sacrosanto, praticato sistematicamente da chiunque, fuorché animali e vegetali). L’imponente «manato» salta a bordo del nostro «sambo» (battello) come un lemure di 90 chili e in poco tempo trasborda, aiutato dal compagno, i sacchi di juta sul Mahajanghé. Superata la trappola delle bottiglie, con un’abile manovra di «Sant’Antonio» (vedi «la catena…»), i due caricano in spalla un sacco ciascuno e spariscono sotto coperta. A questo punto il ricordo torna a sbiadirsi, levigato dai ventisei anni trascorsi da allora. Non ero sicuramente l’unico ad aver assistito alla scena (seppur l’unico a prendervi parte) ma di tutti i passeggeri, non uno proferì una sillaba né, men che meno, mosse un dito. I vogatori d’assalto uscirono sul ponte con poche cose tra le mani, e con la stessa determinazione con la quale avevano abbordato, saltarono sulla loro «lakana» impiccata alla bitta, mollarono la rafia e tornarono a sparire nel buio dal quale erano provenuti, lasciandosi portare dalla corrente. Ebbi la sensazione di aver aiutato dei terroristi in perizoma, due rapinatori, ma nessuno mi accusò di nulla. Dopo quattro giorni e quattro notti a bordo di questo «scontapeccati» ero allo stremo delle forze e, seppur giovane e gagliardo come un daino degli Appennini, avevo esaurito ogni umana risorsa in questo «stralcio» di vita, da Madagascar estremo. Sentii l’ancora infrangere la superficie dell’acqua, anche la marea ormai «era stanca» e, prima che arrivasse il giorno, mi intrufolai sottocoperta per cercare una tana dove dormire. Scavalcai i corpi umani dormienti, come fossero i cadaveri di uno sterminio, e raggiunta l’estremità più estrema di poppa, dove le paratie si uniscono a chiudere lo scafo, mi attorcigliai intorno all’asse verticale del timone assumendo la sagoma di una C. E crollai nel sonno.
SVEGLIATI, SVEGLIATI!!!! STIAMO AFFONDANDO!».
Era la voce di Giorgio che mi fece resuscitare dal limbo e nel dormiveglia mi apparve con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Mentre propendevo per mandarlo a cagare e tornarmene nell’oltretomba, m’accorsi che l’acqua, che da giorni allagava i corridoi sottocoperta, s’era ammucchiata in una precisa porzione di spazio, con un’inclinazione rispetto al piano e alle pareti, che palesava quella dello scafo. Mi resi conto in un attimo che la cosa più probabile che restava da fare al Mahajanghé era proprio quella di affondare e realizzai quindi la situazione: STAVAMO AFFONDANDO. Giorgio cercò di giustificare la radiosità del suo volto: «Sì, ma affondiamo lentamente, non c’è fretta e siamo vicini al villaggio di Analalava». Per lui, più di ogni altro, questo naufragio significava la fine di un incubo, gli restava solo da raggiungere la riva e sarebbe finito tutto. Finalmente. Riuscii a fatica a «svolgermi» d’attorno all’asse del timone che cingevo da non so quante ore e cercai di raggiungere il ponte. Il sole era già alto in cielo e i passeggeri del Mahajanghé erano rinati a nuova vita, vocianti e chiassosi come in un mercato della capitale, tutti intenti a fare qualcosa e a litigarsi i posti sulle «lakana» che ancora non avevano raggiunto il battello, in un brulichio di mani, di volti e di umanità viva e trepidante. Mi sedetti su qualcosa, appoggiai comodamente i piedi sulle nostre care bottiglie e mi accesi un’altra sigaretta. Giorgio era felice come un bambino che sta per andare allo zoo, mentre il Mahajanghé s’inclinava lentamente. Aspettammo in santa pace una lakana che non traboccasse di gente, per salirvi sopra. Analalava… (letteralmente: la lunga foresta) ma quanto sarebbe stata lunga questa foresta? A terra Rolland mi raggiunse con passo lento e l’espressione titubante, quando mi fu vicino, avvampò di vergogna e mi disse : «Scusami, sono scappato tra i primi perché avevo paura». «Hai fatto bene» risposi «ti ricordi che io sono amico degli spiriti dell’acqua, vero?».
«Misaotra Davida« (grazie Davide).
Rahalakely Davida.
(Boschi Davide in lingua malgascia)
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Dopo il ciclone Haruna, UNFPA sostiene quasi 300 donne in gravidanza. Ostetriche Mentoring


In una situazione di emergenza, il rischio di morire di parto è molto più alta del normale. UNFPA ha pre-posizionati  a Tulear sei (06) Kit di salute riproduttiva per l'esecuzione di 270 consegne in sicurezza e gratuito. Venerdì 22 febbraio 2013, il ciclone tropicale di categoria 2 Haruna pesantemente colpito la costa sud-occidentale del Madagascar lasciando le città allagate e enparties distrutti. Il bilancio provvisorio riferito decine di morti, dispersi e più di 9.000 sfollati tra cui donne incinte. La situazione lasciata dal ciclone Haruna approfondisce solo il rischio di morbilità e mortalità materna e la morbilità delle malattie sessualmente trasmissibili e l'aumento dei casi di violenza basata sul genere. "Il tasso di mortalità materna Il Madagascar è già molto elevata, e questa crisi umanitaria la vita delle donne incinte e dei neonati è in pericolo ", ha detto Agathe Lawson, Rappresentante del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione nel Madagascar.

Di fronte a questa crisi umanitaria, il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) ha un ruolo importante nella fornitura di prodotti e servizi in grado di garantire che le donne in gravidanza possono partorire nelle norme medico richiesto gratuitamente. Infatti, catturati in un contesto di volatilità, la vita delle donne incinte, i neonati a rischio. Interventi di emergenza, UNFPA in situazioni umanitarie comprendono fornitura di strutture sanitarie in kit parto individuale, kit per l'igiene, attrezzature, farmaci e forniture necessari per fornire assistenza clinica durante il parto e cure ostetriche di emergenza.

Fornito da l'UNFPA, per un totale di 165.000 Dollari risposta umanitaria è quello di ripristinare al più presto l'offerta di servizi dei più colpiti per la materna e neonatale cura e centri sanitari di base che qualità di pianificazione familiare e di connessione possono essere rapidamente disponibili. Questa risposta può fornire un'opportunità per le donne incinte a partorire a livello di comunità in condizioni igieniche minime e di entrare a servizi di pianificazione familiare per chi è nel bisogno. Infine, la risposta del UNFPA aiuta a ripristinare un po 'di dignità a quelle donne incinte che hanno perso tutto.


Ostetriche Mentoring: iniziativa promettente per ridurre la mortalità materna e neonatale
Nel mese di settembre si è verificato la convalida del primo mentoring guida e di orientamento per le ostetriche mentori. Questo sistema di mentoring giovani ostetriche è la prima in Sud Africa.
In Madagascar, troppe donne muoiono ancora per complicazioni di parto o di gravidanza Queste tragedie potrebbero essere evitate se tutte le donne sono assistite da personale sanitario qualificato tra cui una levatrice. Oggi sulla Big Island, solo il 44% delle donne riceve l'assistenza di un professionista della salute durante il parto e solo il 35% dei parti avviene in strutture sanitarie.
Per ridurre il numero di morti materne e neonatali, le ostetriche sono in prima linea. Essi garantiscono la sicurezza e il benessere della madre e del bambino prima, durante e dopo il parto. Pertanto, essi contribuiscono alla riduzione della mortalità materna e neonatale, migliorano la salute materna e contribuiscono in modo significativo al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio.
In Madagascar, le ostetriche sono spesso costrette a lavorare in condizioni difficili. Differenze socio-culturali, lontananza geografica, mancanza di personale, la mancanza di adeguata attrezzatura medica e le risorse finanziarie delle strutture sanitarie sono barriere per migliorare le proprie performance in cui il tasso più basso utilizzo delle strutture sanitarie che oscurano le competenze delle ostetriche, soprattutto le più giovani. Le numerose sfide che le giovani ostetriche, soprattutto quelle che lavorano in aree remote, l'Associazione Nazionale delle Ostetriche di Madagascar (ANSFM) con il sostegno di UNFPA e la Confederazione internazionale dei Saggi -Donne (CIM), in collaborazione con il Ministero della Salute ha messo a punto una strategia per migliorare la sopravvivenza della madre e del bambino attraverso l'implementazione del sistema di mentoring.
Così, per affrontare i vincoli che ostacolano l'efficacia delle giovani ostetriche, una guida per i mentori è stato sviluppato e validato, che mira ad aiutare i mentori per sostenere e guidare le giovani ostetriche nel rafforzamento delle loro competenze in modo che siano in grado di svolgere le loro funzioni correttamente e in modo efficiente.
Questo sistema di tutoraggio sarà inizialmente attuato in regioni Vato vavy Fitovinany Atsimo Atsinanana, Sofia, Anosy Atsimo Andrefana Androy, perché queste regioni hanno una elevata prevalenza di morbilità e mortalità materna.

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Lancio della campagna pubblicitaria per la lotta contro il Gender Based Violence: "Stop alla violenza contro le donne rompere il silenzio"


Violenza contro donne e ragazze è una delle più diffuse violazioni dei diritti umani. In tutte le società, di un grande o minore, le donne e le ragazze sono sottoposte a violenza fisica, sessuale e psicologica, e che qualunque sia il loro livello di reddito, classe e cultura. In alcuni paesi, fino a 7 donne su 10 sono picchiati, violentati, maltrattati o mutilati nella loro vita. 
Almeno un migliaio di giorni dalla scadenza per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, è importante impegnarsi per combattere questo flagello, che spezza ogni anno migliaia di vite. 
Inaugurazione dei pannelli giganti 12 aprile 2013 
La violenza impedisce alle donne di partecipare pienamente allo sviluppo della loro comunità e ostacola il raggiungimento di tutti gli obiettivi di sviluppo del Millennio. Ogni anno, costa miliardi di dollari per gli stati in forma di costi sanitari aggiuntivi e perdita di produttività.
Una violenza Madagascar contro le donne è generalmente visto come una "questione privata" e vergognoso, prevenendo i sopravvissuti alla violenza di osare parlare, denunciare e portare il caso in tribunale. Il Ministero della Popolazione e degli affari sociali e il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) sono progettate per focalizzare l'attenzione sulla violenza contro le donne e le ragazze in Madagascar e le azioni dei trigger per fermare questo fenomeno. Entrambi i partner hanno lanciato oggi una campagna nazionale di affissioni per la lotta contro il Gender Based Violence.
"È necessaria la partecipazione di tutti e desiderata, vittime o testimoni di un caso di violenza, andare in ufficio Fokontany CSBII, polizia, gendarmeria e Centro Ascolto e Consulenza Legale per avere il sostegno, consigli e soluzioni. Distribuire i nostri sforzi per rendere il controllo dell'attuazione delle leggi, stanno mostrando il supporto e la disponibilità. Facciamo appello alle persone di partecipare alla realizzazione dei diritti delle donne e promuovere la parità di genere ", ha detto il ministro della Popolazione e delle Politiche Sociali signora Olga Ramaroson nel suo discorso.
La campagna di un mese si svolge in otto città tra cui Antananarivo Madagascar, Mahajanga, Toliara, Antsohihy Antsirabe, Fianarantsoa, ​​e Toamasina Diego. Per rompere il silenzio sulla violenza contro le donne e incoraggiare i sopravvissuti a venire ad un ascolto o un centro di clinica legale per informazioni e / o utilizzando questa campagna mira.


"Abbiamo il dovere di rispondere alle aspettative delle donne. Violenza contro donne e ragazze è inaccettabile e intollerabile. Dobbiamo lottare con tutte le nostre forze. Abbiamo bisogno di sostenere e aiutare queste donne vittime di abusi, disprezzati e ha minacciato di rompere il silenzio, e fuori di questa situazione sordido ", ha detto l'UNFPA rappresentante in Madagascar Agathe Lawson. Invita inoltre tutti gli uomini sensibili ai diritti umani più basilari ad unirsi a questa nobile causa in quanto è insieme che faremo sconfiggere questo flagello. In questa battaglia il ruolo di leader comunitari e religiosi è essenziale.
Il modo più efficace per porre fine alla violenza contro le donne e le ragazze è la dimostrazione di una chiara e forte da tutti gli stati si realizza attraverso azioni e l'impegno politico delle risorse. Già nel 1994, in occasione della Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo (CIPS) svoltasi al Cairo, il mondo, tra cui il Madagascar si impegnano ad attuare un piano d'azione in 20 anni, tra cui ridurre la discriminazione e la violenza contro le donne. Un progresso Madagascar è stato notato nella cura dei sopravvissuti, ma sono necessari ulteriori sforzi per prevenire atti di violenza. Nel settembre 2014 il mondo sarà ancora una volta si incontrano e Madagascar dovrà riferire sui suoi risultati e gli impegni. Nel 2011, il Madagascar ha lanciato la campagna "Uniti, tutti uniti per porre fine alla violenza contro le donne", il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moonen collaborazione con il sistema delle Nazioni Unite (UNS). Attualmente, il governo ei suoi partner, tra cui il sistema delle Nazioni Unite sta conducendo un sondaggio nazionale sul controllo di Sviluppo del Millennio in 19.000 nuclei familiari. Per la prima volta, l'indagine raccoglierà dati sul Gender Based Violence. Questo sarà meglio indirizzare gli sforzi per eliminare la violenza contro le donne e le ragazze in Madagascar.
Insieme, dobbiamo lavorare per prevenire ed eliminare la violenza contro le donne e le ragazze!               
UNFPA Madagascar - BP. 1348 Antananarivo, Madagascar
http://madagascar.unfpa
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Buone notizie: l'anatra più rara del mondo è salva


Il moriglione del Madagascar in ripresa grazie ad un progetto di allevamento in cattività
Dopo un avvistamento nel 1991, il moriglione del Madagascar (Aythya innotata) sembrava fosse scomparso per sempre, ma alla fine del 2006 una spedizione dei biologi del  The peregrine fund scoprì 22 esemplari di questo uccello, ormai ritenuto estinto, che vivevano nel lago Matsaborimena nel nord del Madagascar. Lo staff della Durrell del Madagascar e Jersey fu invitato a fare una rapida valutazione della piccola popolazione e ad  identificare immediatamente cosa poteva metterla in pericolo. 
I moriglioni del Madagascar sono uccelli tuffatori che si nutrono di piante acquatiche, semi ed invertebrati in acque poco profonde. Queste anatre di medie dimensioni possono rimanere sott'acqua per un massimo di due minuti. I moriglioni del Madagascar hanno abitudini sedentarie e vivono in coppia. Il loro periodo di riproduzione va da settembre a gennaio e la femmina deposita 6 uova. La piccola colonia superstite, a differenza delle popolazioni precedentemente note, che frequentavano zone paludose e laghi densamente vegetati, è stata trovata in un lago di origine vulcanica in un territorio ricco di foreste. Anche se questo ha fatto sperare che la specie possa essere presente in altri siti, le intense ricerche sul territorio non hanno finora trovato altre popolazioni.
In passato, il moriglione del Madagascar era stato "scoperto" trovato nel bacino del lago Alaotra, dove l'associazione ambientalista Durrell ha un programma di salvaguardia basato sul protagonismo della  comunità locale, che però si concentra soprattutto sul L'apalemure (o lemure del bambù) del lago Alotra (Hapalemur alaotrensis), endemico di questa zona che è un importante centro di coltivazione del riso e il lago, i suoi canneti e la fauna selvatica che ci vive hanno sofferto molto per gli incendi, e la caccia. Il moriglione, come molte altre specie di uccelli acquatici, non è stato in grado di competere con i pesci introdotti dall'uomo nell'Alaotra e altre zone umide idonee alla sua nidificazione. La piccola popolazione superstite scoperta nel 2006 vive molto più a nord, in  un lago dove il disturbo antropico è molto minore, che non è adatto alla coltivazione del riso e dove non sono stati introdotti pesci.
Eppure negli anni '30 il moriglione del Madagascar era considerato un uccello abbastanza comune nel  lago Alaotra, anche se il suo areale già allora sembrava abbastanza ristretto. Oggi però si pensa che queste rare anatre un tempo vivessero nei laghi d'acqua dolce poco profondi e nelle paludi aperte, vicino alla fitta vegetazione, in tutta la pianura centrale del Madagascar. Gli scienziati pensano che la colonizzazione umana del Madagascar, che ha portato alla perdita di vaste zone umide, sia stata la causa della contrazione iniziale dell'areale dell'Aythya innotata e del calo del loro numero. Ma il rapido declino finale, che aveva portato all'estinzione presunta, è stato attribuito alla conversione a fini agricoli  dei terreni  circostanti il lago  Alaotra, alla deforestazione ed all'inquinamento, ma anche all'interramento delle zone umide ed alla combustione della vegetazione acquatica. Anche l'introduzione di specie alloctone, così come un maggiore uso delle reti da pesca in queste zone umide, avrebbero contribuito al declino dell'anatra.
Nel 2009 gli ultimi moriglioni del Madagascar erano solo 20 e Durrell, Wildfowl and wetlands trust (Wwt), The peregrine fund, Asity Madagascar e il governo del Madagascar avviarono un'operazione d'emergenza per salvare la specie dall'estinzione. Vennero raccolte tre covate di uova dai nidi dei moriglioni selvatici e da queste sono nati 23 anatroccoli che sono stati allevati. Questi uccelli ora costituiscono la base di un progetto di allevamento in cattività in Madagascar, con l'obiettivo di far tornare un giorno questa rarissima anatra in altre aree del Madagascar.
Nel 2010 il progetto ha ricevuto significativi finanziamenti dalla Darwin Initiative britannica che sono serviti a proseguire il progetto per tre anni. E' stato un grande ed inaspettato successo: nei giorni scorsi le Ong coinvolte e il governo di Antananarivo hanno annunciato che la popolazione di moriglioni del Madagascar, sia in cattività che selvatica, si è quasi quadruplicata.
Peter Cranswick, cao del settore species recovery del Wwt, spiega perché le uova sono state spostate in centri di riproduzione in cattività: «Sebbene il lago Matsaborimena sia l'ultimo nascondiglio per le anatre, è tutt'altro che ideale come habitat. Le nostre prime indagini suggeriscono che ci sia troppo poco cibo, e questo può aver portato alla bassa sopravvivenza degli anatroccoli. In effetti, stavano morendo di fame. Oltre a questi fattori, i programmi di riproduzione in cattività sono probabilmente in grado di evitare l'esposizione a devastanti focolai di malattie e gli effetti nocivi che l'inquinamento può avere sulla popolazione, prendere la decisione di tenere gli animali in condizioni più sicure è stato di fondamentale importanza per la loro sopravvivenza. Allo stato selvatico persiste ancora una piccola popolazione».  
Dall''inizio del programma di allevamento nel 2009, la popolazione mondiale del moriglione del Madagascar si è arricchita grazie all'allevamento dei primi 38 anatroccoli e ad oggi  ammonta a circa 80 individui. Con l'avvicinarsi della seconda stagione riproduttiva, è aumentato il numero dei recinti nel centro di  allevamento nelle zone rurali del Madagascar dove lo staff del progetto fa accoppiare i moriglioni e ne ricava preziose informazioni genetiche per il successo a lungo termine del programma. Se  l'allevamento in cattività continuerà ad avere successo, le generazioni future degli anatroccoli allevati in cattività saranno reintrodotte in natura, in habitat più sicuri.
Cranswick conclude: «I 58 moriglioni del Madagascar del centro di riproduzione in cattività forniscono una rete di sicurezza per la popolazione, se la piccola popolazione selvatica dovesse estinguersi. Sono in corso ricerche dettagliate in Madagascar per determinare le esigenze essenziali della specie e per individuare possibili siti per reintroduzioni future».
Fonte: Greenreport
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In Africa 25 specie di scimmie e primati rischiano l'estinzione

I primati del Madagascar che si ibernano come gli orsi e i pipistrelli


I sorprendenti “poteri” dei lemuri che potrebbero essere utili anche per gli esseri umani

La natura è davvero sorprendente, e lo è ancora di più in Madagascar: un'isola che sembra emergere da un oceano di un tempo diverso. Nature Scientific Reports pubblica il rapporto  "Underground hibernation in a primate", nel quale i ricercatori delle università di  Durham (Usa), Amburgo (Gern mania) e del Department of biological anthropology and paleontology dell'università di Antananarivo (Madagascar) rivelano il singolare letargo, o meglio l'ibernazione, di un lemure, quindi di un primate e nostro non troppo lontano parente. L'ibernazione è nota in alcuni mammiferi come gli orsi e i pipistrelli, ma ora sappiamo che la attuano anche i lemuri. Già dal 2005, gli scienziati sapevano che il  chirogaleo medio o chirogaleo dalla coda grassa (Cheirogaleus medius) ibernava, ma a quanto pare questo tipo di letargo "estremo" è molto più diffuso tra i lemuri di quanto si pensasse. Almeno due specie, il chirogaleo di Crossley o chirogaleo dalle orecchie pelose (Cheirogaleus crossleyi)  e il chirogaleo di Sibree (Cheirogaleus sibreei) - sono stati scoperti in un profondo letargo. Finora lemuri, che vivono solo  in Madagascar, sono gli unici primati per i quali è nota l'ibernazione, e questo solleva numerose domande. Anne Yoder, direttrice del Duke Lemur Center, spiega che «Per un osservatore casuale, e per tutti ad un primo sguardo, gli animali sono morti. I loro corpi sono freddi, sono del tutto immobili e prendono un respiro solo una volta ogni diversi minuti o giù di lì». La scoperta che il chirogaleo dalla coda grassa ibernava aveva sorpreso tutti i biologi per diversi motivi: non solo era l'unico primate allora conosciuto che va in letargo, ma era anche l'unico mammifero tropicale. Ma allora perché i lemuri si ibernano se non devono sfuggire all'inverno come fanno orsi e pipistrelli? Probabilmente per lo stesso motivo, anche se il clima del Madagascar è mite: per evitare i periodi con scarsità di cibo. Invece che durante l'inverno, i lemuri ibernano fino a 7 mesi di fila durante la stagione calda e secca, quando il cibo e l'acqua sono quasi impossibili da trovare. È interessante notare che la temperatura corporea dei Cheirogaleus medius fluttua molto durante il letargo, a seconda dell'isolamento delle cavità degli alberi che utilizzano. Ma il Cheirogaleus crossleyi e il Cheirogaleus sibreei hanno un letargo più tradizionale, visto che vivono in  foreste d'alta quota molto più fredde, dove le temperature occasionalmente scendono molto,  queste due specie lemuri scavano una tana nel terreno della foresta pluviale. «Come nella maggior parte degli altri ibernati, le loro temperatura corporee scendono e si stabilizzano, mentre la loro frequenza cardiaca rallenta» spiegano i ricercatori che hanno utilizzato radiocollari per misurano temperature e monitorare i piccoli lemuri durante l'ibernazione. Marina Blanco, anche lei una ricercatrice del Duke Lemur Center, dice che «Forse questi lemuri, anche se vivono nei tropici, sono più simili agli ibernatori dei climi temperati di quanto pensiamo. Tra gli scienziati l'ibernazione rimane ancora un argomento sconcertante, con molti misteri. Cosa sia esattamente che fa scattare l'ibernazione è ancora una questione aperta». Gli scienziati hanno anche scoperto che varie specie di "lemuri topo" entrano in uno stato di torpore simile all'ibernazione. Ci sono oltre un centinaio di specie di lemuri, la maggior parte delle quali sono state scoperte agli anni '90 in poi, probabilmente gli scienziati stanno solo iniziando a scoprire i tanti segreti di questi primati che potrebbero rivelarsi utili (si pensi solo ai viaggi spaziali di lunga durata, ma anche ad alcune malattie) per capire meglio anche ai loro lontani parenti: gli esseri umani su distinte.
Fonte greenreport
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Compagna cercasi per orribile pesce a rischio estinzione


Il Ptychochromis Mangarahara potrebbe presto sparire senza lasciare eredi: negli acquari d'Europa esistono solo tre maschi, serve subito una giovane partner.

I maschi di Ptychochromis Mangarahara si distinguono dalle femmine per la taglia (sono più grandi di una mano adulta) e per le pinne fluttuanti. Photo credit: Zoological Society of London (ZSL).
Questo brutto ceffo sta cercando moglie. E con una certa urgenza: il pesce, un ciclide della specie Ptychochromis Mangarahara ospite dello Zoo di Londra, è uno degli ultimi tre maschi della sua razza tenuti in cattività, e se non genererà presto una prole potrebbe condannare la sua specie all'estinzione.

Il Ptychochromis Mangarahara prende il nome dal suo habitat naturale, un fiume del Madagascar (chiamato, appunto, Mangarahara) prosciugato dalla costruzione di alcune dighe. In questo corso d'acqua dolce il pesce è ormai considerato estinto. L'ultima speranza prima della sua completa sparizione è farlo riprodurre in cattività, ma per questo occorre l'altra metà della mela.

Un rapporto "a rischio"
Esistono due maschi di questa specie allo Zoo di Londra e uno in quello di Berlino. Qui era conservata, un tempo, anche una femmina, ma il tentativo di farla accoppiare con il compagno è finito in tragedia, con la poveretta che ci ha rimesso la pelle. A differenza dei maschi di altre specie, questi mostrano una particolare attenzione per le uova e gli avannotti, caratteristica che li porta ad essere spesso in competizione con le femmine.

Ora è necessario trovare un'altra volontaria disposta a provarci, e in fretta, perché due dei tre maschi hanno già 12 anni. I responsabili dello zoo escludono che esistano femmine della specie in altri istituti, mentre potrebbe averle in casa qualche privato: si tratta più che altro di un animale cercato da esperti e appassionati di ittiologia. Chi dovesse averne una in casa e fosse disposto a prestarla per amore della scienza può scrivere a fishappeal@zsl.org; se l'avete nell'acquario dovreste riconoscerla, non è esattamente uno schianto.
Fonte: Focus.it
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