martedì 13 maggio 2014

Assalto alla terra



Appunti e riflessioni, tra Italia e Madagascar

Che cosa spinge un’impresa italiana a volare in Madagascar, dove nel 2008 si è consumato un sanguinoso colpo di Stato causato dall’indignazione suscitata dal furto legalizzato di terre agricole da parte di imprese straniere, per mettere in piedi proprio un progetto agricolo?

Pianta di Jatrofa
Testimonianze dai territori
Il Biomass Biofuel Ihorambe è un progetto della Tozzi Green che prevede di realizzare entro il 2019 piantagioni di jatropha su 100.000 ha di territorio Ihorombe è una delle 22 regioni in cui è suddiviso il territorio del Madagascar. Situata nella parte meridionale del Paese, è una delle meno densamente popolate, solo sei abitanti per chilometro quadrato. Attraversandola in automobile si costeggiano colline rocciose con rigogliosi campi di riso alle pendici e sconfinate piane erbose dove centinaia di zebù, le tipiche vacche malgasce, brucano indisturbate. Questa immensa distesa di terra fertile deve aver colpito anche l’attenzione dei dirigenti della Tozzi Green, sussidiaria del comparto rinnovabili dell’italiana Tozzi Holding Group, che proprio a Ihorombe ha deciso di realizzare il Biomass Biofuel Ihorombe(BBI). Un progetto sulla carta molto ambizioso che, entro il 2019, prevedrebbe la realizzazione di piantagioni di jatropha per produrre agro-combustibili su 100mila ettari di territorio.
Quello che non è chiaro è se la jatropha sia destinata all’esportazione o al consumo locale, dato che le informazioni pubblicate dalla società appaiono contraddittorie. Sulla stampa locale la Tozzi ha dichiarato di essere intenzionata a valorizzare, trasformare e vendere tutta la produzione energetica sul mercato malgascio. Tuttavia, già nell’agosto del 2009, il responsabile del settore biomasse della Tozzi Energie Rinnovabili segnalava come la società avesse avviato diversi progetti per la costruzione di centrali a biomasse sia solide che liquide, soprattutto nell’Italia del Sud, che avrebbero reso necessaria una strategia di internalizzazione e di approvvigionamento del biocarburante per far fronte alle crescenti oscillazioni di prezzo dello stesso. “Già dal 2007, l’internazionalizzazione delle fonti di approvvigionamento degli agro-combustibili è diventata una priorità strategica, soprattutto per poter affrontare le oscillazioni dei prezzi. Si pensi che nel 2008 i costi dell’olio da palma hanno raggiunto un aumento del 300 per cento. In queste condizioni di estrema incertezza, diventa difficile valutare il livello di profitto dei vari progetti e di conseguenza negoziare i fondi con le banche”.
Ma al di là della mancanza di chiarezza sulle intenzioni della Tozzi, i suoi rappresentanti hanno iniziato ad approcciare le comunità locali nel Distretto di Ihosy, nella Regione di Ihorombe, già nel 2009. Chiedendo informazioni sulla terra.
Il 17 agosto del 2012, la Tozzi Green ha siglato un contratto di affitto di 6.558 ettari di terra nelle comunità rurali di Satrokala e Andiolava direttamente con il governo centrale del Madagascar. Come specificano i documenti visionati da Re:Common durante la missione sul campo, la validità dell’accordo è di 30 anni e il vantaggioso prezzo per ettaro di circa 10 euro l’anno.
Secondo la normativa malgascia, prima dell’apposizione delle firme ci dovrebbe essere un processo lungo e complesso, in teoria teso a garantire gli interessi delle popolazioni locali, come ci è stato confermato personalmente dal direttore del dipartimento per la gestione del territorio dello stesso Ministero dello Sviluppo. L’alto dirigente ci ha parlato di “processo trasparente”, “presenza di tutte le parti in causa”, “responsabilità specifiche delle municipalità nel fornire le informazioni necessarie” e infine di “un’intesa tra le comunità e il sindaco che sia tesa a non lasciare sul campo alcun tipo di conflitto”.


Dal contatto diretto con contadini e allevatori della zona, abbiamo però avuto l’impressione che questa armonia non regni affatto sovrana tra le parti in causa.
A questo proposito è necessario fare un passo indietro e provare a fare chiarezza su un punto, invero a dir poco complesso: quello dei diritti di proprietà e dei diritti consuetudinari sulla terra, materia alquanto spinosa anche in molti altri contesti africani. Dal 2005, in Madagascar è stato avviato un processo di riforma della legislazione fondiaria che ha prodotto una normativa a maglie larghe. Questa, pur riconoscendo alle comunità il diritto consuetudinario sulle terre, lascia ampio margine di movimento allo Stato e agli investitori stranieri, che spesso finiscono per intervenire su terreni occupati da contadini e pastori, i quali rivendicano il loro diritto di usufrutto su quelle terre perché lì hanno sempre vissuto
le loro etnie.
Nel caso del progetto della Tozzi, l’etnia si chiama Bara e al centro della sua esistenza c’è la pastorizia. Purtroppo, secondo lo Stato, le terre dedicate al pascolo non generano un reddito per lo Stato stesso, e allora è meglio affittarle a qualcuno che rimpingui le casse pubbliche. Preferibilmente un investitore  straniero.
La vaghezza legislativa, secondo alcuni non affatto casuale, ha lasciato centinaia di contadini ed allevatori della zona sostanzialmente senza strumenti legali solidi a cui appellarsi per difendere il loro diritto all’auto-sostentamento. Come ci hanno loro stessi confermato.
Quello attraverso la regione di Ihorombe è stato un viaggio lungo e complesso. Spostamenti su centinaia di chilometri di strade sterrate per incontrare anche le più remote comunità. Proprio gli abitanti del posto ci hanno disegnato a mano una mappa da cui abbiamo potuto dedurre che, delle diciassette municipalità che compongono il territorio del distretto di Ihosy, all’interno della regione di Ihorombe, tre sono state quelle approcciate dalla Tozzi: Satrokala, Andiolava e Ambatolahy. Nelle prime due la compagnia era presente già nel 2010. Abbiamo incontrato
esponenti dell’etnia Bara di undici villaggi della zona, quasi tutti allevatori di zebù, l’elemento cardine della cultura e dell’economia del posto.
È uno dei sindaci incontrati a parlare per primo:
«Dipendiamo totalmente dagli zebù, sono la nostra banca. Se ci servono dei soldi perché dobbiamo andare in ospedale, vendiamo uno zebù. Quando dobbiamo coltivare la terra ci serviamo degli zebù per ammorbidirla. Dagli zebù derivano alcuni medicamenti. Senza l’uccisione e la condivisione della carne con la comunità, da noi non si possono tenere né matrimoni né funerali».
La ricchezza da queste parti si misura nel numero di capi posseduti e, d’altronde, come ci spiega un dirigente della Camera dell’Agricoltura di Ihosy, «non è azzardato dire che il 70 per cento del flusso di denaro nella regione dipenda dagli zebù».
In questo spicchio di Madagascar, invece, la jatropha è molto meno conosciuta. O meglio, se ne conoscono le conseguenze negative. Nel villaggio di Ambararatabe, nella municipalità di Satrokala, le persone che incontriamo non usano mezzi termini per maledire le piantagioni di jatropha spuntate qua e là. «Non possiamo più accettare questa situazione, non ci permette di vivere, perché impedisce ai nostri zebù di recarsi al pascolo, chiuso dalle terre coltivate da loro (la Tozzi, ndr). Anche il corso d’acqua, che avrebbe dovuto irrigare i nostri campi di riso, è stato deviato e non arriva più a destinazione. Il tutto per coltivare jatropha, che non sappiamo nemmeno che cosa sia», ci racconta un abitante del villaggio.
«Dalla coltivazione della jatropha non deriva alcun beneficio per noi. Non hanno creato nemmeno posti di lavoro. Io ho lavorato per un giorno e mi hanno dato 5mila ariary (circa 1,5 euro). È un salario troppo misero, un mese di paga non ci permetterebbe nemmeno di comprare uno zebù, tant’è che parecchi di noi si sono rifiutati di lavorare per loro. Ci offrono questa opportunità solo per ‘ammorbidirci’ e usare le terre che coltiviamo o che servono per il pascolo dei nostri animali. Tanto poi, come nel mio caso, se le prendono lo stesso e ci piantano i semi della jatropha mentre i nostri zebù non trovano più cibo. Non si può andare avanti così».
Lo scenario che ci troviamo davanti quando raggiungiamo la prima piantagione di jatropha non è certo confortante. Le piantine sono sparse su un’area molto vasta. Troppo vasta per permettere agli zebù di muoversi come facevano prima. Anche perché se un capo calpesta una pianta la multa, secondo quanto ci raccontano, sarebbe salata, salatissima per queste latitudini: 40mila ariary (12 euro). In realtà c’è anche chi parla di 80mila o addirittura della cessione diretta alla compagnia di uno zebù. Il dato di fatto è che tutti gli allevatori che incontriamo ci ribadiscono che ora hanno timore di attraversare questi terreni con il loro bestiame.
Ma è quando raggiungiamo Satrokola che ci rendiamo conto della reale estensione delle coltivazioni della Tozzi. Chilometri e chilometri quadrati di terra, dove alcune piantine hanno dimensioni più considerevoli e in alcuni casi arrivano a un metro. Dai rametti pendono anche dei piccoli frutti. Satrokola è un tipico comune malgascio, popolato da 10mila persone. Qui c’è il “Tozzi Green Village”, come lo chiamano i locali. Un gruppo di edifici moderni sorvegliati 24 ore su 24 da personale di sicurezza, dove vive lo staff dell’impresa italiana e con una zona dedicata al deposito di materiali e macchinari agricoli.
«È quattro anni che la Tozzi si trova qui, con l’obiettivo di coltivare jatropha. Lo può fare grazie a un’ordinanza del sindaco, che però è arrivata senza il consenso di tante persone.
Anche io sono contrario, però so che c’è poco da fare. Un abitante del villaggio di Sakalahy è stato intimidito e ‘convinto’ a desistere dopo che si era rivolto alle autorità. L’opposizione è più forte nelle campagne, perché lì ci sono quelli che coltivano la terra o la usano per il pascolo. Qui nel villaggio c’è anche chi lavora per la Tozzi – pare siano circa 200 persone, ndr – e ovviamente non ha nulla contro la jatropha. Ma in campagna il malcontento è totale. La gente vede gli zebù che perdono peso perché il cibo scarseggia, a volte per trovare dei pascoli adatti i pastori devono allungare il loro cammino anche di 20 chilometri».
Le decine di testimonianze che raccogliamo attraversando le zone rurali sono pressoché univoche. Più procediamo, e più emergono elementi che compongono un quadro di disagio e scontento diffuso. Uno dei temi più scottanti è quello del centro medico destinato alla popolazione locale. Ci viene detto che inizialmente sembrava vi potessero accedere gratuitamente solo coloro che avevano ceduto le terre alla compagnia. Poi il servizio sarebbe diventato a pagamento, a detta della gente del posto. A Satrakola incontriamo il medico responsabile del centro medico, che ci conferma, invece, che tutte le attività, i materiali e i salari dei dipendenti sono a carico della compagnia.
Il servizio è gratuito, si paga solo una piccola cifra per le medicine”, ci dice.
Una ulteriore nota dolente è la chiusura del mercato del bestiame del villaggio. «Colpa delle piantagioni di Jatropha», denunciano tutti i pastori con cui scambiamo due parole. Troppo difficile, infatti, attraversare i campi, per il solito problema delle multe. Il nuovo mercato di Ihosy, più lontano e comunque difficile da raggiungere, ha comportato un netto aumento del costo dei capi di bestiame e della carne, con ripercussioni serie anche nella capitale, a centinaia di chilometri di distanza. L’economia della zona traballa sotto al peso di un po’ di piantine sconosciute ai più, ci viene da pensare.
Ma c’è pure chi pensa che le piantine siano solo una scusa. A Satrokala ci parlano di voci che vorrebbero la Tozzi interessata a quello che c’è nel sottosuolo, non a quello da far crescere in superficie. Sul web e tra gli ex dipendenti c’è chi crede che all’azienda le terre servano come garanzia collaterale per ottenere un cospicuo finanziamento da un banca del Sud Africa proprio per portare avanti altri piani industriali. In particolare un ex membro dello staff locale si dice sicuro che i piani siano altri, tanto che cinque milioni di piantine di jatropha sarebbero state “buttate via” nei primi mesi del 2013.


Il caso di Ambatolahy
Poi c’è la storia della municipalità di Ambatolahy, 15 villaggi sparsi su un’area di 1.600 chilometri quadrati. Il sindaco della municipalità, previa consultazione con la popolazione locale, è stato l’unico a negare espressamente l’autorizzazione all’acquisizione delle terre da parte dell’impresa italiana. Come ci ha raccontato lui stesso “la prima richiesta di poter coltivare la jatropha nel nostro territorio ci è stata inoltrata da due vazaha (uomini bianchi, ndr) nel 2009. Io mi sono rifiutato, perché c’erano già dei precedenti negativi, tanto che il mio predecessore, che aveva dato il nulla osta ad una compagnia indiana chiamata Landmark, era stato mandato via per questa ragione. Qui la terra serve per il pascolo degli animali e la decisione di darla in grande quantità a compagnie straniere viene accolta molto male dalla popolazione locale”. Visto il pessimo precedente con la Landmark, da queste parti ci sono andati molto cauti prima di cedere anche un ettaro. Nel novembre del 2012, le comunità locali hanno preso carta e penna e hanno scritto alle autorità competenti, incluso il Primo Ministro, per manifestare la totale contrarietà dell’intera municipalità al progetto della Tozzi. La missiva è stata sottoscritta dal sindaco e da altri esponenti della municipalità. Ciò nonostante, denunciano in quest’area, l’impresa è andata avanti con le sue attività, anche a dispetto del fatto che la municipalità di Ambatolahy non è compresa nell’intesa siglata dalla Tozzi e il governo malgascio. “Ci sono cinque villaggi di questa Municipalità ormai interessati dalle coltivazioni. In particolare a Ivaro West, nello spazio di una notte si sono trovati i terreni occupati” narra il sindaco. In effetti quanto successo a Ivaro West ci viene confermato durante gli incontri che teniamo in quel villaggio.
Passando per l’area, abbiamo l’impressione che sia molto vasta, che forse potrebbe bastare per le esigenze di tutti. Ma gli allevatori di Ivaro West ci spiegano che non è così: 100 capi di zebù necessitano di almeno una decina di ettari al giorno per pascolare, e non possono tornare sullo stesso terreno per almeno dieci giorni per permettere all’erba di rigenerarsi. E ogni nucleo familiare possiede in media 200 zebù!
Gli abitanti di Ivaro West ci mostrano anche una prima lettera, redatta nel settembre del 2012, indirizzata al sindaco e in cui si afferma l’intenzione di negare ogni forma di accesso alla Tozzi.
Durante l’intervista con il sindaco, condotta alcuni mesi più tardi la ricezione e sottoscrizione della lettera, di fronte alle evidenze che la compagnia ha cominciato ad operare anche sul terreno relativo alla sua Municipalità, il sindaco è apparso sconfortato: “avevo ottenuto un ordine da Antananarivo (la capitale del Paese – ndr) per sospendere qualunque estensione del progetto. Ma, nonostante quest’ordine sia stato comunicato alla compagnia, mi ha sorpreso che siano comunque riusciti a entrare nel nostro territorio. Non so dove vogliono arrivare, non capisco. Penso che dovrebbero fermarsi.” “La jatropha a noi non serve. I frutti non sono commestibili, il legno che deriva dalle sue piante non è buono nemmeno per farci una bara, come diciamo da queste parti, e poi francamente non capiamo se l’obiettivo reale è quello di coltivare oppure semplicemente di occupare le terre” chiosa il sindaco, certo che i suoi omologhi di altre municipalità abbiano fornito l’assenso al progetto perché in passato non avevano vissuto gli effetti nefasti legati alla decisione di concedere l’utilizzo delle terre agli stranieri.

Concludendo…
In breve, ciò che abbiamo nettamente percepito grazie alla nostra visita a Ihorombe, è che il progetto che la Tozzi sta attuando nella zona sta concretamente impedendo a pastori e contadini locali di accedere alla terra e alle risorse ad essa collegate; inibisce la produzione locale per il consumo locale, tentando di trasformare un tradizionale sistema sociale
ed economico autosufficiente in un sistema di produzione di energia su larga scala, radicalmente estraneo al contesto; pretende di compensare
la perdita di terreno con la creazione di alcuni posti di lavoro, a condizioni tutte da verificare, rendendo sempre più remota la prospettiva di un più equo sistema di gestione della terra, che prenda seriamente in considerazione i diritti consuetudinari e i diritti d’uso
delle comunità locali.
Ma se della jatropha gli allevatori malgasci non sanno cosa farsene, forse non vale lo stesso discorso per il Gruppo Tozzi che in Italia sta cercando di ritagliarsi una fetta di mercato nel lucroso business della produzione di energia elettrica da cosiddette fonti rinnovabili.
Come visto in apertura, nell’agosto del 2009, il capo del settore per lo sviluppo delle biomasse della Tozzi Renewable Energy, aveva spiegato chiaramente che la necessità di internalizzare la produzione di materia prima per agrocombustibili era diventata strategica per l’azienda, che stava avviando diversi progetti per la costruzione di impianti per
biomasse solide e liquide nel Sud Italia.
Ma alcuni anni dopo, le evidenze dal campo stanno dimostrando che in Madagascar, come anche in altri contesti africani, i progetti di apparagro-combustibili della Tozzi non producono risultati di rilievo, ma solo impatti severi sulle popolazioni locali. In Madagascar, dove la
Tozzi si propone di coltivare 100mila ettari entro il 2019 e conta attualmente su 6.558 ettari, l’opposizione delle comunità è in crescita
e si sono diffuse voci di un “improvviso cambiamento nel business
plan della società”. Ex dipendenti della società ci hanno informato che il progetto di coltivazione della jatropha è stato abbandonato e che circa
cinque milioni di piantine di jatropha sono stati gettati via nei primi mesi del 2013.
Abbiamo quindi cominciato a domandarci se e come la normativa
italiana sulle energie rinnovabili stia giocando un ruolo decisivo
nel comportamento delle compagnie all’estero, ipotizzando che la loro linea di condotta sia trainata dal sistema di incentivi istituito
dal piano d’azione nazionale per le energie rinnovabili. È anche possibile che le recenti variazioni nei piani industriali delle società in diversi paesi africani nascano dall’aver appurato che la jatropha non è né economicamente né ambientalmente e socialmente sostenibile. Però non è da escludere che le aziende si stiano spostando dalla produzione
di agro-combustibili su larga scala in Africa alla filiera corta su base locale, come conseguenza dello sviluppo irregolare della legislazione
italiana.
Ma questa è un’altra storia.

Scritto da
Giulia Franchi  - Re:Common, Luca Manes - Re:Common, Comitato No Inceneritori Terni, Giuseppe Dimunno,
Blog 3 Santi all’Inferno
Fotografie
TerraProject, Giulia Franchi, Valeria Balzano,Comitato No Inceneritori Terni
Grafica
Carlo Dojmi di Delupis
Contatti
Re:Common info@recommon.org www.recommon.org Comitato No Inceneritori Terni www.noinceneritoriterni.
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Ho avuto uno scambio di corrispondenza con Fabio Tinti e l’ho incontrato personalmente quando è arrivato in Madagascar per constatare lo stato del progetto Jatrofa che era stato affidato ai Frati Minori Cappuccini.



una famiglia è tanto più ricca e potente quanti più zebù possiede e in molte tribù si stipulano ancora i matrimoni barattando la donna con l’animale

Secondo le stime Fao, l'acquisto (solo quello tracciato) di terreni su vasta scala, tra il 2002 e il 2011, ammonta nel mondo a 200 milioni di ettari, sette volte l’Italia.

Le monache coltivano un’alga per realizzare un integratore


“Gesù ha dato la vita per tutti,

 noi vogliamo seguire il suo esempio”.

Intervista a mons. Vella, vescovo in Madagascar

La recente visita ad limina dei vescovi del Madagascar, l’impegno di quella Chiesa in campo sociale, l’educazione dei giovani, la difesa della famiglia, il dialogo interreligioso, i problemi del clero, i santi malgasci, la visita di Giovanni Paolo II all’isola 25 anni fa. C’è tutto questo nella lunga intervista che monsignor Rosario Vella, vescovo salesiano di Ambanja, ha rilasciato a Korazym.

Eccellenza, in aprile ha avuto luogo la visita ad limina dei vescovi del Madagascar. Lei era alla sua prima esperienza, ci può raccontare come si è svolta, le impressioni che ne ha avuto e il ricordo che conserverà?
Per me è stato tutto nuovo e ha avuto la bellezza della novità. Mi ha tanto impressionato il contatto che il Papa ha voluto avere con il Madagascar, con ogni diocesi e ognuno di noi. Papa Francesco ci ha accolti in due gruppi differenti, perché i vescovi del Madagascar siamo 22. Ciascun gruppo si è intrattenuto per un’ora e mezza di conversazione, poi abbiamo celebrato insieme a lui nella cappella di Santa Marta. Abbiamo visto come i nostri problemi vengono sentiti dalla Chiesa e dal Papa e come questi siano gli stessi problemi che noi cerchiamo di vivere in Madagascar, per esempio la Chiesa missionaria, che deve arrivare a tutte le periferie, geografiche ed esistenziali. D’altra parte la nostra è una zona di prima evangelizzazione e dobbiamo fare tanto per essere Chiesa in uscita. Il Papa ce l’ha confermato con il suo entusiasmo e anche con le sue parole e il suo incoraggiamento.

Può svelarci qualche aneddoto, qualcosa che vi ha detto il Papa?
Noi avevamo parlato di tutti i nostri problemi e difficoltà, ma anche del nostro impegno ed entusiasmo. Il Papa ci ha detto più o meno queste parole: “Cari vescovi, io vi ammiro per quello che fate, vi incoraggio e prego per voi. Anzi, sento che devo pregare di più per voi. Io dico che la Chiesa dev’essere missionaria, deve uscire, deve fare tanto per i più bisognosi, però concretamente siete voi che lo fate, e quindi io devo pregare per voi. Vi prometto la mia preghiera”. Noi eravamo commossi per quello che il Papa ci diceva e a nome di tutti uno ha subito risposto: “Santità, noi siamo contenti di lei, di quello che sta facendo, ma anche noi preghiamo per lei e per tutta la Chiesa”.

Nel discorso che il Papa vi ha consegnato, si affrontano parecchi temi, a iniziare dall’invito alla prossimità con la popolazione, soprattutto mediante le opere sociali.
La Chiesa in Madagascar svolge da sempre un ruolo sociale molto importante: in ogni parrocchia ci sono una scuola, una Charitas che accoglie i più bisognosi e dei progetti a livello agricolo, sanitario… In campo di sanità e scuola è apprezzatissimo il lavoro delle congregazioni religiose: la gente manda i figli a scuola da noi perché si accorge che l’educazione impartita dalla Chiesa è adatta alla sua situazione. I risultati sono molto buoni, di gran lunga superiori a quelli delle statali. Ci sono poi gli ospedali e gli ambulatori statali, ma purtroppo non hanno le medicine, tutto è a pagamento e allora le persone si rivolgono alla Chiesa perché sanno che il malato verrà curato sia che ha i soldi, sia che non ha la possibilità di pagare la medicina o la visita. Quindi i nostri dispensari, ambulatori e piccoli ospedali sono sempre sovraffollati, soprattutto dai poveri.

Di qualsiasi fede…
Di qualsiasi fede, perché noi, anche nelle scuole, non facciamo alcuna distinzione di fede, di religione, di razza, di cultura, di provenienza… Tutto è aperto, d’altronde Gesù ha dato la sua vita per tutti e noi vogliamo seguire il suo esempio.

Torniamo al tema dell’educazione.
La Chiesa in Madagascar ha una sensibilità particolare per l’educazione. Vorrei parlare della mia diocesi, Ambanja. Quando sono arrivato nella regione, nel 2004, mi sono accorto che solo pochi accedevano alle scuole, per tanti motivi: povertà, ignoranza da parte dei genitori che non vedevano la necessità degli studi, mancanza di strutture. Ci siamo chiesti cosa potessimo fare per questi giovani. Abbiamo iniziato con le scuole elementari, rafforzando le opere esistenti e creandone di nuove, anche nei villaggi più dispersi, dove magari lo Stato non arrivava. In dieci anni abbiamo creato più di 35 piccole scuole e rafforzato le altre. Una volta che i bambini finivano la quinta elementare, c’era la richiesta di poter continuare. Abbiamo creato più di una decina di scuole medie in diversi centri, abbastanza popolati. E abbiamo realizzato anche dei licei nei posti strategici. Ma come fare per gli universitari? Con delle borse di studio abbiamo mandato alcuni ragazzi volenterosi e capaci in una università cattolica nella città di Antsirabe. Siamo arrivati a 600 borse di studio, con investimenti importanti, ma necessari per questi ragazzi, che però andavano lontano, affrontando tante spese, distanti dalla famiglia. Allora abbiamo creato, timidamente, una sede distaccata ad Antsohihy, città al centro di tante strade nelle varie direzioni, cominciando con due facoltà: giurisprudenza e agraria.

Perché?
Agraria perché è la vita della gente, al 90% agricoltori o allevatori. Giurisprudenza perché purtroppo in Madagascar c’è stata tanta corruzione, anche ai livelli più alti. Quindi vorremmo immettere nella giustizia delle persone formate con spirito cristiano, che si facciano promotori dei diritti della gente, dei più poveri e bisognosi. Speriamo poi di poter creare altre facoltà, come economia e commercio ed ecologia e turismo, anche perché nella nostra regione ci sono zone paesaggisticamente molto belle.

Altro tema, la difesa della famiglia.
In questo momento di crisi noi in Madagascar vediamo due impegni. Il primo è la formazione a tutti i livelli: scuola cattolica, gruppi di associazioni, parrocchie. Il secondo è la famiglia, perché la tradizione malgascia dà molto peso alla grande famiglia, nella quale ci sono tanti valori: accoglienza della vita, solidarietà con tutti, reciproco rispetto, andare avanti insieme, affetto che parte dalla famiglia e arriva a tante persone. Questi valori sono insiti nel cuore del malgascio, ma purtroppo la crisi, la mondializzazione e altre forme di vita hanno generato uno schock con una cultura diversa e li stanno facendo crollare. Crolla così tanta parte della vita della gente e allora le famiglie si sfaldano, i ragazzi non ricevono un’educazione a casa loro, non c’è quel calore familiare. Noi insistiamo perché la famiglia riprenda i valori tradizionali, sani, che possa poi trasmettere agli altri.

Sfida in campo interreligioso, com’è la situazione?
In Madagascar hanno convissuto tante religioni: c’è la religione tradizionale animista, che è la più diffusa, ma è molto vicina allo spirito cristiano, perché si crede in un Dio creatore, che è buono e fa del bene e vuole che anche noi facciamo del bene, e bisogna vincere il male e gli spiriti che ci danneggiano. Tanti allora si convertono al cristianesimo, pur conservando, giustamente, le loro tradizioni ancestrali. V’è un’affinità buona. Oltre le tre principali religioni cristiane (cattolica, protestante, anglicana), ci sono la musulmana e sette varie, ma finora c’è stata una convivenza pacifica. Ciascuno è autonomo, senza molti contatti. Ultimamente si sta però cercando di costruire un dialogo tra tutte le religioni e le tradizioni religiose, in particolare con l’islam, finora minoritario, ma che sta facendo molto proselitismo e in alcune regioni sta avanzando velocemente e per questo si impone un dialogo. Le relazioni sono buone, i musulmani vengono a scuola da noi.

Quali sono i problemi del clero malgascio? Il Papa invita al discernimento delle vocazioni, richiama alla castità e all’obbedienza, a un rapporto corretto con i beni temporali, a evitare la contro-testimonianza: “La vita deve essere coerente con la fede, affinché la testimonianza sia credibile” dice Francesco. Ci sono dei problemi particolari rispetto ad altre parti del mondo?
Sì, i temi sono questi, ma le vocazioni ci sono e ce ne sono di solide. C’è sempre il problema che tanti non diventano sacerdoti per vocazione, per seguire Gesù, quanto invece per elevarsi di rango sociale. In questo senso è importantissimo il discernimento e far presenti le esigenze del sacerdote, che deve essere distaccato dai beni terreni, anche dalla famiglia, per servire il popolo di Dio, per seguire i bisogni della gente. Poi il celibato, da sentire come un dono per ognuno che lo riceve, ma anche come un dono da trasmettere e non come un peso. Cosa significa? Avere una grande disponibilità per il regno di Dio; non avere il cuore legato a qualche cosa anche di bello, come può essere la famiglia, ma donarlo al Signore e alla gente. Poi l’obbedienza, che vuol dire una grande libertà interiore, pronti a fare la volontà di Dio dove il Signore chiama. Queste sono le esigenze di un prete e il Papa ci esorta a insistere su questo nei seminari, perché bisogna far conoscere ai giovani quella che un giorno sarà la loro vita. Quando le vocazioni sono tante, c’è sempre qualche imprevisto, o la debolezza umana, a cui bisogna far fronte.

Qualche impressione sugli incontri con i capi Dicastero della Curia vaticana?
Li abbiamo incontrati quasi tutti, suddividendoci in base agli incarichi ricoperti da ciascuno di noi in seno alla Conferenza episcopale. Molto bello l’incontro con il cardinale Amato, alle Cause dei Santi: abbiamo dei beati che auspichiamo possano divenire santi e volevamo presentare la loro vita. Vivace l’incontro con il prefetto di Propaganda Fide, il cardinale Filoni, che è il nostro diretto responsabile. Abbiamo presentato con tanta sincerità i nostri problemi, ma lui è al corrente di tutto.

Proprio nel giorno della canonizzazione di Giovanni Paolo II, è ricorso anche il 25° dalla sua visita in Madagascar. Qual è il ricordo di quell’evento?
È ancora molto vivo, soprattutto per le persone che vi hanno partecipato: tutto il Madagascar ha sentito di essere un solo popolo radunato dal Papa. Era Gesù, il vicario di Cristo in terra che è riuscito a radunare tutto un grande popolo: non c’erano tribù, differenze, provenienza, ma eravamo tutti insieme per la beatificazione di Victoire Rasoamanarivo, che ci ha voluto dare un esempio di virtù cristiane, ma anche di virtù malgasce, come la pazienza, l’affetto, l’impegno costante.

Che impulso ha dato al Paese, cosa è cambiato?
Penso che abbia cambiato tanto nella gente. Giovanni Paolo II si è rivolto ai giovani dicendo: “Non abbiate paura di essere santi, di affrontare la vostra vita, preparatevi bene al vostro futuro, perché la Chiesa ha bisogno di voi e voi siete la Chiesa viva”. Ha dato un grande entusiasmo. Come pure la beatificazione di Raffaele Rafiringa, nel 2009 con il cardinale Amato.

Don Angel Fernandez Artime è il decimo rettor maggiore dei salesiani. Un pensiero e un augurio da un confratello vescovo in Madagascar.
Sono stato molto contento della sua elezione, anche se non lo conoscevo, perché fin dal primo incontro ho sentito che rappresenta don Bosco per noi, per tutti i salesiani, pronto a dare la vita per i giovani, per i più abbandonati. Il mio augurio è che sia una presenza di don Bosco tra i giovani!

Per concludere, il motto che la sostiene nel suo ministero?
Fin dall’inizio del mio ministero ho scelto “Croce, unica speranza”. Il mondo ha bisogno di speranza, i giovani ne hanno bisogno, tutti dobbiamo vivere nella speranza. Ma per noi la speranza è una persona concreta, Gesù crocifisso, che ha dato la sua vita. Questa è la nostra unica speranza. In mezzo alle difficoltà della vita, noi, guardando alla croce, raggiungiamo la serenità e la gioia.
Fonte:ww.korazym.org
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«Conosco tutto il bene che la scuola cattolica fa ai giovani e alle loro famiglie


Il racconto di Lisa

Nosy Be: un continuo viavai di persone che camminano, dall’alba al tramonto. Scalzi.
La vita passa attraverso i piedi e la terra che li ospita. Ho visto molti piedi..
Piedi stanchi, di chi la mattina cammina ore per andare a lavorare e col tramonto torna a casa per dormire in una capanna senza corrente elettrica o acqua potabile.
Piedi  feriti. Come quelli del vecchietto che è venuto in ambulatorio perché si era tagliato camminando nel bosco e non riusciva a guarire, non avendo a disposizione medici o farmaci.
Piedi grandi. Come quelli di Gilbernaut (o “quaglietta”, come lo chiamiamo noi): 1,5 kg di bambino, magro come un’acciuga ma con dei piedi enormi!! In 15 giorni ci ha dimostrato la sua voglia di vivere, lottando contro la fame, la febbre, le coliche… prima o poi i suoi piedini correranno su una spiaggia, ne sono sicura!
Piedi felici, dei bambini che giocano a calcio sul prato del Centro. E a cui non serve nient’altro che un pallone per divertirsi.
Piedi sporchi. Come i miei che dopo una settimana in infradito non mi preoccupavo più di avere la terra sui talloni ma apprezzavo la libertà di non portare scarpe.
Sentire la terra sotto ai piedi ti ricorda che tutto quello che ti serve ce l’abbiamo già dentro di noi.
Mi manca Nosy Be, mi mancano i sorrisi che mi regalavano le persone, anche senza conoscersi, anche senza parlare.
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Nosy Komba rappresenta in poche parole una descrizione dell’Eden. Bellissime le sue spiagge, cristallina l’acqua, favolosa la vita sottomarina, tra pesci, tartarughe e coralli colorati.


Il tetto della capanna numero 3 era di foglie di cocco, e quando il mare si arricciò e il cielo aprì le cataratte, presi un taccuino, e alla luce di una candela scrissi: FINE DELLA NEBBIA.

Lungo la costa della vaniglia

Uno degli itinerari più suggestivi si snoda nella regione centro-settentrionale, dove si ammirano paesaggi in continua evoluzione. Fra le cittadine più caratteristiche è Sambava, ubicata in una zona selvaggia tra il mare e l’imponente massiccio del Marojejy, sulla costa nord orientale del Madagascar. Ma ancor più particolare si rivela Antalaha.

Madagascar la quarta isola al mondo per grandezza è un mosaico di spazi naturalistici straordinari. Staccatasi dal continente africano milioni di anni or sono, questa terra a sud dell’equatore posta nella fascia del Tropico del Capricorno è un concentrato di ecosistemi differenti tra loro: vi troviamo un grande altipiano al centro dell’isola, e poi foreste pluviali nella parte orientale, e poi ancora alberi di baobab e foresta spinosa procedendo verso sud. Questo microcosmo ospita oltre 10mila specie di piante e fiori, tra cui diversi tipi di baobab e circa 600 varietà di piante medicinali. Il lemure è l’animale simbolo del Madagascar, proscimmia che ha saputo adattarsi perfettamente su questo lembo d’Africa. Grazie anche alla sua variegata fauna, l’isola è uno dei paesi con il più ricco patrimonio ecologico del mondo, protetto attraverso la creazione di una cinquantina di riserve e parchi naturali.
Vaniglia già pronta per l'uso
Uno degli itinerari più suggestivi si snoda nella regione centro-settentrionale, dove si ammirano paesaggi in continua evoluzione. Fra le cittadine più caratteristiche è Sambava, ubicata in una zona selvaggia tra il mare e l’imponente massiccio del Marojejy, sulla costa nord orientale del Madagascar. Ma ancor più particolare si rivela Antalaha, centro urbano che pullula di profumi e colori, famoso per la produzione e il commercio della vaniglia. Questa spezie, molto costosa, è in realtà originaria del Messico, ma è oggi coltivata in molte regioni tropicali.
Il Madagascar, grazie al suo clima favorevole, è uno dei più importanti produttori di questo baccello di un’orchidea chiamata “vanilla planifolia”. Tra Antalaha e Sambava si scorgono sterminate e verdeggianti piantagioni di questo prezioso “oro nero”, tanto che il litorale orientale è anche chiamato “costa della vaniglia”. Proseguendo nella nostra scoperta del Madagascar, sempre concentrandosi nella parte centro-settentrionale, scopriamo rigogliose coltivazioni di chiodi di garofano, pepe rosa, cannella. Altrettanto importante è la palma di cocco, la cui coltura dà lavoro a parecchia gente locale.
Vaniglia ancora verde da trattare
Lungo il percorso merita una visita il lago Andranotsara, detto anche “il lago verde” per il colore delle alghe presenti nel suo bacino. Come si può scoprire visitando il Madagascar, ogni lago ha la sua leggenda e anche questo specchio d’acqua verde ne conserva una che narra: un tempo ad Andranotsara sorgeva un villaggio; una notte giunse un terribile mostro a sette teste che, raggomitolatosi per riposare, con il suo peso fece sprofondare il villaggio sotto terra. Seguirono sette giorni di pioggia, che colmarono d’acqua la conca che si era formata, dando origine al lago. Gli abitanti della zona credono che i coccodrilli del lago siano le reincarnazioni dei loro antenati ed è per questo che sacrificano animali (in particolare gli zebù) gettandoli nelle sue acque.
Nella zona nord-orientale dell’isola, entriamo nella Riserva della Biosfera Mananara Nord, protetta dall’Unesco. Qui, non distante dalla città di Mananara, nell’habitat straordinario di una foresta pluviale, a pochi metri sul livello del mare, si estendono altre piantagioni di vaniglia. I produttori locali la coltivano rispettando la foresta, evitando il “taglia e brucia” o l'abbattimento indiscriminato di alberi per ottenere legni di valore destinati al commercio. Un rispetto dell’ecosistema indispensabile per valorizzare l’economia del luogo e incrementare il turismo sostenibile.
a cura di Silvia C. Turrin

La Vaniglia
Il Madagascar e le Isole Reunion sono i più importanti produttori di vaniglia al mondo. Il costo elevato di questa spezia deriva dal metodo di produzione. Il bacello nero è prodotto da un’orchidea che viene coltivata su alberi o sostegni, e che viene impollinata artificialmente. La vaniglia si affermò specialmente nel ‘700, quando con la cioccolata divenne di moda.
Nel secolo successivo, gli studiosi ne identificarono le proprietà stimolanti ed antisettiche che agivano su stomaco e organismo. Secondo studi più recenti la vaniglia agirebbe anche da antidepressivo per la presenza di molecole molto affini ai feromoni umani.
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Antalaha , ad oggi si presentava come una profumata e spensierata meta assolutamente fuori dalle già poco frequentate rotte turistiche dell’isola rossa

E' il clima tropicale del Madagascar a rendere la sua vaniglia così buona.


La Sardegna come il Madagascar

centinaia di insetti aspettano di essere scoperti.
Come dei novelli Darwin, con lo spirito per l’avventura dei naturalisti del
passato, 20 entomologi per passione si dedicano alla scoperta e catalogazione di nuove specie.Non alle Galapagos e neanche in Madagascar dove la ricchezza di biodiversità ha fatto la storia delle Scienze Naturali, ma in Sardegna.
Sono professionisti dei settori più diversi, dall’estetista al pittore al ristoratore, alcuni sono in cerca di lavoro, altri ancora studenti, ma tutti accomunati dalla passione per l’entomologia, la scienza che studia gli insetti. Fra gli attivisti di questo silenzioso movimento Davide Cillo ed Erika Bazzato ne sono un po’ i portavoce.
Gli insetti, tanto distanti dall’immaginario collettivo di teneri cuccioli da coccolare, o si amano o si odiano. Lo sa bene Davide Cillo che fin dalla tenera età di 6 anni ha scoperto questo immenso amore grazie a un libro donatogli dal padre e che ancora oggi, all’età di 46 anni, conserva gelosamente.
Erika, giovane laureata in Scienze Naturali, ha importanti collaborazioni col Museo Koenig di Bonn per gli studi sulla forma e le dimensioni di insetti sardi.
Davide ed Erika sono fra i pochi entomologi sardi attivi in Italia, autori di numerose pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali sono ormai autorità delle scoperte entomologiche isolane.
Il loro hobby, collezionare e catalogare gli insetti della Sardegna, insieme agli altri entomologi del gruppo, li ha resi profondi conoscitori della natura, dalle coste alla montagna, dai prati ai boschi fino alle impervie cavità sotterranee e le grotte dove si calano da esperti speleologi alla ricerca di specie sconosciute.
Per uno stesso insetto che possiamo trovare in tutta l’area mediterranea, la Sardegna, in quanto isola, rappresenta una nicchia a se, un ambiente diverso e unico. Per questo si ipotizza che centinaia di insetti si siano evoluti nell’isola in modo autonomo dando origine a nuove specie, sottospecie e varietà ancora da studiare.
Ognuno dei 20 naturalisti è diventato custode di collezioni private costituite da migliaia di esemplari accessibili solo su richiesta. Il loro impegno è molto apprezzato dal Belgio alla Germania, alla Francia fino alla Nuova Zelanda, alcuni esemplari poi sono stati donati al Museo Doria di Genova, ma in terra sarda la loro è un’attività poco conosciuta come pochi sono i contatti con le autorità accademiche locali.
L’attività di ricerca e cattura degli esemplari è svolta tramite i mezzi tradizionali che hanno contribuito a dipingere il ritratto del naturalista nei secoli, da Linneo a Lamark a Darwin, ad Alberto La Marmora nel suo viaggio in Sardegna. Tra questi mezzi: retini per farfalle e per insetti acquatici, contenitori di vario genere, l’originale ombrello da entomologo con manico snodabile e trappole innescate con carne putrefatta, aceto, birra o frutta. Un curioso metodo di cattura detto “a lume” si effettua di notte. Spesso le piante forniscono importanti indizi di presenza come fori e gallerie scavati nel legno. Il tutto è supportato da una grande dose di pazienza che spesso porta il gruppo di entomologi a indicibili attese, ore e ore immobili nella speranza di incontrare l’insetto sconosciuto, quello non classificato, il pezzo raro della collezione.
Fra le scoperte più singolari il Cebrio supramontanus, un coleottero cebrionide che appartiene a quel raggruppamento di insetti aventi un paio di ali, le elitre, trasformate in robusta custodia entro la quale sono ripiegate le “vere ali” che gli consentono di volare e delle antenne lunghe e nodose. Scoprire una nuova specie in questo raggruppamento è straordinario perché è fra quelli più studiati in assoluto ed era da più di 100 anni che non ne venivano descritti di nuovi in Italia. Lo stato delle attuali conoscenze su questi insetti è molto buono soprattutto in Italia, ma la posizione geografica peculiare della Sardegna e questo eccezionale rinvenimento la dicono lunga su una fauna che aspetta ancora di essere catalogata.
Hanno preso parte ad uno studio filogenetico, cioè sull’origine e discendenza di specie simili, sugli scarabei del genere Pachypus, classificando una nuova specie, il Pachypus sardiniensis, che si collega alla deriva dei continenti attraverso le ere geologiche e all’evoluzione delle specie nelle isole.
Ma queste sono solo alcune delle tante imprese compiute dai 20 entomologi perché le loro segnalazioni sono centinaia e in preparazione altre decine su decine comprese le descrizioni di almeno altre due nuove specie esclusive per la Sardegna. C’è però un rammarico: quello di non essere supportati dalle istituzioni scientifiche in loco e vedere il proprio lavoro riconosciuto e apprezzato solo oltre il Tirreno.
Il loro sogno è quello di fondare una rivista autorevole tutta sarda e aprire un museo che possa divenire punto di incontro non solo per gli appassionati, ma un luogo di cultura scientifica su un settore, quello dell’entomologia, troppo spesso considerato retaggio del passato.
Conoscere la nostra isola attraverso i suoi insetti può diventare un punto di vista alternativo per la conservazione della sua biodiversità unica e ancora oggi tutta da scoprire.
Fonti: Zootaxa, Lambillionea, Annali Museo Civico di Storia naturale “G. Doria”

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