martedì 13 maggio 2014

Assalto alla terra



Appunti e riflessioni, tra Italia e Madagascar

Che cosa spinge un’impresa italiana a volare in Madagascar, dove nel 2008 si è consumato un sanguinoso colpo di Stato causato dall’indignazione suscitata dal furto legalizzato di terre agricole da parte di imprese straniere, per mettere in piedi proprio un progetto agricolo?

Pianta di Jatrofa
Testimonianze dai territori
Il Biomass Biofuel Ihorambe è un progetto della Tozzi Green che prevede di realizzare entro il 2019 piantagioni di jatropha su 100.000 ha di territorio Ihorombe è una delle 22 regioni in cui è suddiviso il territorio del Madagascar. Situata nella parte meridionale del Paese, è una delle meno densamente popolate, solo sei abitanti per chilometro quadrato. Attraversandola in automobile si costeggiano colline rocciose con rigogliosi campi di riso alle pendici e sconfinate piane erbose dove centinaia di zebù, le tipiche vacche malgasce, brucano indisturbate. Questa immensa distesa di terra fertile deve aver colpito anche l’attenzione dei dirigenti della Tozzi Green, sussidiaria del comparto rinnovabili dell’italiana Tozzi Holding Group, che proprio a Ihorombe ha deciso di realizzare il Biomass Biofuel Ihorombe(BBI). Un progetto sulla carta molto ambizioso che, entro il 2019, prevedrebbe la realizzazione di piantagioni di jatropha per produrre agro-combustibili su 100mila ettari di territorio.
Quello che non è chiaro è se la jatropha sia destinata all’esportazione o al consumo locale, dato che le informazioni pubblicate dalla società appaiono contraddittorie. Sulla stampa locale la Tozzi ha dichiarato di essere intenzionata a valorizzare, trasformare e vendere tutta la produzione energetica sul mercato malgascio. Tuttavia, già nell’agosto del 2009, il responsabile del settore biomasse della Tozzi Energie Rinnovabili segnalava come la società avesse avviato diversi progetti per la costruzione di centrali a biomasse sia solide che liquide, soprattutto nell’Italia del Sud, che avrebbero reso necessaria una strategia di internalizzazione e di approvvigionamento del biocarburante per far fronte alle crescenti oscillazioni di prezzo dello stesso. “Già dal 2007, l’internazionalizzazione delle fonti di approvvigionamento degli agro-combustibili è diventata una priorità strategica, soprattutto per poter affrontare le oscillazioni dei prezzi. Si pensi che nel 2008 i costi dell’olio da palma hanno raggiunto un aumento del 300 per cento. In queste condizioni di estrema incertezza, diventa difficile valutare il livello di profitto dei vari progetti e di conseguenza negoziare i fondi con le banche”.
Ma al di là della mancanza di chiarezza sulle intenzioni della Tozzi, i suoi rappresentanti hanno iniziato ad approcciare le comunità locali nel Distretto di Ihosy, nella Regione di Ihorombe, già nel 2009. Chiedendo informazioni sulla terra.
Il 17 agosto del 2012, la Tozzi Green ha siglato un contratto di affitto di 6.558 ettari di terra nelle comunità rurali di Satrokala e Andiolava direttamente con il governo centrale del Madagascar. Come specificano i documenti visionati da Re:Common durante la missione sul campo, la validità dell’accordo è di 30 anni e il vantaggioso prezzo per ettaro di circa 10 euro l’anno.
Secondo la normativa malgascia, prima dell’apposizione delle firme ci dovrebbe essere un processo lungo e complesso, in teoria teso a garantire gli interessi delle popolazioni locali, come ci è stato confermato personalmente dal direttore del dipartimento per la gestione del territorio dello stesso Ministero dello Sviluppo. L’alto dirigente ci ha parlato di “processo trasparente”, “presenza di tutte le parti in causa”, “responsabilità specifiche delle municipalità nel fornire le informazioni necessarie” e infine di “un’intesa tra le comunità e il sindaco che sia tesa a non lasciare sul campo alcun tipo di conflitto”.


Dal contatto diretto con contadini e allevatori della zona, abbiamo però avuto l’impressione che questa armonia non regni affatto sovrana tra le parti in causa.
A questo proposito è necessario fare un passo indietro e provare a fare chiarezza su un punto, invero a dir poco complesso: quello dei diritti di proprietà e dei diritti consuetudinari sulla terra, materia alquanto spinosa anche in molti altri contesti africani. Dal 2005, in Madagascar è stato avviato un processo di riforma della legislazione fondiaria che ha prodotto una normativa a maglie larghe. Questa, pur riconoscendo alle comunità il diritto consuetudinario sulle terre, lascia ampio margine di movimento allo Stato e agli investitori stranieri, che spesso finiscono per intervenire su terreni occupati da contadini e pastori, i quali rivendicano il loro diritto di usufrutto su quelle terre perché lì hanno sempre vissuto
le loro etnie.
Nel caso del progetto della Tozzi, l’etnia si chiama Bara e al centro della sua esistenza c’è la pastorizia. Purtroppo, secondo lo Stato, le terre dedicate al pascolo non generano un reddito per lo Stato stesso, e allora è meglio affittarle a qualcuno che rimpingui le casse pubbliche. Preferibilmente un investitore  straniero.
La vaghezza legislativa, secondo alcuni non affatto casuale, ha lasciato centinaia di contadini ed allevatori della zona sostanzialmente senza strumenti legali solidi a cui appellarsi per difendere il loro diritto all’auto-sostentamento. Come ci hanno loro stessi confermato.
Quello attraverso la regione di Ihorombe è stato un viaggio lungo e complesso. Spostamenti su centinaia di chilometri di strade sterrate per incontrare anche le più remote comunità. Proprio gli abitanti del posto ci hanno disegnato a mano una mappa da cui abbiamo potuto dedurre che, delle diciassette municipalità che compongono il territorio del distretto di Ihosy, all’interno della regione di Ihorombe, tre sono state quelle approcciate dalla Tozzi: Satrokala, Andiolava e Ambatolahy. Nelle prime due la compagnia era presente già nel 2010. Abbiamo incontrato
esponenti dell’etnia Bara di undici villaggi della zona, quasi tutti allevatori di zebù, l’elemento cardine della cultura e dell’economia del posto.
È uno dei sindaci incontrati a parlare per primo:
«Dipendiamo totalmente dagli zebù, sono la nostra banca. Se ci servono dei soldi perché dobbiamo andare in ospedale, vendiamo uno zebù. Quando dobbiamo coltivare la terra ci serviamo degli zebù per ammorbidirla. Dagli zebù derivano alcuni medicamenti. Senza l’uccisione e la condivisione della carne con la comunità, da noi non si possono tenere né matrimoni né funerali».
La ricchezza da queste parti si misura nel numero di capi posseduti e, d’altronde, come ci spiega un dirigente della Camera dell’Agricoltura di Ihosy, «non è azzardato dire che il 70 per cento del flusso di denaro nella regione dipenda dagli zebù».
In questo spicchio di Madagascar, invece, la jatropha è molto meno conosciuta. O meglio, se ne conoscono le conseguenze negative. Nel villaggio di Ambararatabe, nella municipalità di Satrokala, le persone che incontriamo non usano mezzi termini per maledire le piantagioni di jatropha spuntate qua e là. «Non possiamo più accettare questa situazione, non ci permette di vivere, perché impedisce ai nostri zebù di recarsi al pascolo, chiuso dalle terre coltivate da loro (la Tozzi, ndr). Anche il corso d’acqua, che avrebbe dovuto irrigare i nostri campi di riso, è stato deviato e non arriva più a destinazione. Il tutto per coltivare jatropha, che non sappiamo nemmeno che cosa sia», ci racconta un abitante del villaggio.
«Dalla coltivazione della jatropha non deriva alcun beneficio per noi. Non hanno creato nemmeno posti di lavoro. Io ho lavorato per un giorno e mi hanno dato 5mila ariary (circa 1,5 euro). È un salario troppo misero, un mese di paga non ci permetterebbe nemmeno di comprare uno zebù, tant’è che parecchi di noi si sono rifiutati di lavorare per loro. Ci offrono questa opportunità solo per ‘ammorbidirci’ e usare le terre che coltiviamo o che servono per il pascolo dei nostri animali. Tanto poi, come nel mio caso, se le prendono lo stesso e ci piantano i semi della jatropha mentre i nostri zebù non trovano più cibo. Non si può andare avanti così».
Lo scenario che ci troviamo davanti quando raggiungiamo la prima piantagione di jatropha non è certo confortante. Le piantine sono sparse su un’area molto vasta. Troppo vasta per permettere agli zebù di muoversi come facevano prima. Anche perché se un capo calpesta una pianta la multa, secondo quanto ci raccontano, sarebbe salata, salatissima per queste latitudini: 40mila ariary (12 euro). In realtà c’è anche chi parla di 80mila o addirittura della cessione diretta alla compagnia di uno zebù. Il dato di fatto è che tutti gli allevatori che incontriamo ci ribadiscono che ora hanno timore di attraversare questi terreni con il loro bestiame.
Ma è quando raggiungiamo Satrokola che ci rendiamo conto della reale estensione delle coltivazioni della Tozzi. Chilometri e chilometri quadrati di terra, dove alcune piantine hanno dimensioni più considerevoli e in alcuni casi arrivano a un metro. Dai rametti pendono anche dei piccoli frutti. Satrokola è un tipico comune malgascio, popolato da 10mila persone. Qui c’è il “Tozzi Green Village”, come lo chiamano i locali. Un gruppo di edifici moderni sorvegliati 24 ore su 24 da personale di sicurezza, dove vive lo staff dell’impresa italiana e con una zona dedicata al deposito di materiali e macchinari agricoli.
«È quattro anni che la Tozzi si trova qui, con l’obiettivo di coltivare jatropha. Lo può fare grazie a un’ordinanza del sindaco, che però è arrivata senza il consenso di tante persone.
Anche io sono contrario, però so che c’è poco da fare. Un abitante del villaggio di Sakalahy è stato intimidito e ‘convinto’ a desistere dopo che si era rivolto alle autorità. L’opposizione è più forte nelle campagne, perché lì ci sono quelli che coltivano la terra o la usano per il pascolo. Qui nel villaggio c’è anche chi lavora per la Tozzi – pare siano circa 200 persone, ndr – e ovviamente non ha nulla contro la jatropha. Ma in campagna il malcontento è totale. La gente vede gli zebù che perdono peso perché il cibo scarseggia, a volte per trovare dei pascoli adatti i pastori devono allungare il loro cammino anche di 20 chilometri».
Le decine di testimonianze che raccogliamo attraversando le zone rurali sono pressoché univoche. Più procediamo, e più emergono elementi che compongono un quadro di disagio e scontento diffuso. Uno dei temi più scottanti è quello del centro medico destinato alla popolazione locale. Ci viene detto che inizialmente sembrava vi potessero accedere gratuitamente solo coloro che avevano ceduto le terre alla compagnia. Poi il servizio sarebbe diventato a pagamento, a detta della gente del posto. A Satrakola incontriamo il medico responsabile del centro medico, che ci conferma, invece, che tutte le attività, i materiali e i salari dei dipendenti sono a carico della compagnia.
Il servizio è gratuito, si paga solo una piccola cifra per le medicine”, ci dice.
Una ulteriore nota dolente è la chiusura del mercato del bestiame del villaggio. «Colpa delle piantagioni di Jatropha», denunciano tutti i pastori con cui scambiamo due parole. Troppo difficile, infatti, attraversare i campi, per il solito problema delle multe. Il nuovo mercato di Ihosy, più lontano e comunque difficile da raggiungere, ha comportato un netto aumento del costo dei capi di bestiame e della carne, con ripercussioni serie anche nella capitale, a centinaia di chilometri di distanza. L’economia della zona traballa sotto al peso di un po’ di piantine sconosciute ai più, ci viene da pensare.
Ma c’è pure chi pensa che le piantine siano solo una scusa. A Satrokala ci parlano di voci che vorrebbero la Tozzi interessata a quello che c’è nel sottosuolo, non a quello da far crescere in superficie. Sul web e tra gli ex dipendenti c’è chi crede che all’azienda le terre servano come garanzia collaterale per ottenere un cospicuo finanziamento da un banca del Sud Africa proprio per portare avanti altri piani industriali. In particolare un ex membro dello staff locale si dice sicuro che i piani siano altri, tanto che cinque milioni di piantine di jatropha sarebbero state “buttate via” nei primi mesi del 2013.


Il caso di Ambatolahy
Poi c’è la storia della municipalità di Ambatolahy, 15 villaggi sparsi su un’area di 1.600 chilometri quadrati. Il sindaco della municipalità, previa consultazione con la popolazione locale, è stato l’unico a negare espressamente l’autorizzazione all’acquisizione delle terre da parte dell’impresa italiana. Come ci ha raccontato lui stesso “la prima richiesta di poter coltivare la jatropha nel nostro territorio ci è stata inoltrata da due vazaha (uomini bianchi, ndr) nel 2009. Io mi sono rifiutato, perché c’erano già dei precedenti negativi, tanto che il mio predecessore, che aveva dato il nulla osta ad una compagnia indiana chiamata Landmark, era stato mandato via per questa ragione. Qui la terra serve per il pascolo degli animali e la decisione di darla in grande quantità a compagnie straniere viene accolta molto male dalla popolazione locale”. Visto il pessimo precedente con la Landmark, da queste parti ci sono andati molto cauti prima di cedere anche un ettaro. Nel novembre del 2012, le comunità locali hanno preso carta e penna e hanno scritto alle autorità competenti, incluso il Primo Ministro, per manifestare la totale contrarietà dell’intera municipalità al progetto della Tozzi. La missiva è stata sottoscritta dal sindaco e da altri esponenti della municipalità. Ciò nonostante, denunciano in quest’area, l’impresa è andata avanti con le sue attività, anche a dispetto del fatto che la municipalità di Ambatolahy non è compresa nell’intesa siglata dalla Tozzi e il governo malgascio. “Ci sono cinque villaggi di questa Municipalità ormai interessati dalle coltivazioni. In particolare a Ivaro West, nello spazio di una notte si sono trovati i terreni occupati” narra il sindaco. In effetti quanto successo a Ivaro West ci viene confermato durante gli incontri che teniamo in quel villaggio.
Passando per l’area, abbiamo l’impressione che sia molto vasta, che forse potrebbe bastare per le esigenze di tutti. Ma gli allevatori di Ivaro West ci spiegano che non è così: 100 capi di zebù necessitano di almeno una decina di ettari al giorno per pascolare, e non possono tornare sullo stesso terreno per almeno dieci giorni per permettere all’erba di rigenerarsi. E ogni nucleo familiare possiede in media 200 zebù!
Gli abitanti di Ivaro West ci mostrano anche una prima lettera, redatta nel settembre del 2012, indirizzata al sindaco e in cui si afferma l’intenzione di negare ogni forma di accesso alla Tozzi.
Durante l’intervista con il sindaco, condotta alcuni mesi più tardi la ricezione e sottoscrizione della lettera, di fronte alle evidenze che la compagnia ha cominciato ad operare anche sul terreno relativo alla sua Municipalità, il sindaco è apparso sconfortato: “avevo ottenuto un ordine da Antananarivo (la capitale del Paese – ndr) per sospendere qualunque estensione del progetto. Ma, nonostante quest’ordine sia stato comunicato alla compagnia, mi ha sorpreso che siano comunque riusciti a entrare nel nostro territorio. Non so dove vogliono arrivare, non capisco. Penso che dovrebbero fermarsi.” “La jatropha a noi non serve. I frutti non sono commestibili, il legno che deriva dalle sue piante non è buono nemmeno per farci una bara, come diciamo da queste parti, e poi francamente non capiamo se l’obiettivo reale è quello di coltivare oppure semplicemente di occupare le terre” chiosa il sindaco, certo che i suoi omologhi di altre municipalità abbiano fornito l’assenso al progetto perché in passato non avevano vissuto gli effetti nefasti legati alla decisione di concedere l’utilizzo delle terre agli stranieri.

Concludendo…
In breve, ciò che abbiamo nettamente percepito grazie alla nostra visita a Ihorombe, è che il progetto che la Tozzi sta attuando nella zona sta concretamente impedendo a pastori e contadini locali di accedere alla terra e alle risorse ad essa collegate; inibisce la produzione locale per il consumo locale, tentando di trasformare un tradizionale sistema sociale
ed economico autosufficiente in un sistema di produzione di energia su larga scala, radicalmente estraneo al contesto; pretende di compensare
la perdita di terreno con la creazione di alcuni posti di lavoro, a condizioni tutte da verificare, rendendo sempre più remota la prospettiva di un più equo sistema di gestione della terra, che prenda seriamente in considerazione i diritti consuetudinari e i diritti d’uso
delle comunità locali.
Ma se della jatropha gli allevatori malgasci non sanno cosa farsene, forse non vale lo stesso discorso per il Gruppo Tozzi che in Italia sta cercando di ritagliarsi una fetta di mercato nel lucroso business della produzione di energia elettrica da cosiddette fonti rinnovabili.
Come visto in apertura, nell’agosto del 2009, il capo del settore per lo sviluppo delle biomasse della Tozzi Renewable Energy, aveva spiegato chiaramente che la necessità di internalizzare la produzione di materia prima per agrocombustibili era diventata strategica per l’azienda, che stava avviando diversi progetti per la costruzione di impianti per
biomasse solide e liquide nel Sud Italia.
Ma alcuni anni dopo, le evidenze dal campo stanno dimostrando che in Madagascar, come anche in altri contesti africani, i progetti di apparagro-combustibili della Tozzi non producono risultati di rilievo, ma solo impatti severi sulle popolazioni locali. In Madagascar, dove la
Tozzi si propone di coltivare 100mila ettari entro il 2019 e conta attualmente su 6.558 ettari, l’opposizione delle comunità è in crescita
e si sono diffuse voci di un “improvviso cambiamento nel business
plan della società”. Ex dipendenti della società ci hanno informato che il progetto di coltivazione della jatropha è stato abbandonato e che circa
cinque milioni di piantine di jatropha sono stati gettati via nei primi mesi del 2013.
Abbiamo quindi cominciato a domandarci se e come la normativa
italiana sulle energie rinnovabili stia giocando un ruolo decisivo
nel comportamento delle compagnie all’estero, ipotizzando che la loro linea di condotta sia trainata dal sistema di incentivi istituito
dal piano d’azione nazionale per le energie rinnovabili. È anche possibile che le recenti variazioni nei piani industriali delle società in diversi paesi africani nascano dall’aver appurato che la jatropha non è né economicamente né ambientalmente e socialmente sostenibile. Però non è da escludere che le aziende si stiano spostando dalla produzione
di agro-combustibili su larga scala in Africa alla filiera corta su base locale, come conseguenza dello sviluppo irregolare della legislazione
italiana.
Ma questa è un’altra storia.

Scritto da
Giulia Franchi  - Re:Common, Luca Manes - Re:Common, Comitato No Inceneritori Terni, Giuseppe Dimunno,
Blog 3 Santi all’Inferno
Fotografie
TerraProject, Giulia Franchi, Valeria Balzano,Comitato No Inceneritori Terni
Grafica
Carlo Dojmi di Delupis
Contatti
Re:Common info@recommon.org www.recommon.org Comitato No Inceneritori Terni www.noinceneritoriterni.
blogspot.com, Blog 3 Santi all’Inferno http://noinceneritoretressanti. blogspot.com/ marzo 2014

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