Alloggiavo nella stanza numero 3 di
una pensione sull'Oceano Indiano, a Nosy
Be (Madagascar).
Era una capanna di un piccolo hotel di nome Belvedere, su un promontorio
spettacolare che dominava la spiaggia Andilana. La proprietaria del Belvedere
aveva capito tutto. Si chiamava Virginie, aveva 60 anni e sangue misto metà del
Madagascar, metà del Vietnam. Portava grosse trecce bianche, e parlava molte
lingue, con la nonchalance di chi ha molto vissuto e nulla rimpiange.
«Quanto ti fermi?»,
chiese in italiano, che poi divenne inglese, con parole in francese e accenni
di spagnolo. «Non lo so», risposi assorta. Non avevo voglia di tornare alla
base, ma non ero ancora disposta ad ammetterlo. Volteggiavo nella nebbia
psichica delle donne che s'innamorano e smettono di pensare.
Virginie accettò la mia vaghezza con un
sorriso. Sere
dopo, m'invitò a cena nella sua capanna, la numero 10: «Qualcosa devi pur
mangiare». Aveva i fornelli in veranda, e cucinava in compagnia di piccoli
draghi ascoltando Bach. Preparò dei granchi deliziosi e un altro grosso pesce
misterioso; disse che aveva vissuto a lungo a Parigi con il marito e quando
avevano deciso di vivere il sogno, e trasferirsi in paradiso, qualcosa era
andato storto. «È andata così», disse tranquilla. Recava sul volto i segni
del tempo, ma nei gesti e nella voce faceva pensare a una saggia adolescente
orientale. «Con gli uomini che amiamo se ne vanno parti di noi. Ti va del
vino?». «Sì grazie. Vale a dire?». «Le persone di cui ci innamoriamo e dalle
quali poi fuggiamo ci aiutano a liberarci di parti che non sono nostre.
L'egoismo di tuo padre, l'invidia di tua madre, tutta quella roba di cui ci si
deve spogliare per diventare finalmente noi stessi».
L’ascoltai pensando: ma chi l'ha mandata? In
camera, prima di cena, avevo riflettuto sulla solitudine. Ci sono momenti in
cui desidero la fusione: avete presente? La simbiosi con un uomo, o con un Dio:
con qualcun altro cui affidare le chiavi. Il desiderio infantile che sia un
altro a pagare il conto e a chiudere il gas e a proteggermi dalle orde di
nemici oltre la bolla, proprio lì, sulla soglia. Virginie ora mi stava dicendo,
a modo suo, che la vita è un ciclo continuo di baci e di addii. Che la fusione
vuol dire perdita di sé nell'altro, o assorbimento di sé da parte dell'altro:
in entrambi i casi, è la scomparsa del soggetto, e dunque la morte. «Prima o
poi», disse serafica, «tutti dobbiamo accettare la nostra incompletezza. Guarda
come sono basse le stelle». Quella notte, nella Baia di Andilana, ci fu una
tempesta. Il tetto della capanna numero 3 era di foglie di cocco, e quando il
mare si arricciò e il cielo aprì le cataratte, presi un taccuino, e alla luce
di una candela scrissi: FINE DELLA NEBBIA.
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