Parte seconda
Pubblico volentieri questa seconda parte del
resoconto di un viaggio in Madagascar in quanto in questa parte vengono citati
tre operatori turistici italiani che operano in Madagascar da parecchi anni e
che si sono conquistati un posto di prestigio per la qualità, la
professionalità e il lodevole impegno che usano nel loro lavoro.
Continua
il viaggio in Madagascar della lettrice Chiara Ghilardi nella rubrica de IlGiunco.net Capo
Nord, per tutti coloro che amano viaggiare e confrontarsi con differenti culture,
odori, sapori e le tante differenti opportunità che offre il mondo.
7
giorno Martedì
La
nottata io e il mio compagno la passiamo svegli perché il mio dolore alle ossa
è insopportabile: da non riuscire a stare sdraiata. La febbre si alza e mi
rendo subito conto che è un’influenza diversa da quella a cui sono abituata ma
non sapevo quale delle medicine che ci siamo portati dall’Italia prendere visto
che stavo già prendendo il mio solito antistaminico e la profilassi per la
malaria, così appena è mattina chiamo il medico dell’assicurazione che è
disponibile ventiquattro ore su ventiquattro che mi esorta a correre subito
all’ospedale per escludere la malaria e vedere se mi possono aiutare ad
alleviare la febbre. Il mio compagno preso dall’ansia mi prende in braccio, mi
carica in macchina e andiamo in cerca dell’ospedale, senza sapere dove fosse
esattamente. Il caldo dell’auto però aumenta la febbre e io quasi non riesco a
stare in piedi. Alla fine troviamo l’ingresso dell’ospedale e ci dirigiamo
verso le urgenze dove un medico si prende subito cura di me. La prima
impressione non è quella di essere dentro una struttura medica ma quasi in un
centro sociale, di quelli che frequentavamo durante il periodo dell’università
a Bologna. L’interno di queste strutture tutte al piano terra è davvero
rovinato e ci rendiamo subito conto che gli arredi sembrano quelli che abbiamo
visto nei film dell’immediato dopo guerra in Italia. Probabilmente sono le
infrastrutture che noi europei scartiamo e poi mandiamo in Africa in forma di
aiuti internazionali. Nonostante la struttura fatiscente però i medici ci
sembrano preparati e mi danno subito antibiotico, paracetamolo per fare
scendere la febbre, Sali minerali e vitamina C per farmi riprendere un po’ di
forza. La somministrazione dei medicinali però non funziona come da noi: il
dottore scrive una sorta di ricetta con la quale l’accompagnatore del paziente
deve andare alla farmacia dell’ospedale e acquistare le medicine per curarlo.
In poche parole, se non hai i soldi, non ricevi cure. Ecco svelato il perché di
un tasso di mortalità così alto. Nel frattempo mi prelevano il sangue per fare
l’esame della malaria ed è sempre il mio compagno l’addetto alla consegna al
laboratorio analisi e sorpresa delle sorprese, il tecnico del laboratorio lo
invita a guardare insieme a lui nel microscopio il campione del mio sangue: in
Italia non sarebbe mai successo!! Fortunatamente non è malaria e dopo circa
quattro ore di flebo mi sento meglio e sono pronta per tornare in hotel. La sera
arriva una macchina di turisti e noi li riconosciamo: li avevamo già incontrati
nell’hotel a Fianarantsoa e in un ristorante lungo la strada, e dopo il terzo
incontro casuale pensiamo sia arrivato il momento di cenare insieme. Sono una
coppia di francesi sulla settantina che, in pensione da qualche anno, girano
l’Africa soggiornando nelle strutture religiose per aiutare le suore con i
bambini e con l’insegnamento del francese. Passiamo una bella serata in
compagnia, ma vista la giornata all’ospedale e il febbrone che mi ha colto di
sorpresa ce ne andiamo subito a dormire.
8
giorno Mercoledì
I
dottori dell’ospedale mi hanno consigliato un po’ di riposo per riprendermi e
visto che non mi sento tanto in forma decidiamo di passare la giornata in città
e goderci un po’ di relax, dopotutto la nostra è una vacanza! La mattina
prendiamo la macchina e andiamo fino al porto dove, all’interno dei locali
dell’Università di Tulear si trova il museo marino più interessante di tutto il
Madagascar. Vediamo animali marini di tutti i generi: pesci, molluschi,
aragoste, anguille, animali preistorici, tartarughe di mare ma anche
conchiglie, conchiglie fossili, coralli e alghe ma la cosa che ci sorprende
maggiormente si trova all’esterno del museo ed è lo scheletro originale di una
balena lunga non so quanti metri! Terminata la visita al museo facciamo una
passeggiata ai mercatini artigianali e al mercato delle conchiglie per
continuare la scelta dei souvenirs da portare a parenti e amici e pranziamo in
un ristorante sul lungomare per poi tornare in hotel e farci una dormitina: sto
meglio ma non sono ancora al massimo delle mie forze.
Nel
pomeriggio decidiamo di andare a prendere un gelato alla “Gelateria italiana”,
un bar gestito da un veneto. Ci fermiamo un’oretta a chiacchierare con Stefano,
il simpatico proprietario che ci racconta del Madagascar e di come la vita lì
sia difficile e ci consiglia di fare un piccolo cambio rispetto al nostro
programma e di andare a vedere Anakao e soggiornare all’Auberge Peter Pan, un
caratteristico hotel gestito da due ragazzi della zona del Lago Maggiore.
Anakao è raggiungibile in barca la mattina da Tulear perché per percorrere
l’unica pista di sabbia che porta al villaggio sono necessarie circa quattro
ore di viaggio (per coprire una distanza di nemmeno cinquanta chilometri).
Decidiamo di partire venerdì mattina perché il giorno seguente avevamo previsto
di andare al villaggio di Ifaty, a nord di Tulear. La sera torniamo in hotel e
a cena chiediamo ad Angelo, uno dei camerieri, di accompagnarci e mostrarci la
strada per Ifaty e ci accordiamo sul suo compenso di 25.000 Ariary (ca. 8 €).
8
giorno Giovedì
Partiamo
alle 7 per andare a Ifaty e finalmente ci armiamo di costume, crema solare a
telo: abbiamo proprio voglia di passare una mattina in spiaggia e fare un bagno
nell’oceano. Uscendo da Tulear in direzione nord ci ritroviamo nella periferia
della città che è formata da un insieme di baracche di lamiera circondate da
montagne di spazzatura e ci viene un po’ di tristezza: un paesaggio così bello
rovinato dalla maleducazione dell’uomo. Non è colpa di questa gente però. Le
bottiglie di plastica e di vetro sono state sicuramente introdotte dai
colonizzatori e siamo noi a non aver spiegato loro che poi vanno anche smaltite
e riciclate. La pista di sabbia che conduce al villaggio costeggia l’oceano con
ricche foreste di mangrovie, tipici alberi che vivono nei terreni paludosi e
affondano le radici nell’acqua che, essendo mattina è molto ritratta a causa
della bassa marea. La strada (se possiamo chiamarla così) è sconnessa tanto che
ogni tanto incontriamo qualche camion che è rimasto insabbiato tra le buche. Angelo,
il nostro cameriere/guida, non parla molto bene francese, ma ci racconta che le
piccole casette di legno che vediamo al bordo della strada sono in vendita per
la modica somma di quaranta euro! Quando arriviamo a destinazione siamo un po’
spaesati perché è la prima volta che facciamo tappa in un vero villaggio. Fino
ad ora ci eravamo sempre fermati nelle città, dove la vita è molto diversa. Gli
abitanti qui sembrano rendere pienamente onore al motto del Madagascar
“Mora-Mora”, sembra che non facciano niente oltre che stare seduti a
chiacchierare con gli amici nell’attesa del pranzo e anche chi lavora (i
pescatori e i “negozianti”) sembrano godere del tempo come noi occidentali non
sappiamo fare più da tanto.
Siamo
diretti all’hotel ristorante Chez Cecile, una
sorta di stabilimento balneare sulla spiaggia con qualche bungalow e i tavoli
sotto un porticato di legno. Ci sono anche delle sdraio e noi ne approfittiamo
per appoggiare le nostre cose e andare a fare il bagno. Durante la mattinata
vediamo tanto movimento sulla spiaggia: i bimbi che si esercitano con la piroga
per la pesca, donne che ci propongono massaggi e prodotti dell’artigianato
locale e pescatori che rientrano dal mare con il pescato locale. A un certo
punto si avvicina un ragazzo che si presenta come una delle guide certificate
del villaggio e si occupa di accompagnare i turisti a fare snorkeling, per il
giro in piroga e alla foresta dei Baobab. E’ vero che i pesci che ci sono in
Madagascar da noi non esistono e che non abbiamo la barriera corallina ma
pensiamo che snorkeling lo possiamo fare anche a casa nostra, mentre vedere un
Baobab quando ci ricapita? Certo non pensavamo che vedere la foresta sarebbe
stato così faticoso. Partiamo all’una, sotto il sole cocente su un carretto
trainato dagli zebù insieme alla guida. Dopo circa un quarto d’ora di strada
sullo scomodo carretto, ci addentriamo nella foresta e cominciamo a vedere i
primi esemplari di piante. Sono enormi, ma meno alti di quello che ci
aspettavamo. Scopriamo che qui ci sono quattro specie di Baobab: i Baobab
bottiglia, i Baobab carota, i Baobab innamorati e i Baobab famiglia, ma anche
Aloe vera, varie tipologie di cactus e uno strano albero di cui non conosco il
nome che presenta una corteccia simile alla seta, sia al tatto che alla vista.
Al
rientro ci accorgiamo che la marea è salita e che le Mangrovie, delle quali la
mattina si vedevano le radici a filo della sabbia, sono completamente coperte
dal mare. Arriviamo all’hotel stanchi ma abbiamo una tappa da fare a Tulear: il
ristorante “Corto Maltese” gestito da Beatrice e Renato, dove abbiamo mangiato
davvero bene!
9
Giorno Venerdì
Anche
questa mattina tocca alzarsi presto…facciamo colazione e andiamo al porto di
Tulear dove alle 9.00 abbiamo appuntamento all’ ”imbarcadero”, il punto in cui
si prendono le navette per il paese di Anakao. Per non rischiare di perdere la
barca ci facciamo trovare lì un quarto d’ora prima ma ci dicono subito che
partiremo intorno alle 10.00, così prendiamo i biglietti e ci mettiamo ad
aspettare nel casotto del Peter Pan, l’hotel
in cui alloggeremo ad Anakao. Ogni hotel del villaggio ha il proprio casotto
con foto, descrizione delle attività e descrizione del luogo per invogliare ad
andare da loro i turisti che si accingono a prendere la barca e che non hanno
ancora prenotato il posto letto.
Intorno
alle 10.00 ci chiamano per partire e ci fanno salire sul solito carretto
trainato dagli zebù e non capiamo proprio perché….noi dovevamo prendere una
barca!! Dopo poco arrivano altri due turisti sull’ottantina e gioia per le
nostre orecchie: sono italiani, bolognesi per la precisione. Ci spiegano che
fanno sempre questo tragitto perché il loro figlio ha una piccola struttura
alberghiera ad Anakao e che è normale salire sul carretto perché la marea è
bassissima e in questo modo i clienti viaggiatori non devono immergere i piedi
nell’acqua per arrivare alla barca. Dopo circa 300 metri di bassa marea saliamo
sulla vedetta e in un’ora raggiungiamo Anakao ma i nostri concittadini scendono
prima di noi perché saranno ospiti nell’hotel del figlio. Noi proseguiamo e
arriviamo finalmente al Peter Pan, il posto
di cui avevamo tanto sentito parlare ma qui non c’erano carretti trainati dagli
zebù e quindi togliamo le scarpe e ci infiliamo nell’acqua per raggiungere la
riva. Ci accoglie Dario, uno strambo italiano con lo smalto blu alle unghie e
il mascara in coordinato che ci accompagna al nostro bungalow. L’auberge è
costruito sulla spiaggia, non c’è acqua corrente e nemmeno elettricità quindi
Dario ci spiega che per fare la doccia dobbiamo riempire il secchio e fare la
stessa cosa per tirare l’acqua dopo essere andati al bagno. Se abbiamo bisogno
di caricare il telefono invece lo possiamo fare dall’ora del tramonto fino a
quando andiamo a letto nella struttura principale, dove c’è il ristorante,
servito da un generatore. Il Peter Pan è un luogo incontaminato e capiamo
subito perché ci hanno consigliato di fare questa tappa…è stupendo! I bungalow
e la zona ristorante sono state costruite come nel villaggio del film di Peter
Pan e l’hotel è separato dalla spiaggia da una staccionata di matite colorate.
L’oceano è trasparente e davanti a noi c’è l’isola di Nosy Ve (da distinguere
dalla più famosa Nosy Be), l’isola benedetta dove in spiaggia non si possono
fare i bisogni, non si può costruire ed è conservata l’unica specie al mondo di
“fetone dalla coda rossa”. Purtroppo, dovendo partire la mattina seguente molto
presto non riusciremo ad andarci perché nel pomeriggio, a causa della marea e
del vento, non si può uscire in mare.
La
giornata passa tra bagni, momenti di relax all’ombra dei gazebo di paglia in
spiaggia e chiacchiere con Dario e Valerio, i proprietari che ci allietano con
le leggende e le storie del Peter Pan. Ci raccontano di essere stati rapinati
da una banda del villaggio e che da quel momento hanno assoldato tre guardie di
cui una armata per essere sempre protetti, ci mostrano le belle recensioni
dell’auberge su tutte le guide cartacee e scopriamo di essere arrivati proprio
per il compleanno del mitico Dario. Ci raccontano anche che una volta
acquistato il terreno hanno dovuto fare un rito di passaggio per essere accolti
nel villaggio: hanno acquistato uno zebù, l’hanno macellato, ne hanno sparso il
sangue sulla loro spiaggia e poi hanno donato un pezzo ad ogni famiglia del
villaggio. Al calare del sole ci raggiungono anche gli altri pochi ospiti
dell’hotel (eravamo una decina in tutto, tutti italiani) e decidiamo di
mangiare insieme per festeggiare Dario. Così, tra brindisi, la torta e tante
belle chiacchiere è passata la serata: una delle migliori della mia vita.
Scoprire posti nuovi è emozionante, ma quando hai anche la possibilità di
scoprire persone nuove, conoscere nuove storie, nuove avventure ed esperienze,
tutto diventa ancora più entusiasmante. Andiamo a letto contenti e
stanchi.
10
giorno sabato
La
sveglia suona presto anche se avevo già aperto gli occhi con le prime luci
dell’alba, così alle 5.30 di mattina decido di uscire per una passeggiata sulla
spiaggia pensando di godermi il silenzio ma mi ero dimenticata che qui le
persone si svegliano ancora con il canto del gallo e quindi trovo già i bimbi
che giocano nell’acqua, i pescatori che preparano le piroghe per uscire in
mare. Il senso di pace, gioia e relax che mi ha donato questa passeggiata
rimarrà sempre nei miei ricordi.
Facciamo
colazione e dopo aver salutato tutti i nostri nuovi amici saliamo sulla barca
che era tornata a prenderci alle 7.00. Il ritorno è un po’ più lungo
dell’andata a causa del vento contrario e quindi arriviamo a Tulear intorno
alle 9.30, dove un altro carretto di zebù ci aspetta per riportarci all’
”imbarcadero”. Ci rimane solo questa giornata prima di riprendere la macchina
per tornare ad Antananarivo e salire sull’aereo e visto che è troppo tardi per
fare qualsiasi altra gita, ce la prendiamo con calma e ci andiamo a riposare in
hotel, dove dormiamo un po’ prima del pranzo. Torniamo a mangiare alla Bernique, il piccolo ristorante di legno sul lungomare
che ci era piaciuto tanto, facciamo un giretto a piedi e torniamo in hotel per
fare una doccia e preparare le valigie così l’indomani saranno già pronte.
Decidiamo di cenare al Jardin de Giancarlo,
un ristorante gestito da un italiano. Il posto più che sembrare un ristorante,
ricorda vagamente un museo: pieno di quadri e artigianato locale, siamo serviti
da un personale gentile e accolti da Giancarlo, l’eclettico proprietario che ci
fa divertire con la sua simpatia. Il cibo è buono e conveniamo sul fatto che
noi italiani in cucina non veniamo battuti da nessuno! Dopo la cena andiamo a
salutare Stefano della gelateria che era in compagnia di Beatrice (la
proprietaria del Corto Maltese) e ci
perdiamo in chiacchiere fino a mezzanotte. Ci raccontano altri aneddoti sulla
vita e sul lavoro in Madagascar. Beatrice è arrabbiata perché uno dei suoi cuochi
ha messo nel microonde una forma di formaggio pensando che fosse qualcosa da
scongelare e non perché ci vuole del tempo prima dell’arrivo delle consegne
dall’Italia e presa dalla rabbia continua raccontandoci un’esperienza avvenuta
qualche anno prima: un giorno tre dei suoi dipendenti le dicono che non
sarebbero più andati a lavorare se una loro collega continuava a lavorare lì.
Salta fuori che questa signora una sera, dopo la chiusura del ristorante è
passata per chiedere dell’acqua al guardiano, i colleghi sostenevano che lei
avesse fatto un grigri (una sorta di maledizione, qualcosa di simile al
malocchio) e che adesso il ristorante fosse sotto l’effetto della malvagia di
questo incantesimo. Beatrice presa dal panico e dall’incapacità di gestire l’assurdità
della situazione, prende da parte la dipendente e si assicura che volesse
effettivamente solo dell’acqua. Per riuscire a fare tornare al lavoro tutti i
cuochi si è dovuta inventare una bella storia. Il giorno seguente è andata in
cucina e ha assicurato i dipendenti che i grigri che facciamo in Italia, vista
la nostra lunga tradizione, sono più potenti di quelli del Madagascar e che ne
aveva castato uno per sconfiggere la maledizione lanciata dalla sua dipendente.
Non avremmo mai pensato che cose del genere potessero accadere davvero!
Si
lamentano dell’ignoranza e della barbaria dei malgasci dandoci la versione
della storia arrivata poco prima della nostra partenza per il Madagascar. Tre
europei sono stati aggrediti e ammazzati per traffico di organi a Nosy Bè:
questo è quello che si sa in Italia, ma lì la storia è ben diversa e non è
questo il luogo per scendere nei macabri particolari.
Dobbiamo
correre a dormire: domani ci aspettano cinquecento chilometri in macchina e noi
siamo davvero stanchi e indeboliti dalla “Turista”, il virus che ammala
qualsiasi viaggiatore che passi per il Madagascar e del quale non sto a
descrivervi i sintomi!
11
giorno domenica
La
nostalgia è un sentimento che si prova quando qualcosa è passato ma noi già ci
svegliamo con la tristezza di chi deve andare via, saldiamo il conto aperto
all’Escapade,
riempiamo il serbatoio di gasolio e partiamo. Il viaggio è a ritroso ma siamo
comunque contenti di ripassare per i paesaggi ameni che abbiamo visto
all’andata ma siamo stanchi, stanchi davvero e siamo obbligati a fare qualche
pausa in più, con la paura di non arrivare a Fianarantsoa, in tempo prima che
il sole cali. Propongo al mio compagno di prendere il suo posto alla guida per
farlo riposare un po’ ma lui si rifiuta perché la strada è pericolosa e gli
altri automobilisti sono spericolati. Ci fermiamo per la colazione e poi per il
pranzo all’hotel Nirina, dove abbiamo mangiato anche all’andata
per gustare di nuovo un piatto tipico della cucina malgascia alla modica cifra
di 4 € per due persone.
Dopo
qualche chilometro siamo abbagliati e infastiditi dall’odore di bruciato,
vediamo una nuvolona di fumo e ci guardiamo con gli occhi sgranati dalla paura.
Appena girata la curva, al bordo della strada e a pochi centimetri da noi c’è
un camion in fiamme e un sacco di gente in mezzo alla carreggiata, intorno c’è
il nulla. Noi siamo preoccupati, stanchi e non potremmo aiutare quelle persone
e quindi passiamo in mezzo alla nuvola di fumo e andiamo oltre. In Madagascar
non ci sono né il 115 né il 118 da chiamare e pensiamo a quelle persone che
dovranno aspettare il passaggio di un altro camion che li accompagni, con la
speranza che abbia dell’acqua per spegnere l’incendio.
Dopo
una svariata serie di piccole soste per non fare addormentare il mio
compagno/autista, arriviamo finalmente a Fianarantsoa ma prima di metterci a
letto, chiediamo alla reception di farci trovare per cena il Kuba, il dolce
tipico del Madagascar fatto di riso e foglie di banano perché ancora non
eravamo riusciti a provarlo ma ci spiegano che è difficilissimo trovarlo perché
viene cotto solo la mattina e poi venduto nelle bancarelle in giro per la
città. Noi decidiamo di pagare in più per farcelo andare a prendere e
mangiarlo. Tanto ormai il virus l’avevamo già preso…che altro poteva succedere?
Ci
facciamo una doccia, scendiamo a mangiare qualcosa e torniamo subito a letto.
Ormai non abbiamo più forze per fare nulla e poi la sera è sconsigliato uscire
da soli.
12
giorno lunedi
Partiamo
intorno alle 7.30 perché dobbiamo essere all’aeroporto di Antananarivo entro le
18.00 e ci aspettano altri 400 km di strada in condizioni pessime, ancora
peggiori di quella percorsa il giorno precedente e né io né il mio compagno
siamo in forma. Fortunatamente, a differenza dell’andata, non troviamo la
pioggia e quindi riusciamo ad andare un po’ più veloce ma superiamo
difficilmente gli 80 km all’ora. Ci fermiamo ad Ambositra per fare una pausa e
continuiamo fino ad Antsirabe, una grande città che si trova a circa due ore di
auto dalla capitale, in cerca di un ristorante per mangiare ma ormai sono le
14.00 ed è difficile trovare un posto ancora aperto a quest’ora. Dopo circa
mezz’ora in giro per la città troviamo uno strano edificio che ci sembra un
hotel della Transilvania: un posto orribile a dire la verità (tanto che
all’andata l’avevo fotografato per la sua bruttezza!). Mangiamo un riso alla
cantonese che sembra strano in Madagascar ma dovete sapere che oltre alle 18
etnie presenti nell’isola, i cinesi sono considerati la diciannovesima: gli orientali
hanno colonizzato l’isola ancora prima di noi europei, portandone tradizioni e
cucina. Al tavolo accanto a noi c’è un italiano, un prete che lavora da sei
anni in una missione e che comincia a farci strani discorsi sulla fede, su Dio
e sul matrimonio. Era talmente tanto contento di aver trovato due italiani con
cui parlare che non smetteva più. Siamo riusciti a ripartire solo alle 15.30,
in ritardo netto sulla nostra tabella di marcia: Mahefa (l’omino che ci ha
noleggiato la macchina) ci aspettava alle 16.30 in un benzinaio alle porte
della capitale ma noi non saremmo mai arrivati in tempo.
Il
mio compagno riparte a tutta velocità e riusciamo a raggiungere Antananarivo in
tempo record ma alle porte della città c’è una rotonda (il primo bivio che troviamo
lungo tutto il tragitto percorso) che ci manda fuori strada. Ci siamo persi. E
non potete capire cosa significa perdersi in una città di quattro milioni di
abitanti. La gente è riversata per strada e ormai sta calando il sole. Mahefa
al telefono cerca di spiegarci come raggiungerlo e dopo un po’ di tentativi e
alcune richieste ai vigili non andate a buon fine ci troviamo davanti al
Carlston Hotel, un palazzone altissimo che assomiglia al nostro Pirellone
milanese. La cosa più intelligente è fermarci e farci raggiungere da Mahefa. Ci
accostiamo al bordo della strada e aspettiamo. Sono ormai le 17.30 e noi siamo
davvero in ritardo ma finalmente lui arriva, gli lasciamo la guida e partiamo
alla volta dell’aeroporto con una brutta notizia: Mahefa ci dice che possiamo
impiegarci anche due ore. Purtroppo ci troviamo imbottigliati nel traffico
fermi su tre corsie fino a che, a passo d’uomo, riusciamo ad uscire dalla
confusione del centro città e immetterci sulla strada che porta all’aeroporto
che dista circa 12 km e dove ci aspetta una lunga fila di macchine. Mahefa,
preso da un’incontenibile vena eroica si butta nella corsia opposta e comincia
a viaggiare contromano e rientrare appena vede una macchina che arriva,
prendendosi tutti i clacson e le maledizioni degli altri autisti in coda.
Grazie alla prontezza e alle gesta (illegali, lo sappiamo) della nostra guida,
arriviamo finalmente alle 19.30 all’aeroporto. Per fortuna c’era ancora la fila
per il check-in e noi siamo arrivati giusto in tempo. Compriamo le stecche di
sigarette che costavano solo quindici Euro e saliamo sull’aereo dove finalmente
riusciamo a dormire.
13
giorno martedi
Arriviamo
all’aeroporto di Parigi alle 6 di mattina, facciamo colazione e aspettiamo il
volo dell’Alitalia per tornare a Roma. Nell’attesa facciamo amicizia con
Carlotta, una ragazza romana che avevamo già notato all’aeroporto di
Antananarivo e che abbiamo poi scoperto essere italiana solo al gate dello
scalo. Carlotta aveva passato gli ultimi mesi nell’Ile di Sainte Marie, in
Madagascar, a lavorare in un hotel e ci raccontiamo le rispettive esperienze.
Poi ci accorgiamo che in fila, per salire sul nostro aereo c’era Balzaretti, il
calciatore!
Arrivati
a Fiumicino siamo stanchi morti, e ridiamo del fatto di essere stati in vacanza
ed essere tornati più stanchi di quando siamo partiti ma nonostante la
debolezza e la voglia di tornare a casa per poter dormire nel nostro letto e
non doversi più svegliare la mattina alle sei, siamo felici. Siamo felici di
aver finalmente scoperto un mondo diverso dal nostro, di aver riscoperto certi
valori a cui non siamo più abituati e di aver conosciuto tante persone interessanti.
Vorremmo dormire e risvegliarci ancora ad Anakao su quella spiaggia piena di
Piroghe. Ora capiamo perché si chiama Mal d’Africa.
Poi torniamo a casa a Grosseto, mi faccio una doccia
veloce e mi preparo per uscire per un impegno lavorativo che avevo in calendario
da prima di partire. Esco che è già buio e rimango abbagliata dalle luci delle
case, dai fari delle auto e dai lampioni e mi rendo conto che in Madagascar mi
ero abituata al buio.
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