giovedì 2 maggio 2013

Iaban’i Boto Misa, il contadino malgascio che «collaborò» con i bianchi del trattore e fu punito dalla sua gente


L’avventura raccontata da Davide Boschi

L’avventura raccontata da Davide Boschi è un capitolo del suo libro In aqua veritas, pubblicato dal Gruppo Albatros Il Filo, la cui uscita è prevista a settembre. A Davide, che vive e lavora a Fidenza, chiediamo per quale ragione all’inizio degli anni Ottanta si trovasse in Madagascar. «Feci servizio alternativo al militare, quando uscì per la prima volta una legge che consentiva di evitare l’obiezione alle armi (unica opzione possibile fino al 1980-81 per non svolgere il normale servizio di leva), prestando un servizio appunto alternativo all’addestramento per l’uso delle stesse, senza per questo obiettare in coscienza all’impiego delle medesime in senso assoluto. Sembra una cagata, ma in un Paese come il nostro fu una notevole “evoluzione”. Sinceramente non so che fine abbia fatto questa legge, ma fu in quel preciso contesto che la mia partenza ebbe luogo. La mia “ferma” alternativa doveva durare un minimo di due anni, ma nel mio caso ne durò quattro. Il primo anno lo passai in Italia, presso le case della carità di don Mario Prandi e una «scuola» di agricoltura rurale per l’Africa. Questo periodo servì anche all’organismo di R.T.M. (Reggio Terzo Mondo) per valutare le mie attitudini psichiche, prima di spedirmi in luogo tanto remoto. I tre successivi li trascorsi interamente in Madagascar, con base alla Fondation medicale d’Ampasimanjeva, lungo la costa sud orientale. Una volta, passando per Tanà (Antananarivo), la capitale,  telefonai a casa. Mi costò l’equivalente di 104 mila lire (qualcosa come quattro o cinque mensilità dei miei amici di Ampasimanjeva). Piangerei ancora oggi dalla rabbia. Non telefonai mai più».

Iaban’i Boto Misa, il contadino malgascio che «collaborò» con i bianchi del trattore e fu punito dalla sua gente
di Rahalakely Davida *
Lo vedevo arrivare, lungo il sentiero di terra rossa che si apriva nella fitta vegetazione, con l’inconfondibile incedere di chi aveva camminato per tutta la vita. Magro come la fame, con le gambe ossute e sottili come due canne di bambù che gli spuntavano da un perizoma lacero, sotto un «akanjo be» (copribusto tribale) tessuto con la paglia di rafia.
L’inseparabile machete dal manico lungo, appoggiato a bilanciere su una spalla, reggeva il fagotto da viaggio, anch’esso intrecciato con la stessa fibra vegetale del vestito, mentre la vecchia mano color palissandro, percorsa da mille cicatrici e rughe nere, ne controbilanciava il peso.
C’era ancora una parvenza di forza che emanava da quella figura anziana, quella forza che non si vede ma che lascia intuire la sua presenza. Forse proveniva dai piedi, enormi, a pianta larghissima e decisamente sproporzionati rispetto al resto del corpo. Le migliaia di chilometri percorse da quei piedi, che non avevano mai conosciuto calzature, avrebbero disintegrato qualsiasi pneumatico e, a dispetto delle gambe, nessuno che li vedesse avrebbe mai osato definirli «dolci». Quando raggiungeva la soglia di casa mia, dopo aver percorso i 24 chilometri che la separavano dalla sua capanna nel cuore della foresta, allungava la mano in religioso silenzio per dare inizio al lungo saluto che dovevamo scambiarci e celebrare sempre, nella circostanza di quegli incontri.

Si trattava del «Finaritra» (parola intraducibile). Una serie di domande e risposte rituali che strutturavano questo singolare e complesso saluto, caratteristico solo della tribù degli Antaimoro. A Finaritra concluso, talvolta, mi chiedeva educatamente il permesso di potersi sedere per riposare un po’. Si scusava dicendo che ormai era diventato vecchio, quasi a lasciarmi intendere che da giovane non si sarebbe certo dovuto riposare dopo una passeggiatina del genere.
Il suo nome, tradotto in lingua italiana, significa: «Il padre di Boto Misa» (Boto Misa era il primo dei suoi figli).
Questo perché nella foresta del Madagascar, dove egli era nato e vissuto, ogni persona col trascorrere degli anni perde progressivamente il proprio nome di gioventù, assumendo quello dei figli più grandi. Maschi o femmine che siano. Nella tribù degli Antaimoro la vita umana è considerata un breve episodio, che può assumere valore in un contesto più grande solo nella misura in cui prosegue anche dopo di noi, attraverso ciò che abbiamo generato e lasciato in eredità a questo mondo. I figli, a pieno titolo, fanno parte di questa eredità.
Iaban’i Boto Misa era considerato da tutti «Olona Masina» (uomo salato), ovvero: un santo.
Era un profondo conoscitore del rito ancestrale, delle usanze della tribù, ma la sua straordinaria intelligenza, già intercettata in passato da un fervido etnologo gesuita, gli aveva consentito di comprendere il significato della religione cristiana e della sua liturgia. Il suo coraggio poi, lo aveva spinto a tentare di coniugarne il valore umano con quello del rito tribale, consacrandolo catechista del villaggio.

La scelta di votarsi in qualche modo al cristianesimo e alla «cristianizzazione» della sua gente, gli aveva procurato diversi nemici, almeno fra gli indigeni più conservatori. Infatti, l’animismo originario di questo popolo era insito in ogni loro quotidiano gesto, dalla coltivazione delle risaie alla pesca nel mare o nel fiume, fino alle regole che governavano la convivenza sociale.
Molte delle antiche usanze che riguardavano la coltivazione, ad esempio, erano anche alla base della deficienza alimentare e delle precarie condizioni sanitarie in cui versava la popolazione e il tentativo di cambiarle convertendole in abitudini più sane e produttive spaventava i più timorosi, così come faceva incazzare i più bellicosi.
Periodicamente qualche bastardo incendiava la casa di Iaban’i Boto Misa, fatta di legno, cortecce e foglie, oppure dava alle fiamme i raccolti delle sue risaie, con gli alberi da frutto, le piante di caffè o quelle di garofano. Questi attentati gli rendevano la vita un vero calvario. Inoltre, contribuivano ad ingigantire il suo profilo, per così dire spirituale, sortendo un effetto contrario a quello per il quale venivano concepiti e portati a compimento. Ormai, per annientare Iaban’i Boto Misa e, quelle ritenute le sue velleità progressiste, non restava che ucciderlo. E questo, lui lo sapeva bene. Nonostante ciò, anche quel giorno era venuto fin da noi, alla Fondation medicale d’Ampasimajeva, per parlare di un progetto che lo riguardava molto da vicino e del quale gli avevamo già accennato tempo prima: si trattava di costruire un barrage (uno sbarramento in terra battuta) che avrebbe  racchiuso le acque piovane in un piccolo bacino, il quale si sarebbe formato a monte delle sue risaie.


Un canale «deversoir» scavato a una certa quota avrebbe consentito di far defluire a valle delle risaie stesse l’acqua delle grandi piogge, salvando i raccolti dalle inondazioni, mentre qualche tubo galleggiante avrebbe attinto l’acqua dal bacino di raccolta per una irrigazione più calibrata nella stagione secca, convogliandola in un canale più basso che avrebbe alimentato direttamente i terreni coltivati.
Si trattava insomma di una vera e propria innovazione tecnologica che non badava certo all’umore degli spiriti e non teneva in nessuna considerazione il loro eventuale parere. La realizzazione di questa piccola opera rurale nella foresta, doveva servire come esempio per la popolazione locale, a dimostrare la possibilità di avere qualche ragione contro le ingiurie delle stagioni che, già a quei tempi e in quel luogo così remoto della terra, non erano più quelle di una volta.
Nel contempo però, avrebbe attirato su Iaban’i Boto Misa le ire e l’invidia dei suoi nemici, pronti ad incolparlo per ogni genere di disgrazia che fosse capitata alla tribù, dai fulmini alle esondazioni del fiume, dalle malattie ai decessi, tutto causa il suo atteggiamento poco accorto al volere degli spiriti degli antenati.
A dire il vero anche altre persone erano in seguito venute a chiederci di costruire qualcosa di simile sulle proprie risaie, ma noi avevamo pochissimi mezzi e ancor meno esperienza. Dovevamo provare con gente affidabile, e su risaie lontane dai villaggi. A riaccendere l’interesse per il «progetto barrage» era stato l’arrivo dall’Italia del nuovo trattore, con tanto di escavatore posteriore e pala anteriore, che io e Giorgio eravamo andati a sdoganare nel lontano porto di Tamatave. Un viaggio epico, durato 15 giorni, di cui una settimana interamente trascorsa al volante del trattore stesso, sulla via del ritorno.
A bordo di questo potente prodigio dell’ingegno umano avevamo fatto un rientro trionfale al nostro ospedale nella foresta, attraversando il villaggio di Ampasimanjeva con un codazzo di gente e di bambini pericolosamente appesi ad ogni parte del mezzo agricolo che non ruotasse.

Cominciammo i lavori in piena stagione secca, l’unica durante la quale era possibile raggiungere col trattore le terre di Iaban’i Boto Misa. Quattro ore di viaggio ci separavano da quelle lontane colline di «brousse»  (una sorta di savana malgascia) e le impiegavamo percorrendo prima la strada lungo il fiume e poi deviando a nord, lungo il tracciato di una vecchia e ormai invisibile pista risalente ai tempi della colonia. Il percorso e le condizioni di questa «strada» avrebbero scoraggiato anche un team del Camel Trophy.
Provvedemmo così a sistemare alcuni guadi e a scavare qualche passaggio in costa alle colline più ripide, per non dover rischiare di lasciarci la pelle o anche solo il trattore a ogni viaggio. La capanna di Iban’i Boto Misa, in mezzo a quell’immensità selvaggia e deserta, si stagliava all’orizzonte sulla cima di un rilievo erboso, con la tipica «architettura» che contraddistingue le abitazioni Antaimoro: due costruzioni adiacenti con lo scheletro in legno, le pareti foderate di corteccia di ravinala (palma a ventaglio endemica e simbolo del Madagascar) e la copertura del tetto, a doppio spiovente, rivestita con le grandi foglie della stessa palma. Ognuna con due ingressi perfettamente orientati sull’asse est ovest, dove la porta occidentale fungeva da entrata e uscita per i vivi, mentre quella orientale era solo l’uscita per i morti.
Le due capanne sarebbero state nei giorni a venire il nostro unico rifugio, la nostra casa. Quella costruita per noi era la più nuova, profumava ancora di rafia e di rapaka, di stuoie intrecciate da poco, di vegetazione che l’uomo aveva estratto dall’ambiente naturale che lo circondava per forgiarla ai suoi bisogni. Un prodigio di simbiosi fra l’essere umano e il creato. Imparai ben presto ad avere più considerazione degli spiriti degli antenati, che forse, avevano davvero qualcosa da insegnarci. A ogni viaggio portavamo con noi un po’ di sale, dell’olio e qualche gallina, con un bel sacchetto di riso a parte.

La moglie di Iban’i Boto Misa trasformava queste poche cose in piatti succulenti oltre ogni immaginazione, che divoravamo senza un minimo di educazione, incuranti del fatto che tali quantitativi di cibo, da quelle parti, avrebbero sfamato intere famiglie e non due sole persone. All’ora di pranzo ci sedevamo per terra nella nostra capanna, mentre dall’altra, dove fra i tre sassi del focolare qualcuno cucinava, arrivavano i bambini che ci portavano i piatti e le foglie di palma con il riso e il «contorno» di pollo. Furono giorni indimenticabili, di quelli che lasciano tracce nitide nella memoria, nelle viscere, e nell’anima.
Il barrage cresceva lentamente. Io con l’escavatore estraevo la terra dal fianco della collina settentrionale, poi, sollevati i piedi idraulici del trattore, Giorgio la distribuiva con la pala nell’avvallamento che la divideva da quella meridionale. La piccola diga avrebbe avuto un fronte piuttosto corto, ma un’altezza tutto sommato considerevole, nel tentativo di ottenere un bacino sufficientemente capiente.
Il lavoro durò circa sei mesi, durante i quali partivamo all’inizio di ogni settimana per recarci sul posto e ritornavamo a casa nostra, alla Fondation Medicale, al giovedì o al venerdì, per fare rifornimento e riposare. In quei tre giorni bisognava curasi dalle infezioni, squassarsi di dosso qualche attacco di malaria, noi non avevamo la tempra degli Antaimoro né i loro anticorpi. La vita di brousse, lontano dal nostro ospedale, se presa sottogamba avrebbe anche potuto «ricongiungerci prematuramente ai nostri antenati…».
A volte, io e Giorgio, ci fermavamo a riflettere sui rischi che stavamo correndo: anche un banale incidente, là, in mezzo alla savana, avrebbe potuto trasformarsi in tragedia. Un ribaltamento del trattore, una frattura, una impantanata nella palude che sfilavamo quotidianamente potevano essere fatali. Sarebbe bastato davvero poco. Il sito era quasi irraggiungibile anche con una Land Rover, che avrebbe comunque impiegato non meno di un giorno per recuperare ed evacuare un ferito. Una pioggia forte e improvvisa avrebbe trasformato in mille isolette le colline da attraversare (evento del tutto normale in quei luoghi), impedendo di fatto ogni possibilità di transito. Un giorno, per esempio, rischiammo di perdere l’intero trattore nella palude.

Il baragge era già piuttosto alto sul livello dell’acqua, forse un paio di metri, tanto che avevamo già dovuto scavare il canale di drenaggio per metterci al riparo dalle possibili conseguenze di un acquazzone fuori stagione. Cosa tutt’altro che infrequente. Giorgio, nel tirare la pala, si spinse troppo sul bordo del terrapieno, ancora tenero e friabile. Perse il controllo della motrice nel tentare una frettolosa retromarcia e cominciò a sprofondare lentamente ma in modo inesorabile verso l’acquitrino fangoso, mentre le ruote giravano a vuoto scavandosi la fossa da sole. Eravamo disperati, impotenti di fronte a ciò che stava succedendo. Giorgio aveva perso le staffe e in quelle condizioni diventava difficile anche solo parlargli, cercare di calmarlo.
Iaban’i Boto Misa era atterrito. Con il manico dell’angady (vanga malgascia) stretto fra le mani, quasi fosse l’unico appiglio per salvare la situazione, non riusciva nemmeno a immaginare l’enorme quantità di denaro che potesse valere quella macchina che si stava per essere inghiottita dalla sua terra. Avrebbe forse donato un arto pur di evitare un disastro di quelle proporzioni. Io quel trattore non lo guidavo quasi mai, la mia postazione era quella del «Parker», sul sedile dell’escavatore. Quello sapevo manovrarlo come il mio braccio destro. Merda per merda, rivolgendomi a Giorgio, dissi la mia: «Mettiti al volante, blocca i differenziali e fai andare la presa di forza. Io pianto la benna dell’escavatore sul terrapieno e cerco di trascinare sù, il culo di questo affare».
Giorgio era troppo incazzato per trovare sollievo in un’idea così strampalata, ma non avendo alternative si affrettò a prendere il suo posto, pur continuando a scuotere la testa in segno di disapprovazione.
«Gas! Gas! Accellera!»
Il braccio idraulico dello scavatore, piantato sulla terra più solida, riusciva effettivamente a smuovere l’asse posteriore del trattore dal pantano e a trascinarlo poco a poco verso l’alto. Le ripetute zampate della benna, rovinavano in parte il lavoro portato a termine nei giorni precedenti sul terrapieno, ma, a un certo punto… I grandi pneumatici smisero di girare a vuoto, i tacchetti agricoli fecero presa su un terreo più solido e, come un rinoceronte che si rialza da una pozza di fango, la macchina risalì la china, rimettendosi in piedi. Per un attimo restammo a guardare increduli il nostro Fiat 880, grondante di melma nera e indifferente al resto del mondo, prima di abbandonarci alla gioia e alla commozione per lo scampato disastro.
Quando scendeva la sera sulle colline della brousse, il cielo si tingeva di un rosso infuocato e la luce del tramonto diventava densa come vernice, colorando tutto ciò che investiva con le stesse tinte fiammeggianti del cielo. Per un quarto d’ora almeno, ogni cosa, ogni persona, animale o pianta, diventava di un colore arancio intenso come in un incantesimo. Sembrava di essere immersi in un bicchiere di Aperol.
Gli Antaimoro dicevano che quello era il momento giusto per presentarsi alle persone, per andare a chiedere qualcosa a qualcuno, perché quella luce rendeva tutti più belli e metteva il buon umore anche ai più scontrosi. Era verissimo. La pelle bruna delle gente diventava dorata, i loro occhi brillavano come pietre preziose e le giovani ragazze si fermavano sorridenti, mostrando i seni, col preciso intento di farti innamorare. Io stesso, pallido al loro confronto e stinto come un cencio, diventavo bronzeo come un guerriero Sioux. Era divertente guardare il colore delle mie braccia e delle mie gambe, finalmente un po’ più intonato a quell’ambiente, così lontano dalla terra e dalla gente che mi aveva generato. Poi, lento e silenzioso sopraggiungeva il buio, quello vero, rischiarato solo dalle stelle fuori dalla capanna o da una candela sotto il tetto di foglie. Non c’erano lampadine a rischiarare il cortile, né rombanti gruppi elettrogeni che le alimentassero. I fruscii della notte s’impadronivano di tutto, nel vento che alitava ancora caldo, mentre gli animali notturni lasciavano i loro rifugi per dare inizio alle scorribande di caccia.
Quando sorgeva, la luna poteva illuminare a giorno quegli spazi immensi con la sua luce fresca e argentata. Nelle notti di plenilunio si poteva leggere comodamente anche un libro, senza venir divorati dalle zanzare o da altre mille falene attratte da luci artificiali. Alla Fondation medicale, lo spegnersi del generatore sanciva ufficialmente l’inizio della notte fonda, con un buio improvviso e un «acufenico» silenzio, ma qui, lontano da tutto e da tutti, la notte arrivava da sola, senza bisogno degli uomini.
A volte, dopo che noi avevamo cenato (lui raramente lo faceva), Iban’i Boto Misa, veniva a sedere nella nostra capanna, quella che lui stesso aveva costruito per gli ospiti importanti, come ci riteneva essere, e si concedeva alle nostre domande. Le più discrete erano quelle di Giorgio, che di solito giravano un po’ intorno al nocciolo delle questioni, come si usa fare in Madagascar per essere educati. Un tantino più impertinenti erano invece le mie, che formulavo in maniera un po’ troppo diretta, in un malgascio ancora stentato, alle prime armi.



Imperterrito il vecchio saggio rispondeva a tutti e due, non soltanto in metafore e proverbi, come si conveniva a un vero anziano e come egli avrebbe ben saputo fare, ma anche in modo esplicito, sfacciato avrebbe detto un Antaimoro, ma più chiaro e comprensibile per un occidentale.
Una cosa che faceva infuriare i «reazionari» della tribù, e anche buona parte di tutti gli altri, era proprio che qualcuno, peggio ancora un saggio, andasse a raccontare a degli stranieri – per giunta bianchi – le cose «intime» delle usanze e dei riti tribali. Iaban’i Boto Misa non lo faceva certo per soddisfare la mera curiosità di due europei ficcanaso, ma perché sapeva benissimo che proprio in quelle credenze stava il nodo cruciale del problema, e che soltanto comprendendole avremmo capito con che cosa avevamo a che fare. Il problema infatti, non era costruire uno sbarramento di terra in sé e per sé, ma piuttosto l’evidente volontà di voler sovvertire la natura delle cose. Gli antenati non costruivano barrages. Erano forse più stupidi di Iaban’i Boto Misa?
L’empietà dunque, aleggiava sulla testa di quell’uomo come una malefica aureola. Non sarebbe mai andata giù a nessuno. Il fatto che poi si facesse aiutare da dei bianchi con un trattore rombante, poteva solo peggiorare le cose. Lui rischiava per il bene dei suoi figli, della sua famiglia e di tutta la sua gente, anche quella che non lo accettava, ma noi due? Perché lo facevamo? Il sospetto e la diffidenza degli indigeni ci seguiva come le nostre ombre, ovunque andassimo. Pochissima gente ci poneva la fatidica domanda verbalmente, salvo qualche ubriaco, esautorato dalle buone maniere per effetto del suo stato d’ebrezza, ma tutti la pensavano.
Iaban’i Boto Misa era uno dei pochi indigeni a comprendere lo spirito missionario che animava la vita di Giorgio (io ero solo un giovane amico che lo aiutava). Egli s’era convertito al cristianesimo da tempo, grazie all’etnologo gesuita, Père Du Buois, col quale ai tempi della legione straniera durante la colonizzazione francese, aveva condiviso parte della sua giovinezza. Père Du Buois, aveva convertito Iaban’i Boto Misa, sì, ma era inesorabilmente penetrato nei meandri della cultura ancestrale, condotto per mano dall’allora giovane amico Antaimoro. E, da quell’intricata foresta, non sarebbe mai più uscito. Suo malgrado, in quanto studioso e religioso, si «guadagnò» nell’ambiente ecclesiastico l’appellativo un po’ méprisant (sprezzante, ndr) di: «l’ultimo degli Antaimoro». Ma quella di Père Du Buois è un’altra storia.
Dunque, i veri ostacoli da superare, i nemici da cui guardarsi, non erano le colline della brousse o le alluvioni dei cicloni tropicali e nemmeno la malaria, erano l’animismo fideista e la mentalità di molti uomini della tribù. Troppi, a dire il vero. Se Giorgio e io eravamo visti male da molti di loro, Iban’i Boto Misa sapeva per certo di essere odiato. Alle sue spalle tanti dicevano che, una volta morto, non sarebbe rimasto nella tomba del suo clan per molto tempo, anzi, qualcuno addirittura scommetteva che non vi sarebbe nemmeno entrato. Se c’è una cosa fra gli Antaimoro, ritenuta più grave della morte stessa e più grave ancora dell’omicidio, è proprio quella di non riuscire a entrare nella tomba dei propri avi una volta trapassati e lì, fra le loro anime, poter riposare per sempre. Pur di riuscire in questo intento un Antaimoro è disposto a fare qualsiasi cosa, anche a uccidere se è necessario. Per contro, la presenza di una salma «sgradita», cioè di un defunto che, seppur discendente di quel clan non è ritenuto degno di restare fra i suoi antenati, è una faccenda altrettanto ispida e pericolosa. In Madagascar, alla base di ogni diatriba che finisce nel sangue, c’è sempre una questione di morti e di tombe. Gli sgarri, gli interessi personali, l’astio verso il nemico, sono soltanto un contributo aggiunto al motivo principale.
Il vero movente di ogni omicidio, sta sempre già dentro a una tomba. Oppure nel fatto che, nella tomba, non è potuto entrare.
Una modalità di assassinio che ai nostri occhi occidentali risulta forse più barbara e bestiale dell’assassinio in sé, è proprio quella che si adotta in Madagascar per ammazzare un uomo ritenuto «a tal punto ignobile»:  il cadavere viene smembrato, tagliato a colpi di machete in tanti piccoli pezzi che poi vengono sparsi e buttati in ogni dove, in luoghi lontani, in mare, dove comunque non possano essere ritrovati e ricomposti. Ebbene questa non è esattamente «selvaggia barbarie», ma un preciso – singolarmente «umano» – intento d’impedire l’inumazione.
Forse allora non capivo l’inconsolabile tristezza che si intuiva negli occhi di Iaban’i Boto Misa, ma col passare del tempo, temo di esserci riuscito.
Venticinque anni dopo aver concluso i lavori sul nostro baragge, il Madagascar per me era diventato ormai un lontano ricordo, quando un giorno, mi arrivò una e-mail, forse dall’ufficio di Reggio Terzo Mondo, la sede italiana dell’organismo missionario. La lessi e poi mi guardai le braccia, bianche come due piedi di maiale bolliti che incorniciavano la tastiera; le gambe grasse, sotto la pancia pingue che per un attimo avevo dimenticato di avere. Tanto le cose del mio ufficio quanto gli attrezzi del mio laboratorio riapparvero improvvisamente intorno a me, come se non li avessi mai visti prima. La mail che sembrava venire dal passato remoto, da un luogo lontanissimo di questo mondo, era telegrafica: Iaban’i Boto Misa tornato alla casa del Padre.
Immaginai la strada di terra rossa lungo il fiume che portava al villaggio di Vohimasina e la pista delle colline, in mezzo ai Ravinala, con le loro inconfondibili chiome a ventaglio. La gente urlante e invasata che correva da una parte all’altra, mescolando il chiassoso rito funerario animista a quello cristiano, più silenzioso e composto. Mi sembrava di vedere la portantina di legno con il «feretro» avvolto nel drappo rosso che contraddistingue i Mpanjaka (i re, le persone importanti, quelli che hanno avuto un peso), sollevata dai giovani sopra le loro teste, sopra le loro stesse grida. Un funerale Antaimoro bisogna vederlo, non si può descrivere.
Ma quello non era un funerale come gli altri, non avrebbe potuto esserlo. Le grida e i gli atteggiamenti minacciosi dei giovani nel corteo, non erano il solito formale «decoro» per enfatizzare e dare importanza alla cerimonia. Stavolta sarebbero stati cazzi amari sul serio. Durante i funerali buona parte della gente che segue il corteo è ubriaca, o comunque fortemente alterata dall’alcol, con tutte le logiche conseguenze. A questa sostanza vengono attribuite proprietà espiatorie, sia come liquido da aspersione per i sacrifici, sia per l’effetto disinibente che provoca come bevanda. Da sobri certe cose non si possono né fare né dire, ma da ubriachi è un’altra cosa. Si può tutto.
Com’erano lontane da me quelle immagini, disgiunte dal mio computer, dalle pareti del mio ufficetto, dal portone del mio capannone, così italiano, così emiliano. Giorgio era sempre rimasto in Madagascar, fin dagli anni Settanta quando era partito missionario e lo rivedevo solo una volta ogni tre anni, quando rientrava in Italia per il consueto congé, così non sapevo a chi chiedere, chi chiamare.
Potevo solo restare davanti a quella pagina di Outlook, fissando il cursore che continuava a lampeggiare, dopo aver digitato «rispondi».
Sì, ma a chi?
Passarono altri due anni dalla notizia della morte del nostro amico prima che Giorgio rientrasse in Italia e gli potessi chiedere di persona notizie sull’accaduto. Scosse la testa, un po’ più mestamente di quando il trattore, tanti anni prima, stava per affondare nella palude, e poi disse: «E come volevi che andasse eh? Hanno profanato la tomba portando via il corpo. Era logico no? Nella sua famiglia sono disperati, sai bene che là queste cose non hanno mai fine: si trascinano per generazioni provocando solo disgrazie, guerre in risposta alle guerre. I figli e i nipoti non si daranno pace fino a quando non avranno riportato i suoi resti nelle tomba di clan e suoi oppositori faranno altrettanto e anche di più per tenerlo fuori. Gli Antaimoro non cambieranno mai, Iaban’i Boto Misa era uno troppo avanti, non so dove trovasse il coraggio per fare quello che faceva. Un po’ è anche colpa di noi missionari, bisogna dirlo, ma alla fin fine le scelte credo siano state solo le sue».
Dunque l’incubo di Iaban’i Boto Misa si era avverato. L’ultima cosa che avrebbe voluto, nella vita come nella morte, era che i suoi figli e i suoi discendenti pagassero lo scotto delle sue scelte forse troppo ardimentose. E invece era proprio quello che il destino gli aveva riservato.
Soltanto oggi, a distanza di trent’anni ho sentito il bisogno di mettere in un file, il nome di questo uomo. Il nome del più grande rivoluzionario che io abbia mai conosciuto, prima che si potesse perdere per sempre.
* Davide Boschi

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Foresta Pluviale


Un mosaico di licheni, muschi, liane, orchidee e grandi alberi. Anfibi e volatili dai mille colori, bradipi, formichieri, felini, primati e milioni di specie di insetti.
Considerazioni sull’ecosistema piu`ricco di specie del nostro pianeta

La foresta tropicale si estende come una cintura sempreverde attorno alla Terra seguendo la linea dell’equatore. In Amazzonia, nel bacino del fiume Congo e nel sud est asiatico ci sono le aree piu`estese di foresta tropicale. Queste coprono all’incirca il 5% della superficie della terra e nonostante questo rappresentano l’habitat esclusivo di milioni di specie, regolano l’equilibrio idrico ed il clima, immgazzinano l’anidride carbonica e prevengono l’erosione del suolo. La grande biodiversita`e`favorita dall’intensita`del sole, le alte temperature e almeno due mila litri di pioggia per metro quadrato all’anno.

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Oranghi, felini e tucani hanno bisogno necessariamente della foresta per vivere. Assieme ad ogni porzione di foresta disboscata muoiono, sicuramente ed irreversibilmente, diverse specie vegetali ed animali - si stima che ogni giorno spariscono 150 specie. In molti casi sono le stesse popolazioni originarie che diventano le protagoniste della difesa della biodiversita` contrastando le pressioni della “modernita` sviluppata”. Cosi`, per esempio, sono loro ad essere in prima linea contro le compagnie palmicultrici e petrolifere. Per queste popolazioni la perdita delle superfici di foresta rappresenta anzitutto un dramma ed un pericolo, ma e`lo stesso anche per noi. Tutti perdiamo con la distruzione dei polmoni verdi del pianeta. Poiche` immagazziniamo CO2, abbiamo bisogno delle foreste per regolare il clima mondiale. La loro sparizione e la crescente desertificazione sono pericoli concreti in ogni lato del pianeta. L’umanita`nel suo insieme perde un tesoro di un valore incalcolabile, per ogni specie vegetale o animale che sparisce. L’estinzione delle specie e`un problema irreversibile, irrimediabilmente.


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Bekopaka Autoroute


Dopo Davide Boschi scopriamo che un altro fidentino molto noto è andato alla scoperta del Madagascar. È Marco Cavallini, appassionato viaggiatore e fotografo che sul suo sito racconta una bella fetta di mondo.
di Marco Cavallini

Continuo a leggere notizie angoscianti sul Madagascar, paese poverissimo e popolato da gente pacifica sempre sorridente e disponibile, e mi tornano alla mente i tanti momenti e i tanti incontri indimenticabili vissuti durante le mie visite, e allora perchè non raccontare qualcosa… così per cercare di regalare un po’ di attenzione ad uno dei tanti paesi dimenticati dai mass-media ma purtroppo non dai grandi interessi, e magari serve un po’ anche un semplice racconto di viaggio magari scritto maluccio.
Arrivato all’aeroporto di Tana (popolare abbreviazione di Antananarivo), mi dirigo subito agli imbarchi nazionali per prendere il volo per Morondava,  non prima di essere stato intercettato da due infermieri che mi porgono due pastiglie contro il colera (sempre pronto a mietere vittime in varie zone dell’isola rossa!) e un bicchiere d’acqua. Mentre mi allontano per appoggiare il bagaglio, con le pillole in mano, vengo seguito dall’infermiere che mi cura perchè «pare» che i vazaha (termine malgascio per indicare gli stranieri) abbiano la pessima abitudine di tenere le pillole sotto la lingua per poi sputarle nella toelette.

Salito sul TwinOuter (piccolo e «spettacolare» aereo da 18-20 posti che rappresenta la maggioranza della flotta aerea malgascia), grazie all’effetto-culla che mi fanno gli sballottamenti, vengo subito colto dal sonno per poi svegliarmi mentre l’aereo barcollando punta verso una pista invisibile, mimetizzata in un paesaggio da favola dominato da migliaia di baobab, ma guardando la tranquillità degli altri (pochi!) passeggeri mi convinco che non stiamo precipitando ma che quella striscia marrone che piano piano appare alla visuale è proprio una specie di pista d’atterraggio!
Arrivato a Morondava e superato il rumoroso sbarramento dei taxisti, comincio subito a cercare informazioni per organizzarmi il viaggio agli Tsingy di Bemaraha, uno degli obiettivi naturalistici di questo mio viaggio, ma la strada da fare è decisamente lunga e impegnativa. È necessario noleggiare un 4×4 con autista e quindi anche trovarsi un qualche compagno di viaggio per suddividere la spesa, e allora capita il caso di incontrare Bernard: un giovane maestro svizzero arrivato sull’isola rossa per fare visita ad un vecchio zio trasferitosi lì da anni a coltivare la sua passione botanica, che certamente qui ha trovato la sua realizzazione vista la quantità di piante uniche (tra cui gli stranissimi baobab, le piante carnivore e molte curiose specie di piante grasse, nonché un’infinità di orchidee) che popolano l’isola. Pare che circa l’80% tra flora e fauna qui presente proliferi soltanto in Madagascar, anche se purtroppo i continui disboscamenti attuati per coltivare (bruciando le foreste!) o per raccattare legname hanno piano piano ridotto l’isola da un giardino strepitoso ad una terra bruciacchiata con solo qualche rara e protetta «aiuola»!

Alle 5 della mattina partiamo, e appena usciti da Morondava ci immettiamo sulla Statale, una lunga pista sabbiosa contornata da cespugli e piante che non ci permettono una grossa visuale dell’ambiente circostante: sembra semplicemente una striscia di sabbia rossa che lotta per non essere riassorbita dall’immensa foresta circostante. Dopo una quindicina di chilometri ci troviamo nell’Avenue du Baobab, una delle zone più famose del Madagascar dove migliaia di baobab contornano la strada, e si differenziano dai loro parenti del continente africano perchè invece di presentare una grossa “chioma”, sopra il loro massiccio tronco (sembrano dei patatoni!!) presentano solo radi ciuffetti, fino al “monumento degli innamorati”, due baobab intrecciati che per il loro significato hanno purtroppo subito la triste abitudine delle incisioni delle iniziali delle coppie di innamorati sul proprio tronco.
Malgrado i salti (quante craniate!!!) e gli insabbiamenti, Bernard si addormenta per poi risvegliarsi quando ci troviamo di fronte allo Tsiribihina, un importante fiume che dovremo attraversare per riprendere la strada, e non trova di meglio da fare che procurarsi, in modo tuttora a me oscuro, due bottiglie fresche di birra, la famosa Three Little Horses (la cui traduzione “casualmente” mi suona molto famigliare!) che ci beviamo mangiucchiando dei pesciolini fritti su un tavolo nello spiazzo vicino a riva, senza accorgerci che intanto tutta la gente si è spostata e all’improvviso ci troviamo circondati da una numerosa mandria di zebù (le mucche con la gobba, n.d.r.!!!) arrivate sulla riva per abbeverarsi ….. e io mi sento tanto Ernesto Calindri!! :-) )

Però resta il problema di procurarci la benzina e dopo una lunga trattativa, mi vengono portate alcune casse da dodici di bottiglie di birra che però contengono benzina(!!), quindi fatto il pieno saliamo in auto sulla chiatta quasi manuale (di ponti non c’è traccia!) che ridiscenderà lo Tsiribihina per alcuni chilometri fino a ritrovare la pista.
Appena sbarcati incontriamo un canadese che da alcuni mesi sta arrancando in bicicletta per l’isola.
Riprendiamo quindi la strada in un ambiente un pò più brullo, caratterizzato dalla presenza di baobab più giovani e sottili di quelli visti finora, che io ribattezzo “baobini”!! :-)
E quando ormai giunge il tramonto ci troviamo all’ultimo fiume, però dobbiamo abbandonare il mezzo e possiamo attraversare soltanto grazie a delle piccole canoe (su cui ovviamente bisogna stare immobili!) e in venti minuti di buio pesto arriviamo sull’altra sponda e finalmente chiedo (ovviamente solo adesso, perchè stamattina mi ero cambiato le mutande!!) se il fiume è popolato da coccodrilli e altrettanto “ovviamente” mi viene data risposta positiva!
Ma adesso il problema è come raggiungere l’alberghetto dove dovremmo passare la notte, è già buio pesto, le zanzare cominciano a farsi sentire e la stanchezza per il viaggio anche, quindi l’idea di farci una camminata al buio di un’oretta non è certo stimolante … ma sotto un’enorme acacia vediamo parcheggiato un fuoristrada, praticamente un miraggio (!!), carico di casse di birra e sacchi di patate e carote, che sta aspettando l’ambasciatore francese e due suoi ospiti momentaneamente impegnati in una battuta di caccia, visto che per molti francesi dall’innato spirito colonialista l’isola rossa altro non è che un terreno di caccia, in tutti i sensi! (:-
Non che ci piaccia molto la compagnia, ma la stanchezza prevale sull’etica e ci facciamo dare un passaggio, “comodamente” seduti e legati sul tetto del fuoristrada, per rimanere però a piedi dopo pochi chilometri, ovvero alla prima grossa buca; ma dopo mezz’ora a favoleggiare su un’ambita quanto improbabile zuppa di birra a base di patate e carote, la fantasiosa e vitale arte d’arrangiarsi, tipicamente africana, dell’autista ha la meglio e la macchina riprende il cammino.
Arrivati a destinazione nel piccolo villaggio di Bekopaka, mi trovo subito davanti ad una bistecca di carne di zebù con ai lati una salsina verde, in cui con “prontezza” intingo la carne per poi rimanere un buon dieci minuti con la bocca aperta e senza parole (strano a credersi, ma vero!!) in attesa che si spenga il clamoroso incendio che nella gola!

Dopo il giusto riposo, all’alba siamo subito in piedi per incamminarci verso gli Tsingy ed essendo piovuto durante la notte ci viene sconsigliato di andare al Grande Tsingy (per visitarlo bene ci vorrebbero comunque tre giorni e va fatto in periodo assolutamente secco!) quindi ci dirigiamo verso il piccolo. Sulla riva del fiume ci sono tutte le donne di Bekopaka (un villaggio popolato prevalentemente durante la stagione asciutta) che l’una con l’altra stanno lavorando alle capigliature e rimango estasiato ad osservarle mentre suddividono la superficie cranica in 8 parti facendo altrettante trecce che poi annodano tra loro fino a trasformare la testa in una bellissima composizione artistica, che sfoggeranno in occasione della grande festa di stasera per l’Ambiente!
La moglie di Marcel (la nostra strepitosa guida malgascia!) mi invita a danzare con lei stasera perchè ci sarà anche un grande concorso, ovviamente mi rivolgo “preoccupato” a Marcel dicendogli che non so ballare ma lui mi zittisce immediatamente asserendo che con due birre sarei diventato un grande ballerino e che sua moglie ci tiene a classificarsi prima di lui nel concorso, bella prospettiva!!! :-)
Davanti al sentiero da cui si accede al piccolo tsingy, c’è una tenda canadese: per sei mesi all’anno è la casa di JeanClaude un geologo francese che vive sei mesi a Mahajanga e negli altri sei mesi lavora alla conservazione di questo patrimonio naturale e che ci accompagnerà durante l’escursione. Prima di tutto ci prega di stare molto attenti a dove mettiamo i piedi perchè, oltre ad essere estremamente pericoloso camminare dentro e sopra gli tsingy in quanto sono formazioni calcaree erose dall’acqua ed estremamente alte e appuntite per cui una caduta potrebbe essere anche fatale, è molto importante essere delicati in quanto si rischia di romperle. Da qui Jean Claude prende spunto per dichiararsi molto contento delle notevoli difficoltà che bisogna superare per raggiungere questo meraviglioso luogo, difficoltà che fanno sì che soltanto pochi turisti riescano a metterci piede limitando quindi la possibilità di fare danni irrimediabili e che lui quando sente che la famosa pista da Morondava in futuro potrebbe essere sostituita da una strada asfaltata va in panico, molto meglio che la Bekopaka Autoroute rimanga così com’è con la sua sabbia e le sue buche micidiali, che possono scoraggiare molti turisti ma che senz’altro sono un’ottima barriera di sicurezza per questo delicatissimo ecosistema.
Durante la camminata Jean Claude si accorge prima che è sparita una corda (indispensabile per muoversi in sicurezza tra le lame acuminate!) e poi che in una piccola grotta c’è un’anfora e soprattutto che c’è della cenere calda, e il discorso cade inevitabilmente sui Vazhimba. I Vazhimba sono una popolazione pigmea considerata tra i primi abitanti dell’isola rossa e di cui si sa pochissimo se non alcune leggende, tra cui quelle che sostengono che molti di loro non hanno mai avuto contatti con le altre popolazioni malgasce o occidentali, e che vivono in zone inaccessibili della foresta primaria o nelle immense grotte e cavità presenti nel Grande Tsingy e tuttora inesplorate.
Caratteristica degli Tsingy, oltre alle sue forme acuminate, sono i piccoli canyons che si riempiono d’acqua nella stagione delle piogge, le piante grasse dalle forme diversissime e che riescono a prendere vita in punti anche assai complessi della formazione calcarea nonchè gli immancabili lemuri, i primati che vivono soltanto sull’isola rossa costituendone uno dei maggiori simboli e che si differenziano in diverse sottospecie, tra cui i lemuri notturni di cui potrò ammirare gli occhi che mi osservano circospetti dal buco di un tronco e i favolosi sifaka talmente curiosi che anche se tu non li vedi nel fitto della foresta, loro sono sicuramente ben piazzati con la famiglia al completo che ti osservano.
Quando chiedo perchè si chiamano tsingy, il sempre sorridente Marcel dà un colpetto ad una lastra calcarea facendomi ascoltare il suono che ne deriva, appunto “tsing” da cui deriva il nome onomatopeico (così com’è la derivazione di tante altre parole della lingua malgascia) della stessa formazione calcarea.
Prima di concludere l’interessante camminata-arrampicata decidiamo di scendere in una grotta: si scende di parecchie decine di metri aiutandosi infilando le mani nelle tante fessure ma Marcel dopo una decina di minuti con modo decisamente tranquillo ci invita a non mettere le mani in una determinata fessura, noi guardiamo e vediamo un ragno bianco-marrone grande quanto un palmo di mano, fermo immobile, quindi notata la tranquillità del tono di Marcel gli chiediamo che effetto farebbe su di noi quel ragno per sentirci rispondere sempre con estrema tranquillità “non ci sarebbe nemmeno bisogno di portarvi in superficie”!
Continuiamo a scendere ma con maggiore attenzione, sentiamo rumori strani in lontananza e Marcel continua a pronunciare una parola francese che ho già sentito ma di cui non ricordo il significato; arrivati in una specie di salone immenso e con magnifici stalagtiti, Marcel mi invita a battere le mani e io (sempre più suonato!) convinto di fare una prova per l’eco le batto e subito mi ricordo che la famosa parola francese “sans souris” significa “pipistrelli” e sono anche decisamente grandi, praticamente sono vampiri!! L’uscita dalla grotta sarà estremamente veloce!! :-) )
Tornati alla base ci mangiamo una bistecca, ovviamente senza salse (!!), e poi ci cimentiamo nella gara di ballo. La festa si tiene nell’aula della scuola e noi siamo gli unici due vazaha e di conseguenza anche i due che destano maggiore curiosità e veniamo trattati come ospiti importanti (….ma quante birre ci offrono!!??), la festa è decisamente importante per il villaggio e tutti sono vestiti al loro meglio: le donne con i capelli intrecciati e gli uomini con i vestiti più belli o gli accessori più intriganti, magliette di squadre di calcio e occhiali a specchio!! La serata è semplicemente eccezionale (musicalmente domina il grande Jao Joby) e non mancano le standing ovation per Bernard che insieme alla cognata di Marcel lotta per la vittoria finale (io mi piazzerò in un discreto e sorprendente quarto posto … ma avevo bevuto una birra in meno!!!) e alla fine dovrà cedere di fronte alle peripezie della coppia favorita, i due maestri che anch’essi si trasferiscono qui sei mesi all’anno per continuare gli insegnamenti scolastici ai bambini.
L’ultimo giorno è ovviamente e interamente dedicato al duro rientro, e tra buche, guadi e salti, a circa 40 chilometri da Morondava, quando il buio sta calando, incontriamo un camion militare che avanza a passo d’uomo sulla sabbia: da sopra il cofano ci salutano, è il ciclista canadese che in cambio di un passaggio (arriverà l’indomani al tramonto!) è stato assunto, insieme alla sua torcia, come fanale!!
Arrivati all’alberghetto di Morondava, una piccola folla ci attende … per chiederci com’è stato il viaggio, se abbiamo avuto problemi e soprattutto cosa ne pensiamo delle loro bellezze naturali e allora mi trasformo in cantastorie con un pubblico educato e attentissimo di adulti e bambini.
Quando preparavo i miei viaggi in terra malgascia sapevo sempre che i pericoli più grossi erano rappresentati dai coccodrilli e da qualche insetto, sapevo che la gente malgascia pur nella sua drammatica povertà ha una dignità e una disponibilità eccezionali ma adesso so che probabilmente non si erano ancora fatti i conti con il progresso e con quei grossi interessi che quatti quatti portano il caos anche tra le popolazioni più pacifiche! (:-

davide scrive:
Mi sembra di ricordare quando sei tornato, se non dal primo, forse dal secondo dei tuoi viaggi in Madagascar. Non dico che ci cercavamo come due pirati che dovevano riunire i lembi di una unica mappa per trovare un tesoro, ma di certo avevamo più bisogno di parlarci di quanto non ne avessero due turisti rientrati dal Kenya o dalle Maldive.
M’incuriosiva sentire cosa pensavi tu, che avevi girato tanti paesi del mondo, di quel luogo talmente remoto, da albergare ormai quasi soltanto nei ricordi della mia giovinezza.
Dovevi passare nel pomeriggio, così, a bere qualcosa al volo, dopo le quattro ma,,, alle tre del mattino seguente eravamo ancora in cortile come due ubriachi a parlare della grande isola.
Stavo attento a non “metterti le parole in bocca”, a non influenzarti perche quello che m’interessava era, prima di tutto, capire le tue sensazioni.
Che per me il Madagascar fosse una luogo particolare, in grado di suscitare ricordi anche invalidanti, stava nella logica delle cose, ma restai sorpreso quando tu, viaggiatore dell’intero globo, lo definisti:
“una terra ai confini del mondo”.
Anche chi lo ha visitato semplicemente come turista è sempre rimasto particolarmente colpito da quel posto e dalla gente che lo popola. Mi sono sempre chiesto il motivo,,, ma non ho mai trovato risposta.
Come direbbe ogni buon malgascio: “izany no lahatr’an Andriamanitra” (così ha disposto il Creatore).
Rahalakely Davida
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"Miseria e Nobilità". I Cricchimiddi per il Madagascar e la Mensa di S. Antonio


La compagnia porterà in scena, al teatro Annibale Di Francia, una riduzione in dialetto siciliano di Miseria e nobiltà, la celebre commedia scritta da Eduardo Scarpetta. Sarà possibile dare un aiuto a chi ne ha bisogno, per il tramite della Onlus Progetto Madagascar e della Mensa di Sant’Antonio
E’ ormai un appuntamento quello che I Cricchimiddi rinnoveranno il 5, il 6 e il 7 aprile con il loro pubblico, a quasi 23 anni dalla fondazione della compagnia che, nel tempo, si è rinnovata attorno al nucleo storico, costituito da Antonietta Del Dotto, Enzo Ferraro, Carmelo Manuli e Dionigi Marani, con l’infaticabile animatore Armando Di Stefano. Saranno insieme a loro Nancy Barbaro, Fortunato Baviera, Filippo Contino, Carmelo La Monaca, Aldo Liparoti e Rosaria Romano, via via aggiuntisi nel tempo ed esordiranno Ivana Cammà, Gianni Curcio e il giovanissimo Giovanni Ionata, nonché Pina Morasca, ora anche attrice oltre che elegante e geniale costumista.
La compagnia porterà in scena, al teatro Annibale Di Francia, una riduzione in dialetto siciliano di Miseria e nobiltà, la celebre commedia scritta da Eduardo Scarpetta.
Si sono così rinnovati negli anni I Cricchimiddi, restando però sempre ancorati al forte spirito di gruppo (formato originariamente da dipendenti del Banco di Sicilia e oggi di Unicredit), alle fondamenta del volontariato amatoriale e alle finalità benefiche. Infatti, pure questa volta sarà possibile dare un aiuto a chi ne ha bisogno, per il tramite della Onlus Progetto Madagascar e della Mensa di Sant’Antonio.
Il Progetto Madagascar, fondato nel 2003, promuove iniziative in campo scolastico e sanitario a Marovoay, presso una missione di Carmelitani. Con le adozioni a distanza vengono garantiti l’istruzione a centinaia di bambini e il sostegno delle loro famiglie. Il Progetto ha anche avviato il microcredito tra gli agricoltori più poveri e sta realizzando un reparto di maternità, dopo aver fatto pozzi d’acqua, un dispensario medico e una scuola.
La Mensa di Sant’Antonio è curata dai padri Rogazionisti che, con un centinaio di volontari, portano avanti il progetto della “caldaia del povero” avviato da Sant’Annibale Maria Di Francia nell’allora diseredato rione Avignone di Messina. Ormai, ogni sera la Mensa appronta 150 pasti per bisognosi.
Fonte: Tempo Stretto
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Cites, accordo internazionale su commercio legname


Nuove protezioni per gli alberi in via d'estinzione

ROMA - Nuove protezioni per gli alberi in via d'estinzione: le nazioni riunite al summit Cites (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora) di Bangkok, hanno emanato un nuovo accordo per disciplinare il commercio di mogano, ebano e palissandro. Dalle ricerche e' emerso come negli ultimi anni sia fortemente aumentato lo sfruttamento di ebano in Madagascar e di palissandro in Tailandia. I ricercatori, secondo quanto riporta la stampa, hanno sottolineato sia che per alcune specie di ebano presenti nell'isola africana non esistano piu' grandi alberi in natura, sia che i palissandri sono diminuiti del 70%, passando cosi' dai 300.000 individui del 2005 ai circa 80.000 nel 2011.


Achim Steiner, direttore esecutivo del programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep), ha rilevato che dalle stime dell'Interpol e dell'Unep e' emerso come tra il 50% e il 90% del disboscamento nei principali paesi tropicali di tutto il mondo sia opera di bande criminali organizzate per un giro d'affari da oltre 30 miliardi di dollari ogni anno. Dati allarmanti che hanno portato le 178 nazioni presenti alla conferenza ad approvare all'unanimita' - per la prima volta - un nuovo regolamento sul commercio internazionale di legname.
Fonte: ANSA
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Grandissima realtà orionina Madagascar


Superficie: 587.000 Kmq
Popolazione: 11.500.000
Capitale: Antananarivo
Lingua: malgascio, francese
Religioni: Animista (50%), Cattolica (25%), Protestante (20%), Musulmana (5%).
Dire Madagascar è dire una grandissima realtà, orionina come poche dalla testa ai piedi: povertà estreme che non si potrebbe immaginare di velare. La povertà estrema che si vede, si tocca, si respira nelle abitazioni, nell’istruzione, nella salute, nell'apparire disarmate e senza difesa. Ma che gridano e non lasciano dormire chi vi si affaccia, con un po’ di cuore.
Milioni di bambini, belli e semplici come tutti, con un'apparenza di pudore, di timore nel far vedere il loro sorriso con i denti guasti. Sereni, denutriti, con dentro già i germi di malattie più grandi di loro.  Qui don Orione è arrivato, nel 76 con i suoi figli e poi con le sue figlie.
Ma prima qualche dato. Per un'idea.
È la quarta maggiore isola del mondo, dopo la Groenlandia, la Nuova Guinea e il Borneo. Come superficie è una volta e mezza l'Italia.  L'altipiano centrale di altitudine media 1.200 metri, raggiunge i 2.876 mt. col Maromokotro e 2.642 mt. con i monti Ankaratra.  La costa orientale che si affaccia sull'oceano indiano, presenta una striscia costiera larga una ventina di Km. e lunga più di 1.000 per cui è la spiaggia più lunga del mondo. La terra è argillosa, rossastra, non molto fertile, il paesaggio desolato, ma a causa del clima gradevole è, il territorio che raggruppa la maggior parte di popolazione.
Clima. L’isola è tagliata dal (Capricorno) Tropico del Capricorno e si trova nella zona dei venti Alisei dell’oceano indiano: provocano due stagioni piovose l’anno e tra gennaio e marzo spesso grandissimi cicloni che creano gravi danni. Sopra i 1.000 metri le temperature sono basse, in media 20°C, mentre nella parte orientali si raggiungono anche i 32°C. Sulle colline dietro la fascia costiera si estendono foreste lussureggianti, con “l'albero del viaggiatore” che disseta e sfama con le foglie e i frutti, sino alle montagne dense di conifere, eucalipti, mimose. La nostra mimosa è originaria del Madagascar.
La maggior parte della gente vive in villaggi agricoli o di pescatori.
L’unica grande città dell'altipiano è Antananarivo.

Come risorse il Madagascar è potenzialmente ricco, ma le tecniche agricole, l’organizzazione commerciale, e l'assenza di vie di comunicazione e di trasporti adeguati ne rendono lo sviluppo lento. Per l’esportazione si coltivano caffè, vaniglia, chiodo di garofano, tabacco, canna da zucchero, arachidi, ricino, piante tessili. Per il consumo interno si producono riso, manioca, patate, mais. Dai boschi legni pregiati come il mogano, il palissandro, l'ebano.
L'allevamento dei bovini è importante con 7 milioni di capi. I caprini, ovini e suini raggiungono un milione di capi.
La popolazione vede tre componenti principali: Indonesiani - polinesiani; arabo - persiani e africani - bantù. Tra i tre gruppi esistono tutte le sfumature delle razze incrociate e si possono individuare una ventina di gruppi etnici differenti. Il più importante è quello dei merina che vivono sull'altipiano, coltivatori di riso. Tutti parlano il malgascio che è la lingua ufficiale (appartiene al ceppo malese - polinesiano, con influssi africani, arabi, indiani e delle lingue europee).La seconda lingua ufficiale è il francese.
Ai nostri missionari incombe l'obbligo di imparare il malgascio e pare ci riescano bene.
La storia di quest’isola ha conosciuto storie di sofferenze e di violazioni da parte di vari stati come l’Inghilterra e la Francia: a metà del 1600 anche quelle coste conobbero la tratta degli stati schiavi. In breve sintesi. Il 6 agosto 1896 il Madagascar diventa colonia francese. Nel 1960, il 26 giugno celebrò l'indipendenza, ma l’isola fu governata con sistema a ispirazione comunista che voleva imitare le comuni cinesi.  Il 19 agosto 1992 un referendum popolare abroga la costituzione socialista, approva una nuova costituzione che apre la via alla terza repubblica con presidente il medico cattolico Albert Zafy.
Il Madagascar ha circa 11.5 milioni di abitanti di cui circa un milione sono nella capitale Antananarive.
La religione prevalente è quella animista per il 50%; segue il 25% dei cattolici, il 20% di protestanti e solo il 5% di musulmani.
Sul versante cristiano - cattolico si hanno i primi tentativi di evangelizzazione, datati 1540, sono dei domenicani portoghesi; una vera evangelizzazione comincia nel 1648 (lazzaristi) con poco successo. Si deve arrivare al secolo scorso, nel 1860, con i gesuiti per una vera organizzazione missionaria. È proprio da un vecchio missionario gesuita padre Donato Scattaglia (20 anni in Cina e 24 in Madagascar), che giunge a Tortona e si ritrova nel 1975 sulla tomba di don Orione con l’allora generale don Ignazio Terzi, nasce la scintilla.  Si accende lì e, come detto all'inizio, l’11 novembre 46, ad Anatihazo lo stesso Padre Scattaglia presenta ai cristiani i nostri primi due, don Vazzoler e don Casarin.
Si partì in umiltà e semplicità ed oggi si può vedere una fioritura di opere evangeliche e di promozione sociale che non stupiscono, lasciano sbalorditi.
Piange il cuore a doverne fare solo una sintesi che pare la ricetta di un medico. Ma... gli amici capiscono.
Ecco allora nell’ordine cronologico, i tre epicentri della nostra missione, con l'elencazione scarna di opere e servizi che nascondono una gestazione di fatica, passione ed anche eroismo.

Anatihazo  
(La prima) 1976 - uno dei sobborghi più poveri della capitale. Casette basse - una sola stanza: 8-15 persone - pochi mq.
Lingua malgascia, gente con vestiti poverissimi, riciclati...
Chiesa Grande  
(Tra le più grandi del Madagascar): catechesi, messe vive che durano fino a due ore, con duemila e più persone.
Per la promozione umana del quartiere attualmente ci sono:
-            La scuola elementare con le sue 5 classi e 500 alunni, scelti naturalmente e ai quali si dà l’essenziale dalla matita al quaderno...
-            La scuola professionale è frequentata da 230 allievi. Sono stati costruiti due grossi capannoni per le sezioni di falegnameria e meccanica, dotati delle macchine utensili necessarie.
-            I corsi sono triennali e, alla fine dei corsi i ragazzi trovano facilmente lavoro come operai specializzati. È l'unica scuola a questo livello in Madagascar. Vicino ai capannoni le aule attrezzate per gli studi tecnici-teorico-pratici.
-      La scuola di taglio-cucito-maglieria. Le allieve sono 220. La scuola è dotata di macchine per cucire e per maglieria. Al termine del corso triennale si dà alle allieve la possibilità di riscattarsi una macchina per cucire per  potersene servire in casa.
-      Il Centro Sociale con l’ambulatorio, la farmacia e il laboratorio di analisi e un centro di puericultura. C’è un viavai di 7 - 800 persone al giorno.
-      Il servizio mensa. Un buon camino fumante per tutto il giorno segnala l’attività senza soste della cucina; per i bambini delle elementari, per i ragazzi delle professionali, del taglio - cucito, per i poveri, per gli ammalati. Tutti secondo turni precisi.
Attualmente operano ad Anatihazo: P. Jan Osmalek, P. Agostino Casarin, e P. Adriano Savegnago.
Precedentemente hanno prestato la loro opera anche P. Renzo Sandrin, Fr José Cuesta, P. Riccardo Simionato, P. Antonio Mussi.
Sabotsy Namehana    
È un Distretto distante 8 km da Anatihazo, dove nel 1989 si è stabilita la seconda Missione Orionina. Nel Distretto ci sono 15 parrocchie da seguire. La chiesa più importante è a Namehana. Ad Antsofinondry è stato costruito il Seminario con annesso il Noviziato.
Attualmente ci sono 13 seminaristi malgasci e 2 novizi.
L’edificio del Seminario è come l’epicentro di altri edifici, che ne sono come i satelliti: una casa per incontri e ritiri, una grande cappella, un piccolo edificio adibito a magazzino agricolo, la stalla con mucche e maiali, un capannone-officina. È qui che opera il tecnico sig. Carlo Mascitti che cura la manutenzione degli stabili, degli automezzi di tutte le missioni.
Prezioso un grande orto.
I missionari hanno organizzato una scuola di alfabetizzazione con 120 allievi e seguono 12 scuole elementari cattoliche nel Distretto: ne sono interessati 940 alunni.
Attualmente lavorano qui don Henryk Halman, don Tarcisio e don Luigi Piotto.

Faratsiho    
La terza Missione Orionina in Madagascar è sorta nel novembre del 1991 a Faratsiho: una cittadina di 2.500 abitanti posto sull’ altopiano a 1750 metri di altitudine.
Per giungervi si percorrono 150 km della strada nazionale asfaltata che parte da Tananarive, passando quindi ai 47 km di strada sconnessa, tutte buche, inagibile nella stagione delle piogge che dura 4 - 5 mesi l’anno.
Ai nostri è stato affidato il "College Lycée St. Paul", con corsi scolastici che vanno dall’elementari al liceo.
La chiesa è una piccola cattedrale neogotica, costruita negli anni ‘30. È a servizio di povera gente che ha casette fatte con fango cotto al sole, mercatini di frutta e verdura, frittelle, i prodotti di lì. Non c’è telefono, poche le case con la luce elettrica.
La missione dispone di un bel piazzale, ove s’affaccia il College Saint Paul con 560 ragazzi, un campo di calcio, un grande orto.
E non manca un buon pollaio che ha un po’ di tutto, dalle galline, alle oche… ai maialini. Nel vasto Distretto sono disseminati 63 villaggi con circa 100.000 abitanti. Ogni villaggio ha la sua chiesetta e in 38 c'è una scuola elementare. Povere chiese e povere scuole bisognose di una continua manutenzione.  Ogni chiesa ha un catechista che una volta al mese distribuisce la S. Comunione, fa i funerali ecc. Periodicamente il  catechista fa a piedi i suoi  0 km. fino a Faratsiho per corsi di formazione e per prendere l’Eucaristia. Lo stesso sentiero tocca, naturalmente al sacerdote, avvezzo ormai a percorsi del genere impraticabili e dove si incontrano solo carretti con i classici zebù.
Attualmente a Faratsiho lavorano don Riccardo Simionato, don Antonio Mussi e il chierico Delphin.

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