Parlare
di stile riferendosi a un’azienda che produce maglioni potrà sembrare
scontato, e forse anche banale, ma la scelta del termine in questo caso va
oltre la semplice eccezione legata all’abbigliamento e alle sfilate di moda,
abbracciando anche i suoi ulteriori significati di disegno strategico e modo
di comportarsi. Vedere nella Benetton solo l’aspetto legato alla moda e al
giro di affari che vi ruota attorno sarebbe oltremodo riduttivo, essendo
riscontrabili nel gruppo di Treviso due diversi livelli di intervento: uno
eminentemente commerciale e uno più propriamente “ideologico”, entrambi
riconducibili, comunque, alle strategie del mondialismo.
Luciano Benetton viene dalla “gavetta”, avendo cominciato
come commesso in un negozio di tessuti di Treviso, e in seguito come
rappresentante di capi di maglieria per conto di piccole imprese locali.
Quando a metà degli anni Sessanta comincia ad operare il maglificio di
Ponzano Veneto, è sui rapporti di Luciano con importanti commercianti romani,
consolidati durante la precedente attività, che la famiglia Benetton può contare
come trampolino di lancio. Inizialmente l’attività si basa sul lavoro
artigiano di Giuliana Benetton e sulla commercializzazione, da parte di
Luciano, delle maglie da questa prodotte.
La marcia trionfale che ha condotto Benetton da questo
inizio, tutto sommato modesto, alle odierne dimensioni multinazionali della
sua impresa ha, bisogna riconoscerlo, tutte le caratteristiche del miracolo
(anche se per l’ambito in cui il fenomeno Benetton può essere inserito,
l’impiego di un termine legato al mondo del sacro è senz’altro fuori luogo,
risultando più efficace il ricorso ad altre espressioni, come mistero o
enigma). Nel 1967, un primo “colpo di genio”: l’acquisto, a prezzo di
rottame, di vecchi telai Cotton (destinati alla produzione di classiche calze
da donna, resi ormai obsoleti dall’irrompere sul mercato del meno
affascinante ma più pratico collant), trasformati a basso costo in telai per
la lavorazione della maglieria. I telai, acquistati per un milione di vecchie
lire l’uno, dopo la riconversione andarono a costituire un parco macchine il
cui costo salì a circa mezzo miliardo.La “rivoluzione culturale”
sessantottina portò, fra le altre conseguenze, anche al crollo della domanda
di capi eleganti e ben curati, dando il via libera a un abbigliamento informale,
di minore qualità e dal basso costo. La Benetton si specializzò nella
produzione di un abbigliamento per un pubblico di massa; e per garantirsi il
successo in un mercato non certo facile puntò alla standardizzazione
mascherata di originalità attraverso l’uso differenziato dei colori. «Tutti i
colori del mondo» divenne lo slogan trainante dell’impresa trevigiana.
Per il mercato giovanile di massa, dove l’abbigliamento
viene particolarmente percepito come elemento fondamentale nella definizione
dell’immagine di sé, il prodotto Benetton tende a presentarsi come un vero e
proprio modello di vita. All’omologazione interiore deve corrispondere quella
esteriore, e se c’è un modo per non essere mai se stessi, questo è quello di
cambiare (e cambiarsi!) continuamente. Ne consegue l’elevata rotazione della
merce, tipica dei negozi col marchio Benetton, con l’affermazione del
prodotto usa e getta che ben si adatta ad una società consumistica e
superficiale come quella che da noi si è andata diffondendo, proprio a
partire dal presunto anticonformismo del Sessantotto.
Un’altra “trovata” di Benetton è stata quella di affidare
quasi totalmente all’esterno le diverse fasi della lavorazione e della
commercializzazione del suo prodotto. A partire dall’approvvigionamento delle
materie prime, per il quale egli si affida ad un ristretto gruppo di imprese,
nei cui confronti esercita una vera e propria supremazia. Tramite grossi
volumi d’acquisti concentrati progressivamente su singoli fornitori, più che
creare rapporti privilegiati si determinano vere e proprie dipendenze che, di
fatto, condizionano fortemente le scelte interne dei fornitori.
La Benetton opera esplicite sollecitazioni affinché le
imprese fornitrici si adeguino alle sue esigenze, inducendole a modificare la
propria specializzazione produttiva. Nel tempo le aziende fornitrici hanno
modellato la loro specializzazione sulle esigenze della Benetton. Il
condizionamento diventa a poco a poco totalizzante e dalla semplice
compravendita del prodotto grezzo sconfina anche nella scelta degli
investimenti e negli standard qualitativi, provocando l’immedesimazione
totale del fornitore nei problemi produttivi del cliente.
Anche il lavoro di confezione è affidato a laboratori
esterni. La Benetton si riserva esclusivamente le fasi di piegatura,
etichettatura, imbustaggio, oltre alla coloritura dei capi, che viene
effettuata per ultima, onde poterla adeguare alle effettive esigenze del
mercato. I capi vengono controllati al rientro dai laboratori, dopo che a
questi sono state fornite tutte le indicazioni necessarie al perseguimento di
uno standard unico, e non vengono tollerati scadimenti qualitativi. Viene
esercitato anche un controllo sulla politica di sviluppo dei laboratori, che
devono informare annualmente sulla struttura del proprio parco macchine e sul
numero di addetti impiegati. Viene garantito, d’altra parte, il completo
assorbimento delle capacità produttive del laboratorio. Si verifica infatti,
che questi laboratori si trovano ad operare a tempo pieno per conto della
Benetton, senza che questo rapporto di dipendenza sia in alcun modo
formalizzato; i contratti riguardano infatti solo le singole commesse.
Il prezzo viene imposto dalla Benetton e le spese di
consegna della merce e di ricevimento della materia prima sono a carico dei
terzisti. Spesso il laboratorio viene spinto a specializzarsi in un solo tipo
di lavorazione, il che vuol dire minori costi di gestione, richiedendone al
contempo il massimo impegno produttivo per legarlo stabilmente a sé.
Ovviamente il decentramento della lavorazione in piccole imprese, svolta
comunque sotto il rigido controllo del committente, salvaguarda il gruppo
trevigiano dai rischi e dai costi derivanti dalla conflittualità sociale. Per
cui, alla fine, non solo Benetton non ha nessun problema con i sindacati – se
il singolo laboratorio o un’impresa fornitrice di lana grezza è costretta a
licenziare i suoi dipendenti, nessuno potrà prendersela con il loro reale
padrone –, ma per giunta l’ex senatore repubblicano passa per essere un
imprenditore illuminato e di sinistra.
D’altra parte non è diverso il destino degli Stati caduti
sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale. Paesi
costretti ad applicare politiche economiche autodistruttive, indotti a
concentrare le proprie capacità produttive nella direzione voluta dal potere
mondialista, i quali, quando il loro indebitamento diventa di proporzioni
astronomiche, vengono sostenuti dal FMI come l’impiccato viene retto dalla
corda.
Allo stesso modo è stato risolto il problema fondamentale
della distribuzione. L’apertura di una catena di negozi esclusivisti di
Benetton, ma non gestiti direttamente dal gruppo, è stato uno degli
elementi decisivi del successo nazionale prima e internazionale poi
dell’impresa. Fino al 1976 la preoccupazione principale è stata quella di
occupare il mercato interno, consolidando la presenza in Italia, sebbene già
agli inizi degli anni Settanta erano stati aperti punti vendita all’estero (2
a Parigi, 1 a Dublino e a Londra, 2 in Germania), i quali, più che altro,
hanno svolto la funzione di sondare le tendenze internazionali.
La commercializzazione all’estero dei prodotti Benetton è
gestita dalla Benetton International N. V. Olanda, che controlla la catena di
punti vendita e le sedi produttive estere. Lungimirante (o bene informato?) è
stato Benetton riguardo all’imminente crollo dell’Unione Sovietica, con la
conseguente apertura di un mercato di oltre 250 milioni di persone, visto che
già nel 1988, con l’aiuto decisivo del miliardario americano Armand Hammer
che lo mise in contatto con le autorità sovietiche, venne costituita la joint
venture Benetton-Ayaz che prevedeva la ristrutturazione di una fabbrica di
cotone, posseduta dal Ministero dell’Industria della Repubblica Armena.
L’accordo prevedeva inoltre la nascita graduale di una rete di negozi gestiti
con la “tradizionale” formula del franchising, ognuno dei quali, secondo le
previsioni, avrebbe potuto vendere fino a 100 mila capi all’anno.
Un’operazione simile a quella condotta nell’ex impero sovietico è stata
realizzata nel 1993 guardando al non meno promettente mercato cinese, tramite
la costituzione della Benetton China holdings, che doveva portare alla
costruzione di uno stabilimento a Shanghai e all’apertura di trecento negozi
Benetton in Cina
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Un’attenzione particolare merita il sistema adottato nella costituzione della
rete distributiva. La famiglia Benetton, dopo aver concentrato all’inizio i
propri sforzi finanziari nella realizzazione di alcuni negozi che sarebbero
serviti da prototipo, appaltò a terzi la loro riproduzione ad ampio raggio.
Puntando sui loro stessi rappresentanti, si trovarono ad operare con
personale con cui già esisteva un certo affiatamento e già “iniziato” alla
filosofia del gruppo. Questi, nel momento in cui venivano invitati ad
assumersi un rischio maggiore, si vedevano prospettare la possibilità di
incrementare notevolmente i propri utili. Ognuno di loro, da solo o
associandosi con altri investitori locali, diede vita ai punti vendita che
andarono a costituire i primi anelli della “catena di S. Antonio” che è
diventata la rete dei negozi Benetton.
Di fatto il titolare del singolo negozio diventa, col tempo, proprietario di
una piccola catena di negozi, realizzando fra l’altro significative economie
riguardo all’amministrazione, l’approvvigionamento, l’addestramento del
personale. Queste “bancarelle al coperto”, dall’arredamento essenziale, con
scaffali che permettono la massima esposizione della merce, senza il classico
bancone, con l’uso di musica appropriata, in cui si vuole creare un’atmosfera
ben definita, nella loro progettazione e realizzazione non vengono lasciate
alla libera iniziativa e all’improvvisazione del singolo proprietario o
gestore, ma vengono elaborate ed imposte direttamente dalla Benetton.
I negozi col marchio Benetton (in origine diversificato in Jeans West,
Tomato, Merceria, My Market), a cui si affiancano i marchi 0-12 e Sisley,
sono concentrati all’interno delle aree urbane, nei centri storici e uno a
pochi metri dall’altro. È significativa questa dichiarazione di Luciano
Benetton, dalle inquietanti assonanze col modo di operare del potere occulto
in altri ambiti: «Se un cliente non vuole entrare in un negozio, perché c’è
troppa musica, perché gli sembra troppo signorile, o per qualsiasi altro
motivo, se ne va ed io ho perso una vendita. Allora io dieci metri dopo gli
faccio trovare un altro negozio, che vende le stesse cose, ma con un’altra
musica, altro arredamento, ecc. Poi, ad altri cinquanta metri ne metto un
altro, ancora diverso: prima o poi quel cliente lo catturo».
Adottando un sistema pseudo-feudale, la catena di negozi si è allargata a
macchia d’olio: da una singola cellula sono germinati nuovi organismi
(relativamente autonomi ed autosufficienti), restando immutato il centro
propulsore, che trasmette il verbo-pullover, uguale per tutti. Il prezzo di
vendita viene fissato dalla Benetton, come i parametri di localizzazione dei
negozi, la attribuzione delle insegne, le date e le condizioni dei saldi. La
quota maggioritaria dei negozi fa capo ad una rete di poco più di cento
titolari, il che semplifica enormemente l’uniformizzazione della politica
distributiva.
Tenuto conto che il grado di partecipazione diretta è molto limitato rispetto
al reale controllo esercitato dal gruppo sulle imprese fornitrici, sui
laboratori terzisti e sulla rete distributiva, non è azzardato affermare che
Benetton si è arricchito, quanto se non più di tanti altri industriali che si
sono fatti la fama di “pescecani”, sul lavoro degli altri. La resa economica
di questo sistema è stata finora tale da far passare in second’ordine i
vincoli imposti. La “galassia Benetton” è, in definitiva, tenuta
insieme da una divinità che, come ogni divinità che si rispetti, ha reso
possibile da parte dei suoi “ministri del culto” la spersonalizzazione, la
rinuncia a se stessi, la concentrazione su un’unica meta incessantemente
perseguita, e questa moderna divinità risponde al nome di dio denaro.
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Ma queste considerazioni di ordine prettamente economico, che potrebbero far
pensare ad una nostra prevenzione nei confronti di ogni idea di profitto,
vanno completati con un’analisi di tipo ideologico del fenomeno Benetton;
possibile solo attraverso l’esame delle campagne pubblicitarie che hanno reso
famoso in tutto il mondo il gruppo trevigiano.
È singolare che negli anni Sessanta, quando Benetton cominciava a muovere i
primi passi nel settore dell’abbigliamento, la sua pubblicità apparisse sulle
pagine de La Rassegna mensile di Israel, la rivista delle Comunità ebraiche
italiane. Evidentemente la lungimiranza di certi ambienti, che di commercio
se ne intendono, aveva individuato in Benetton un cavallo su cui puntare!
Seguirono, sulle pagine del mensile Linus, le vignette pubblicitarie del
disegnatore franco-argentino Copi, recentemente morto di AIDS.
Ma il vero salto di “qualità” è stato compiuto con le campagne basate
sull’affissione di giganteschi manifesti murali, contenenti immagini che non
passano sicuramente inosservate. Il manifesto murale, prima che venisse
rilanciato da Benetton, era un mezzo pubblicitario che stava praticamente
andando in disuso, essendogli preferito il messaggio affidato alla stampa e,
soprattutto, alla televisione. Benetton lo ha riscoperto, utilizzandolo
ampiamente, affrontando fra l’altro costi più contenuti e disponendo di uno
strumento più agile e più efficace, considerata anche la massima visibilità
delle gigantografie ideate dalla Eldorado di Parigi, che fa capo al fotografo
Oliviero Toscani.
Per meglio comprendere la condizione di completa passività con cui l’uomo
moderno subisce i messaggi pubblicitari, e di conseguenza i nefasti effetti
che anche le campagne della Benetton determinano su coloro a cui sono
indirizzate, potrà risultare utile ricordare quanto ha scritto Evola in
proposito: «un insieme di processi ha fatto sì che l’uomo oggi sia
particolarmente esposto a subire più o meno passivamente un genere di
influenze che si possono chiamare “sottili”, coperte o subliminali, a
carattere quasi sempre collettivo. (…) in genere può dirsi che la possibilità
di successo delle ideologie e delle parole d’ordine che al giorno d’oggi
determinano quasi per intero la vita politico-sociale deriva unicamente dalla
mancanza, nei più, di ogni vera difesa per quel che concerne l’accesso alla
parte sub-intellettuale irrazionale e “fisica” della psiche». Ci si trova
davanti ad un vero e proprio bombardamento che precipita «la persona in una
specie di gorgo psichico collettivo autonomo e se essa non dispone di difese
interiori, rafforzate dalla vigilanza e dall’aderenza impersonale ad un’idea
superiore, è difficile evitare a lungo andare il pericolo dell’infezione».[1]
Il messaggio pubblicitario della Benetton punta innanzitutto a far risaltare
la prospettiva “mondiale” della proposta del gruppo, e per fare questo ha
spesso insistito su soggetti che richiamassero modelli multirazziali. Dai
bambini di ogni razza ed etnia, l’uno accanto all’altro, fino alla serie di
organi genitali maschili di tutti i tipi. Ha inoltre scelto di ogni paese le
immagini per le quali questo fosse universalmente conosciuto: per l’Italia
l’omicidio di Mafia, per la Bosnia la mimetica crivellata di colpi del
soldato caduto a Mostar, per l’Albania i grappoli di profughi in fuga
ammassati come formiche su una nave, per il Bangladesh gli effetti devastanti
di un alluvione, ecc.
Ma è tutta la collezione di provocazioni sbattute in faccia all’inerme
passante che dimostra un costante intento dissolutivo e dissacratorio,
perseguito attraverso la ricerca morbosa dell’orrido e dei risvolti meno
nobili dell’esistenza. Illuminante è a tal proposito questa dichiarazione di
Oliviero Toscani: «La realtà, così come è raffigurata in immagini del genere,
fa più paura della finzione, del falso. Ma noi pensiamo di dover andare oltre
il semplice messaggio che i maglioni Benetton sono migliori degli altri.
Profitto e comunicazione possono anche convivere».
Non c’è aspetto dell’esistenza umana che non sia stato fotografato attraverso
la lente deformante di questa infezione psichica. Dalla bambina appena nata,
insanguinata e ancora legata con il cordone ombelicale alla madre, in cui del
miracolo della nascita è rimasto solo l’aspetto nauseabondo, alla zulù albina
in mezzo alla sua tribù nera; dai cormorani ricoperti di petrolio[2], ai
preservativi colorati a mo’ di palloncini; per finire con la ricostruzione
blasfema e in chiave moderna della deposizione di Cristo, attraverso la foto
di David Kirby, il malato di AIDS ritratto sul letto di morte fra le braccia
del padre.
Ma c’è da dire che gli attacchi alla religione sono sempre stati un pallino
dell’entourage Benetton.[3] Il prete che bacia la suora o gli articoli della
rivista Colors dove si definisce Cristo “un falegname tuttofare che diede del
vino ai suoi seguaci”, la Vergine Maria abbinata a un intervento
ricostruttivo della verginità o la pubblicizzazione del “testo più autorevole
per lo sputtanamento dei miracoli”, sono alcuni esempi che chiariscono molto
bene quale può essere l’autentica ispirazione di fondo di questa impresa commerciale.
E viene anche il sospetto che la vendita dei maglioni sia solo un modo per
finanziare queste megacampagne pubblicitarie le quali, se c’è una cosa che
vogliono piazzare, non è sicuramente l’abbigliamento.
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