lunedì 5 novembre 2012

In Africa 25 specie di scimmie e primati rischiano l'estinzione - Anche i lemuri a rischio estinzione


Madagascar è in cima alla lista con sei delle 25 specie più minacciate
In particolare, i lemuri sono oggi uno dei gruppi più minacciati a causa di una crisi politica che dura da oltre 3 anni
Lemuri, gibboni, grandi scimmie e non solo. Sono ben venticinque le specie di primati che potrebbero scomparire a breve, a causa di deforestazione, caccia illegale e cambiamenti climatici, se non verranno adottate tempestivamente misure per proteggerle dall’estinzione. L’allarme è stato lanciato questa mattina dagli zoologi dell’IUCN, Union for the Conservation of Nature, cha hanno stilato una classifica dei primati maggiormente a rischio, chiedendo ai governi di intervenire.
Gli esperti hanno presentato la loro relazione, spiega una nota, in una conferenza sulla biodiversità che si è svolta nello stato americano dell’Indiana, rivelando come 9 delle specie gravemente minacciate vivano in Asia, 6 sull'isola di Madagascar, nel sud-est dell'Africa, altre 5 sul continente africano e 5 in Sud America. A livello di singoli paesi, il Madagascar è in cima alla lista con sei delle 25 specie più minacciate, mentre il Vietnam è secondo con 5 e l’Indonesia terza con 3. Seguono Brasile e Cina con 2 specie minacciate e Colombia, Costa d'Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Ecuador, Guinea Equatoriale, Ghana, Kenya, Perù, Sri Lanka, Tanzania e Venezuela con una specie ciascuno.
Particolarmente critica sembra essere la situazione dei lemuri del Madagascar, le piccole proscimmie che il film d’animazione Madagascar della DreamWorks ha fatto conoscere ai bambini di tutto il mondo. Sarebbero gravemente minacciati dalla distruzione del loro habitat e dalla caccia illegale, con il lemure più raro, il Lepilemur septentrionalis, è ormai ridotto ad appena 19 individui conosciuti in natura.
"Ancora una volta, questo rapporto mostra che i primati di tutti il mondo sono minacciati dalle crescenti attività umane -spiega Christoph Schwitzer, a capo della ricerca-. In particolare, i lemuri sono oggi uno dei gruppi più minacciati a causa di una crisi politica che dura da oltre 3 anni e dalla mancanza di una salvaguardia efficace nel loro paese d'origine, il Madagascar. Una situazione critica simile si sta verificando nel Sud-est asiatico, dove il commercio di animali selvatici sta portando i primati molto vicino all'estinzione".
Più della metà delle 633 specie e sottospecie di primati, il 54%, sono state classificate come minacciate di estinzione nella Lista Rossa dello IUCN. Sempre a causa delle attività umane, come la combustione e il taglio indiscriminato delle foreste tropicali, la caccia di primati per il cibo e il commercio illegale di specie selvatiche. Così, mentre la popolazione umana continua a crescere, quella dei nostri parenti più prossimi diminuisce drasticamente.
Roberta Ragni

Fonte:greenme.it

Anche i lemuri a rischio estinzione
Sebbene li si vedrà scherzosi e sorridenti sui grandi schermi grazie a Madagascar, il cartoon della Warner che li annovera tra i protagonisti, il Primate Specialist Group dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) dà una notizia inquietante sul loro conto: il 91% delle 103 specie esistenti dei lemuri sarebbe a rischio di estinzione. Più precisamente: 23 specie si trovano in ‘pericolo critico’, 55 in pericolo di estinzione ed altre 19 semplicemente ‘a rischio’.

Gli esperti ritengono che il colpo di grazia alla specie l’abbia dato il disboscamento illegale. Stando ai dati recenti, tra il 1992 e il 2011 in Madagascar sono andati perduti 28.500 kmq di foreste primarie, con un tasso di deforestazione di 1.500 kmq l’anno.
A ciò si è aggiunto anche il fatto che tali simpatiche bestiole sempre più spesso finiscono nel piatto delle famiglie più povere e meno devote. I primati notturni del sottordine degli Strepsirrhinihanno visto peggiorare drammaticamente la propria situazione dopo il colpo di stato militare del 2009, che ha gettato il Paese in una crisi istituzionale gravissima, con relativo abbandono di qualunque tipo di iniziativa di salvaguardia dell’ambiente e dell’ecoturismo. Per non parlare della povertà dilagante che li vede tra i pasti obbligati dei poveri.
Non è un caso che, nella valutazione naturalistica precedente, pubblicata nel 2008, solo 8 specie fossero state classificate in ‘pericolo critico’, 18 in pericolo e 14 ‘vulnerabili’.
Speriamo che la situazione politica del Madagascar migliori, così da influenzare anche lo stato sociale ed ambientale del Paese. E quindi che ritorni la difesa dei lemuri, trovatisi in pochi anni a passare da specie privilegiata a specie a rischio estinzione.

Allarme in Madagascar, palme rischiano estinzione

Da loro dipendono alcune delle popolazioni più povere isola

Più dell'80 per cento delle palme del Madagascar, da cui dipendono alcune popolazioni tra le più povere dell'isola per cibo e materiali da costruzione, sono a minaccia estinzione. E' quanto emerge dalla lista aggiornata delle specie in pericolo pubblicata oggi. La nuova versione della Lista rossa delle specie sotto minaccia dell'Unione internazionale per la tutela della natura (Uicn), lista di riferimento sulle condizioni di salute delle specie vegetali e animali in tutto il pianeta, è stata aggiornata in occasione della conferenza dell'Onu sulla biodiversità che si svolge fino a venerdì a Hyderabad, in India. Questo aggiornamento della lista include 65.518 specie, di cui 20.219 sono sotto minaccia di estinzione, secondo l'Uicn, che ha insistito durante la sua presentazione sulla situazione "terrificante" delle palme del Madagascar, un'isola considerata una delle più ricche al mondo in termini di biodiversità. "Le cifre relative alle palme del Madagascar sono davvero terrificanti, soprattutto perché la perdita di palme influenza l'eccezionale biodiversità dell'isola, ma anche la popolazione", ha indicato Jane Smart, direttrice globale del gruppo di conservazione della biodiversità Uicn
Fonte:Virgilio.it


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Il Papa proclama 7 nuovi santi, per la prima volta una pellerossa Giacomo Berthieu, martire in Madagascar


Sette nuovi santi sono stati proclamati da Benedetto XVI in piazza San Pietro. La cerimonia di canonizzazione ha avuto luogo prima di una grande messa concelebrata dal Papa insieme a numerosi cardinali e a 400 vescovi di tutto il mondo: i 262 che sono riuniti in Vaticano per il Sinodo e quelli giunti dai paesi dove hanno vissuto questi testimoni del Vangelo. E' diventata santa, cosi', la prima santa pellerossa della storia, Caterina Tekakwitha, una giovane squaw, cioe' un'indiana d'America. Il suo nome spicca nell'elenco letto - prima della formula di canonizzazione che competeva al Papa - dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Subito dopo sono state portate all'altare posto sul sagrato della Basilica di San Pietro le reliquie dei canonizzati, le cui immagini sono esposte sulla facciata esterna. Tra essi ci sono anche due martiri: padre Giacomo Berthieu, gesuita francese innamorato di Dio e del popolo malgascio, ucciso per la sua fede nel 1896, in un piccolo villaggio del Madagascar. Lo stesso destino toccato due secoli prima, nel 1672, a Pietro Calungsod, laico catechista, originario delle Filippine e morto martire a 18 anni nell'Arcipelago delle Marianne.
Nella stessa cerimonia - alla quale hanno partecipato circa 40 mila fedeli - e' stata elevata dal Papa alla gloria piu' alta anche la religiosa spagnola Maria Carmen Salles y Barangueras. Davanti alla realta' delle prostitute e delle detenute, nacque in lei l'idea che per salvare le giovani da questi sventurati destini avrebbe dovuto prepararle sin dal principio, come dal principio era era stata preservata dal peccato Maria Immacolata. Nell'elenco dei nuovi santi che il Pontefice tedesco ha proclamato questa mattina ci sono anche due sue connazionali: Barbara Cope, suora del Terz'Ordine di San Francesco di Syracuse, meglio conosciuta come "Madre Marianna di Molokai", dal nome del famigerato lebbrosario delle Hawai, dove si dedico' coraggiosamente ai malati e mori' nel 1918, e Anna Schaffer, laica bavarese testimone dell'amore di Cristo dal letto di sofferenza morta nel 1925. Infine e' diventato santo anche il sacerdote bresciano Giovanni Piamarta, vissuto a cavallo tra l'800 e il '900, fondatore di istituti religiosi e opere sociali come quella degli artigianelli, e della casa editrice Queriniana che ancora oggi pubblica opere teologiche importanti, tra le quali il best seller "Introduzione al cristianesimo" di Joseph Ratzinger, un manuale sul quale si sono formate intere generazioni. (AGI)


La storia del padre gesuita Giacomo Berthieu, martire in Madagascar. Domenica canonizzato 


Padre Giacomo Berthieu fu un sacerdote gesuita innamorato di Dio e della sua gente malgascia. Venne ucciso per la sua fede nel 1896 in un piccolo villaggio del Madagascar. Domenica il Papa lo ha canonizzato in Piazza San Pietro. Di questa figura Benedetta Capelli ha parlato con il postulatore della sua causa, padre Anton Witwer:

R. - E’ sempre rimasto fedele alla fede ed è sempre rimasto fedele alla gente cristiana di quell’ambiente: voleva veramente stare con la gente malgascia, voleva riuscire ad aiutarla a rimanere fedele alla fede. 

D. - Un esempio che, secondo lei, ha dato frutti nella terra del Madagascar?
R. - Sì, certamente. E questa è sempre stata una caratteristica della sua persona: sin dall’inizio si è sempre sentito attratto dalla gente semplice, dalla gente povera, dalla gente che più aveva bisogno. Proprio questo ha fatto maturare anche in lui la sua vocazione missionaria: prima di entrare nella Compagnia di Gesù è stato per dieci anni sacerdote diocesano. Questo suo amore per la gente, questo suo desiderio di annunciare Gesù Cristo lo ha portato nella missione. Era una persona molto semplice, molto umile e ha cercato di fare di tutto per far comprendere alla gente che Dio ci è vicino: Dio, Gesù Cristo, è vicino alla persona semplice, povera, malata.
D. - La sua fu una morte molto violenta… 
R. - Questo è vero. Tutta la sua vita è stata una preparazione al suo martirio: era disposto a offrire la sua vita per gli altri e questo per testimoniare Gesù Cristo. Quando i gruppi di Menalamba, che volevano estirpare la fede cristiana dal Paese, lo trovarono e lo presero immediatamente, non appena videro il Crocifisso che portava al collo, gli dissero: “Ecco il tuo amuleto: è di questo che ti servi per traviare la gente?”. E la sua risposta fu: “Continuerò ancora a pregare e a far pregare per te!”.
D. - Siamo nell’Anno della Fede: questo nuovo santo può essere un emblema per la nuova evangelizzazione?
R. - Sì, perché la sua testimonianza è veramente una testimonianza di fede, perché la fede è espressione dell’amore per il prossimo e per Dio. 
D. - C’è un episodio particolare della vita del nuovo santo che è, per lei, emblematico?
R. - Per motivi politici, in alcuni periodi, doveva lasciare la gente malgascia e andare a lavorare fra i soldati francesi: in lui c’era sempre il profondo desiderio di tornare, quanto prima possibile, tra la sua gente, per confortarla, per assicurarsi che potesse vivere pienamente la fede cristiana.

Fonte Radio Vaticana


La testimonianza del nuovo Santo, Giacomo Berthieu, uomo di preghiera, pastore, missionario martire in Madagascar
Il Beato Padre Giacomo Berthieu (1838-1896), gesuita francese, missionario e martire in Madagascar, è stato canonizzato domenica 21 ottobre, Giornata Missionaria Mondiale. Per l’occasione, il Superiore Generale della Compagnia di Gesù, padre Adolfo Nicolás, ha scritto una lettera a tutta la Compagnia, pervenuta anche all’Agenzia Fides. Dopo aver richiamato gli eventi ecclesiali di quest'anno, il Padre Generale aggiunge: “Per la Compagnia questo anno 2012 è quello della Congregazione dei Procuratori che si è svolta in luglio a Nairobi (vedi Fides 6/7/2012 e 18/7/2012); la vitalità apostolica delle Province dell'Africa e del Madagascar, riunite nel JESAM, e la rinnovata presa di coscienza del sentire cum Ecclesia ci invitano a ricevere con fervore la testimonianza di Giacomo Berthieu".
Dopo aver ripercorso le principali tappe della vita del santo e ricordato il suo martirio, P. Nicolás sottolinea alcune caratteristiche della sua vita come missionario, uomo di preghiera e pastore. "Il dono totale e cosciente della sua vita a Cristo è la chiave del suo impegno. In mezzo alle prove ha conservato il buon umore, l'affabilità, l'umiltà e lo spirito di servizio. Citava volentieri il Vangelo 'non temete coloro che uccidono il corpo, ma quelli che possono farvi perdere l'anima' (Mt 10,28). Nella sua catechesi parlava spesso della risurrezione dei morti. I fedeli hanno tenuto a memoria questa frase: 'Anche se sarete mangiati da un caimano, risusciterete!'." Il Superiore Generale conclude: "Che lo Spirito Santo ci conceda di mettere in azione le opzioni di Giacomo Berthieu: l'esigenza della missione che lo porta verso un altro paese, un'altra lingua e un'altra cultura; l'attaccamento personale al Signore espresso nella preghiera; lo zelo pastorale, che è allo stesso tempo amore fraterno dei fedeli che gli sono affidati e l'esigenza di condurli più avanti nella vita cristiana; ed infine il dono della sua vita spesa fino alla morte che lo ha configurato definitivamente a Cristo".
Giacomo Berthieu nacque in Francia, a Polminhac, il 26 novembre 1838 e morì martire ad Ambiatibé (Madagascar) l'8 giugno 1896. Dopo gli studi fu ordinato sacerdote nel 1864 e per nove anni fu vice-parroco a Roanne. Nel 1875 fu inviato missionario nel Madagascar, sull'isola di Santa Maria, dove lavorò fino al 1881, quando venne costretto a lasciare questo luogo in seguito ai decreti emanati dal governo francese. Si recò quindi a Tamatova, poi a Tananarive, da dove venne inviato nella missione di Ambohimandroso. Nel 1894, quando scoppiò la seconda guerra dei malgasci contro la Francia, si trovava ad Andrainarivo. Fu catturato dagli insorti mentre accompagnava i suoi cristiani sfollati dai villaggi. Invitato varie volte ad abbandonare la fede, egli si rifiutò e i pagani, irritati, lo uccisero e gettarono il suo cadavere nel fiume Mananara. Venne beatificato da Papa Paolo VI il 17 ottobre 1965. (SL) Fonte: Agenzia Fides

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Fonte Radio Vaticana




“Raibow Warrion” di Greenpeace nell’oceano Indiano contro la pesca pirata


La nave ammiraglia di Greenpeace, Rainbow Warrior, si trova alle Mauritius, da dove partirà presto alla volta delle Maldive, dopo due settimane trascorse in alto mare a ovest del continente africano e a sud del Madagascar a caccia di pescherecci che praticano pesca illegale o distruttiva.
Sono stati avvistati pescherecci taiwanesi, giapponesi, spagnoli e panamensi.
“Abbiamo ispezionato diverse navi – racconta Giorgia Monti, responsabile della campagna mare, a bordo della Rainbow Warrior da 15 giorni -. Chi continua a non rispettare le leggi dev’essere fermato, perché i nostri oceani forniscono cibo e lavoro a milioni di persone nel mondo”.
Il monitoraggio è seguito a quello condotto nelle acque del Mozambico, insieme al ministero della Pesca. Per mancanza di risorse il paese africano fa fatica a controllare i pescherecci stranieri che saccheggiano il mare per prelevare tonni o squali in via d’estinzione.
In Italia si consumano oltre 140 mila tonnellate di tonno in scatola all’anno, e molto del tonno consumato viene importato proprio dall’Oceano Indiano.
“Le scelte dei consumatori possono fare la differenza in queste acque lontane – spiega Giorgia Monti -. Greenpeace chiede alle grandi aziende del tonno in scatola di comprare solo tonno pescato in modo sostenibile ed equo, preferendo le piccole flotte dei paesi costieri dove i guadagni sono equamente distribuiti”.
Durante il monitoraggio congiunto del mare, condotto da Greenpeace e dalle autorità del Mozambico, è stata coperta un’area di 133.500 chilometri quadri: la minaccia principale è quella dei palangari con cui vengono catturati tonni alalunga e squali.
“Questi ultimi vengono spesso ributtati in mare ancora vivi, una volta che è stata tagliata loro la pinna – sottolinea l’attivista di Greenpeace -. Le pinne vengono vendute a prezzi molto alti sul mercato asiatico, fino a 740 dollari al chilo. E ogni anno si stima che vengano uccisi tra 26 e 73 milioni di squali per venderne le pinne”. Il tonno è vittima così dell’eccessivo sfruttamento mentre molte specie di squalo sono minacciate d’estinzione.
Nell’Oceano Indiano i pescherecci sono migliaia. La maggior parte proviene da flotte di paesi lontani che, dopo aver pescato tutto ciò che potevano nelle proprie acque – si stima che negli ultimi 50 anni la biomassa di specie come tonni o squali si sia ridotta di circa il 90% – si dirigono qui in cerca dell’ultimo pesce, depredando risorse fondamentali per la sopravvivenza di stati costieri poveri come il Mozambico o il Madagascar.
La missione della Rainbow Warrior nell’Oceano Indiano continua “perché la sfida della pesca sostenibile si può vincere e da questa dipende il benessere delle comunità costiere e il futuro dei nostri oceani”, sottolinea Greenpeace.

Fonte: (
ITALPRESS).

Verso una vigilanza più rigorosa delle attività di pesca industriale del tonno nelle acque malgasce
Comunicato Stampa
Dal 24 al 26 settembre 2012, la Commissione mista di cui l'accordo di partenariato nel settore della pesca tra l'Unione europea e il Madagascar si sono riuniti per adottare misure di gestione specifiche che disciplinano specificamente le attività della flotta di pesca.
Madagascar e l'Unione europea, sia le parti contraenti della Commissione tonno nell'Oceano Indiano si attribuiscono la massima importanza per l'effettiva attuazione di tutte le risoluzioni dell'Organizzazione regionale per la gestione della pesca in particolare le catture di specie associate da pescherecci con palangari di squalo. L'impiego regolare di osservatori a bordo palangaro, fornire statistiche accurate sulla qualità e la composizione delle catture. Queste saranno trasmesse al comitato scientifico della IOTC.
Applicazione del principio di precauzione e la gestione delle risorse nelle acque del Madagascar, pesca: 2 famiglie e 5 specie di squali  più vulnerabili è vietata.
Inoltre, a seguito delle raccomandazioni del comitato scientifico del livello delle catture IOTC associati con altri tonni squali rimanere ad un livello di catture (200 tonnellate) inferiore alla media storica cattura degli ultimi 5 anni per la flotta dell'Unione europea.
Lo scopo della commissione mista è stato anche programmato dalle risorse finanziarie destinate dall'Unione europea in Madagascar, al fine di sostenere le sue priorità politiche per lo sviluppo del settore della pesca. L'importo stanziato di 550 000 euro l'anno saranno destinati, in particolare, a rafforzare le attività di controllo e di implementazione di osservatori a bordo flotte autorizzate a pescare nelle acque del Madagascar.

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                8 maggio 2013

Hira Gasy


Hira Gasy significa letteralmente "canto malgascio". Tale forma artistica popolare mescola teatro, canzone e danza. Destinati originariamente a un pubblico locale, gli spettacoli di Hira Gasy attirano oggi un numero sempre maggiore di spettatori. Generalmente le compagnie sono costituite da più persone della stessa famiglia o dello stesso villaggio. Sono chiamate Mpihira Gasy. 
Si tratta molto spesso di paesani poveri ai quali si ricorre per animare un matrimonio, una nascita o una festa nazionale. Il costume tradizionale è un lungo vestito con merletti per le donne, una casacca rossa, pantaloni neri e un cappello di paglia per gli uomini.

Come aspetti più culturali del paese, Hira Gasy è assolutamente unica in Madagascar. E 'una forma di intrattenimento tradizionale malgascia che si dice esistono dal 1789, e lo Stato di re Andrianampoinimerina. Questo re fornito il suo popolo con attrezzi agricoli e le tecniche in modo che sarebbe in grado di nutrirsi in tempi di carestia o tempi di abbondanza, e mpikabary (oratori) è andato ad esibirsi per loro (tra cui cantanti e ballerini) per intrattenerli. La pratica di Hira Gasy è stato popolare da allora per rendere grazie a loro re. 

Cosa succede in una performance Gasy Hira?

Oggi, una performance Hira Gasy composto da diversi temi, ogni tema si compone di cinque fasi, come Sasitehaka (un preludio, di solito circa dieci minuti). La parte principale del Gasy Hira è il Renihira, che introduce il tema principale dello spettacolo. I temi possono essere di agricoltura, questioni sociali, matrimoni, o anche commerciale. Le canzoni legate a questo tema può durare per un'ora o anche di più.
Oggi, molte influenze sono adottate da Gasy Hira, come le uniformi rosse indossate dai francesi durante la loro colonizzazione dell'isola. Hira Gasy è talvolta messo in scena durante le cerimonie sacre e comprende fra l'Famadihana (l'esumazione dei morti per la sepoltura), la cerimonia di circoncisione da uno a sette anni e altri eventi importanti.
A volte alle presentazioni sono anche ammessi i turisti, anche se questi  spesso sono solo per gruppi organizzati. Per la gente del posto, Hira Gasy è fatto per pubblico spettacolo, e nelle piccole città e nei villaggi è possibile imbattersi in uno spettacolo tradizionale. 







La corsa al carbone sub sahariano: Sudafrica e Madagascar si confrontano

di Giuseppe Matarazzo

La gestione delle risorse naturali in Africa, in particolare il loro sfruttamento, è considerata una delle principali opportunità per il raggiungimento di uno sviluppo economico duraturo. Tra le risorse naturali, quelle minerarie, benché distribuite  geopoliticamente in maniera diseguale, rappresentano una leva imprescindibile per la crescita sociale, politica ed economica di numerosi paesi africani. Tra i settori in continua crescita a livello internazionale quello carbonifero costituisce uno dei veri e propri motori dell’economia nazionale per diversi paesi che, come il Sudafrica, hanno fatto del carbone un mezzo di sostentamento energetico ed al contempo una fonte di reddito indispensabile attraverso le esportazioni. D’altra parte il carbone costituisce la fonte più utilizzata per produrre energia elettrica il cui consumo negli ultimi anni, attraverso la crescente domanda da parte dei paesi in via di sviluppo, è aumentato vertiginosamente.  Di conseguenza nuove prospettive di sviluppo si fanno largo nel settore carbonifero e paesi come la Repubblica del Madagascar rischiano di compromettere il ruolo di titolare assoluto a livello regionale detenuto dalla repubblica sudafricana. Sudafrica e Madagascar da commercianti nel settore carbonifero rischiano di diventare potenziali rivali, tuttavia entrambi offrono numerose possibilità per futuri investimenti in questo settore così strategico per le economie emergenti.


La Repubblica  Sudafricana, tra i più grandi produttori, consumatori ed esportatori di carbone, rappresenta un attore chiave sui mercati carboniferi mondiali. La produzione del carbone sudafricano, industria ultracentenaria e braccio energetico dell’attività estrattiva diamantifera, presenta diverse peculiarità: l’attività estrattiva ha costi molto contenuti, dovuti alla presenza della roccia sedimentaria a un’esigua distanza rispetto al suolo; si avvale del più grande terminal per le esportazioni carbonifere; è privilegiata da una posizione geografica strategica per le rotte commerciali, rappresentando il collegamento naturale tra i due oceani, Atlantico e Pacifico.  Queste caratteristiche fanno del “paese arcobaleno” un esportatore competitivo sui mercati internazionali, soprattutto in Europa, Cina e India. Produzione e consumo di carbone sono rimasti relativamente stabili negli ultimi dieci anni, nonostante i gruppi ambientalisti  imputino all’attività estrattiva  l'inquinamento ambientale. Oltretutto l'uso del carbone, specialmente da parte della  Eskom (la società elettrica statale) e Sasol,  si prevede continui o addirittura acceleri nei prossimi anni. Le riserve di carbone sudafricane sono stimate tra i 15 e 55 miliardi di tonnellate, il 96%  è costituito da carbone bituminoso, il restante è diviso in maniera equa tra  metallurgico ed antracite. La maggior parte delle riserve sono situate nel bacino centrale che comprende il Witbank, Highveld ed Ermelo. Inoltre l’area Waterberg è al centro degli sforzi di esplorazione e potrebbe diventare un importante sito di estrazione, oltre ai bacini carboniferi della Provincia del Limpopo che sono in fase di studio, con particolare attenzione al carbon coke. Ciononostante, l’esposizione sudafricana all’interno dei consessi  internazionali in merito alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra unita ai problemi strutturali del paese potrebbero avere notevoli ripercussioni sul settore carbonifero, agevolando seppur in maniera indiretta, potenziali concorrenti come la Repubblica del Madagascar.

Le scoperte dei primi giacimenti di carbone all’interno della repubblica malgascia risalgono agli inizi del XX secolo quando la Francia avviò la costruzione di una serie di trincee esplorative e di cunicoli nella parte sud occidentale del paese oggi nota come bacino carbonifero di Sakoa.  In seguito diverse società estere intrapresero un intermittente processo di esplorazione e di studi di fattibilità che non portarono tuttavia a un’adeguata risposta alle possibilità d’investimento nel settore. Tutto ciò fu accompagnato dalla mancanza di una politica strutturata nei confronti del carbone che, di fatto, ostacolò ogni possibilità di sfruttare una risorsa da cui il paese dipendeva sia da un punto di vista energetico che commerciale.  Negli anni ’90 il Madagascar importava gran parte del carbone dalla vicina Repubblica Sudafricana e solo dal 2000 in poi, attraverso la stretta collaborazione con le Istituzioni Finanziarie Internazionali, Banca Mondiale e Fondo Monetario in particolare, la Repubblica Malgascia ha adottato una serie di riforme per la ristrutturazione del settore minerario. Tutto ciò ha favorito il ritorno di cospicui investimenti esteri e nonostante la raccolta dati in merito alle stime sulle riserve carbonifere siano in corso di definizione, nella sola area esplorata di Sakoa quest’ultime raggiungono i 3 miliardi di tonnellate. L’instabilità politica che negli ultimi anni ha caratterizzato il Madagascar non ha garantito la continuità nello sviluppo del settore carbonifero che rimane un ottimo potenziale per gli sviluppi futuri del sistema economico nazionale.

Mentre produzione e utilizzo di carbone crescono smisuratamente, il dibattito sul diritto allo  sviluppo e la necessità della tutela ambientale da parte delle economie emergenti torna prepotentemente sulla scena internazionale. In questo senso il Sudafrica è un esempio lungimirante,  registrando tra le più alte emissioni di CO2 e rappresentando la bandiera africana dello sviluppo nei forum mondiali deve rispondere  agli stringenti vincoli internazionali oltre a dover affrontare le numerose problematiche interne al paese. Nonostante le ultime rivendicazioni sindacali abbiano solo lambito il settore carbonifero, permangono diversi problemi di natura politica e strutturale. Tra i problemi più importanti del comparto carbonifero sudafricano persiste la mancanza di pianificazione e di coordinamento degli investimenti tra le miniere di proprietà privata e quelle di proprietà dello Stato. Conseguenza diretta di questa lacuna è la carenza  infrastrutturale delle ferrovie che interessano soprattutto le aree portuali. Senza un’adeguata politica di sviluppo del settore minerario la Repubblica sudafricana  continuerà a non massimizzare il proprio potenziale in termini di esportazioni,  anche a fronte del notevole incremento della domanda di energia elettrica a livello nazionale e internazionale. D’altra parte la Repubblica del Madagascar deve confrontarsi con un apparato burocratico troppo pesante e poco produttivo che insieme ad un livello infrastrutturale ancora nella sua fase embrionale rallenta il processo di sviluppo economico del paese.  Tuttavia la collaborazione tra i due paesi e le Istituzioni Finanziarie Internazionali ha sicuramente accelerato il processo di riforma interno per la predisposizione di una politica organica nei confronti del carbone, abbassando il rischio sugli investimenti nel settore. Malgrado ciò la capacità d’investimento nel comparto energetico sub sahariano non potrà prescindere dalla volontà di saper coniugare istanze nazionali ed internazionali, nel pieno rispetto del diritto al mutuo sviluppo ed alla tutela ambientale.
Fonte: AGI

Affari in vista, Londra riapre la sua ambasciata in Madagascar



Chiusa nel 2005 per motivi economici, riaprirà nei prossimi giorni l’ambasciata della Gran Bretagna in Madagascar. Lo ha annunciato il capo della diplomazia britannica Willan Hague, precisando che l’ambasciatore Timothy Smart verrà insediato ad Antananarivo entro la fine de mese e che la sede sarà pienamente operativa a marzo. L’annuncio della riapertura dell’ambasciata era già stato fatto l’anno scorso.
La decisione è stata motivata dalla prospettiva di futuri investimenti nell’isola africana e dalla volontà politica di sostenere Antananarivo in vista delle prossime elezioni. Previsto per il 2013, il voto dovrebbe segnare il ritorno a un governo democratico dopo più di tre anni di transizione sotto la guida dell’attuale uomo forte, Andry Rajoelina.
La riapertura dell’ambasciata di Londra ad Antananarivo, ha precisato Hague, “rientra nell’ambito dell’espansione della rete diplomatica del Regno Unito nelle regioni chiavi del mondo. Entro il 2015 – ha aggiunto – Londra avrà aperto fino a 11 nuove ambasciate e otto nuovi consolati e inviato 300 persone supplementari in 22 paesi con economie emergenti”.
La grande isola, anche chiamata “isola rossa”, possiede tra l’altro giacimenti di oro, pietre preziose, minerali radioattivi, idrocarburi, sale, bauxite. È il principale esportatore mondiale di vaniglia ed è nota per l’eccezionale biodiversità della sua fauna e flora.
Fonte: Atlas Quotidiano di Esteri

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                8 maggio 2013

Turista morto in Madagascar. Pare si sia trattato di un malore





Era scomparso una settimana fa, durante un'escursione nella riserva naturale di Ankarana, in Madagascar. Il corpo di Vittorio Di Gennaro, turista 69enne di Rimini, è stato ritrovato senza vita

Era scomparso una settimana fa, durante un'escursione nella riserva naturale di Ankarana, in Madagascar. Il corpo di Vittorio Di Gennaro, turista 69enne di Rimini, è stato ritrovato senza vita. L'informazione arriva da un parente. Il cadavere di Di Gennaro non presenta segni di violenza. Causa della morte, secondo le prime ipotesi degli inquirenti malgasci, potrebbe essere stato un malore. Sul cadavere sarà comunque eseguita l'autopsia. 



Il turista esperto ed appassionato di viaggi era in Madagascar con un viaggio organizzato. La moglie, Domenica Mauri, lo aveva sentito fino a lunedì scorso via sms, poi i Carabinieri di Rimini le avevano dato la notizia della scomparsa. Di Gennaro si era fermato durante un'escursione perchè si sentiva stanco. I compagni al ritorno non l'avevano più trovato. Da lì il contatto con l'ambasciata italiana e gli aggiornamenti sulle ricerche. Purtroppo la vicenda è finita in tragedia. Il corpo è stato trovato ai piedi di un albero nella riserva naturale di Ankarana, all'estremo nord dell'isola.
Una telefonata alle 8 di martedì mattina, al cellulare del nipote del riminese deceduto, Alessandro Fiorini, dall'ambasciata di Pretoria (Sudafrica) ha confermato la notizia ai familiari in Italia. "Mi hanno avvisato - dice Fiorini - del ritrovamento del corpo questa mattina. L'hanno trovato vicino ad un albero all'interno del parco naturale, ma non me ne hanno comunicata l'esatta posizione. Le autorità mi hanno detto che si esclude la morte violenta"."Le autorità del posto - continua il nipote - escludono la morte violenta perché aveva ancora con sé tutti i soldi e non vi sarebbero segni sul corpo. La causa della morte potrebbe essere stato un malore". Sul cadavere già sarebbe stata eseguita l'autopsia. "Ma è troppo presto per sapere quando la salma verrà rimpatriata", dice Fiorini.
Si è chiusa in un composto silenzio, la moglie, Domenica Mauri. Insegnante e preside del liceo scientifico Serpieri di Rimini, in questi giorni aveva tentato di raggiungere il marito al telefono, ma senza risultato. "Gli unici contatti li ho avuti con l'ambasciata italiana a Pretoria, in Sudafrica, non ho potuto parlare con gli altri italiani che erano lì con lui, perché i collegamenti telefonici sono difficili". "Le informazioni che ho, le ho avuto dall'ambasciata - dice tra le lacrime - sono stati gentili e io posso solo ringraziarli. Ora però desidero un po' di pace".
Fonte: RiminiToday » Cronaca

Riminese scomparso in Madagascar durante escursione


"Sono molto preoccupata, le ricerche finora non danno risultati. Mio marito è abituato a pagare in contanti, forse qualcuno ha visto i soldi..."


Un turista italiano, Vittorio Di Gennaro, residente a Rimini, è scomparso in Madagascar nel corso di un'escursione nella riserva naturale di Ankarana, all'estremo nord dell'isola. Lo hanno confermato i carabinieri di Rimini. L'uomo, 69 anni, residente in riviera, era partito il 21 ottobre con un gruppo organizzato dal Tour Operator di Milano 'Lombard Gate' e non se ne hanno più notizie dal 23 ottobre. Sono stati gli stessi carabinieri di Rimini, allertati dai colleghi dell'Ambasciata d'Italia a Pretoria (competente per il Madagascar), ad avvertire la moglie, Domenica Mauri. Secondo quanto riferito da un parente, Alessandro Fiorini, nel corso dell'escursione Vittorio Di Gennaro si sarebbe fermato perché stanco, ma il resto del gruppo al ritorno non lo ha più trovato. La Farnesina segue la vicenda attraverso l'Ambasciata italiana a Pretoria che è in stretto contatto con le autorità locali.
Domenica Mauri, la moglie dell'uomo che da giorni è in apprensione, all'ANSA afferma: "Sono in contatto con l'ambasciata italiana di Pretoria - ha detto - mi dicono che stanno facendo delle ricerche, ma che per ora non ci sono risultati. Io sono molto preoccupata". Vittorio Di Gennaro è un appassionato di viaggi, passione coltivata con maggiore continuità da quando (a differenza della moglie che ancora lavora e che non può sempre seguirlo) è in pensione. "Ci siamo scambiati dei messaggi - ha detto la donna - domenica dagli aeroporti di Bologna e di Parigi, poi ho avuto sempre sue notizie via sms lunedì, mi aveva detto che tutto andava per il meglio. Sapevamo che le comunicazioni erano difficili. Dopo che ho avuto la notizia dai carabinieri di Rimini, ho provato a richiamarlo ma il telefono era staccato". "A quanto mi hanno riferito - prosegue Domenica Mauri - mio marito si è fermato da solo, prima di fare un'escursione, perché era stanco. Avrebbe aspettato i suoi compagni di viaggio alla fine dell'escursione, ma non lo hanno più trovato". "Mio marito - ha continuato - è abituato a pagare con i contanti, più che con le carte di credito e qualcuno potrebbe essersi accorto che aveva con sé dei soldi".



Gli indemoniati del Madagascar




Il 90% delle persone affette da epilessia vive nei Paesi a basso e medio reddito. La maggior parte curata con pozioni

«Una delle scoperte più sconvolgenti è stato vedere che durante una crisi o, talvolta anche tra una crisi e l’altra, le persone con epilessia venivano confinate in solitudine. In alcuni casi erano legate ai polsi e alle caviglie, in genere con funi, ma qualche volta anche con catene metalliche». Così un gruppo di ricercatori francesi dell’università di Limoges, in Francia, descrive in un contributo pubblicato sulla rivista Lancet Neurology il modo in cui spesso i malati di epilessia vengono assistiti nei Paesi a basso reddito. «Questo approccio - spiegano - sembra essere adottato se il paziente è giudicato un pericolo per le altre persone o per punire la forza diabolica che risiede nel loro corpo». È questa infatti la spiegazione dell’epilessia che in molte aree del Terzo Mondo ancora viene data: una possessione diabolica.

ESORCISMO - L’assistenza fornita ai malati non può che essere conseguente: preghiere, esorcismi e, talvolta, infusi di erbe e massaggi addominali. Il medico non è un attore fondamentale. Tanto che, secondo quanto riportato dai ricercatori, il dottore passa in visita una volta al mese. Il racconto si riferisce ad alcuni campi (centri medici di fortuna gestiti per lo più da religiosi) in Madagascar. Ma la storia raccontata è la stessa di molti altri posti nel mondo. Uno studio appena pubblicato su un numero speciale della rivista Lancet ha cercato di fotografare la situazione dei pazienti epilettici nel Paesi a basso e medio reddito. E i risultati scoperchiano un problema sanitario ancora sottostimato. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che circa 50 milioni di persone nel mondo siano affette dalla malattia. E il 90 per cento di esse si concentra nei Paesi in via di sviluppo. Una percentuale che, per i ricercatori, potrebbe essere riconducibile all’altissima diffusione di fattori di rischio almeno in parte prevenibili: traumi cranici, scarse cure neonatali, infezioni come la neurocisticercosi o l’oncocercosi. Tuttavia, le stime di cui si dispone sono tutt’altro che affidabili. «Ricavare dati credibili sull’epidemiologia dell’epilessia nei Paesi a basso e medio reddito è molto difficile. Le indagini che forniscono i dati di cui avremmo bisogno sono molto poche», ha spiegato uno degli autori dello studio, Charles Newton, dell’University of Oxford in Gran Bretagna.

TERAPIE - A rendere ancora più complicate le indagini è il fatto che «molte persone con epilessia o le loro famiglie neanche sono consapevoli del fatto di avere una malattia, che per giunta può essere controllata con i farmaci», ha aggiunto Newton. Proprio quello dell’accesso ai farmaci è il punto su cui si è più concentrata l’attenzione dei ricercatori che hanno passato al vaglio la letteratura scientifica internazionale e interpellato le autorità sanitarie dei Paesi interessati. Nonostante i trattamenti per l’epilessia siano relativamente poco costosi, sei persone su dieci, tra quelle affette dalla malattia, non godono di un trattamento appropriato. «Sfortunatamente, strutture adeguate per la diagnosi, il trattamento e la gestione dell’epilessia sono in pratica inesistenti in molte parti delle regione più povere del mondo», spiega Newton. Ma non è questa l’unica ragione dell’inadeguata assistenza sanitaria: ciò che più incide - hanno concluso i ricercatori - è lo stigma associato a questa malattia e le credenze sulla sua origine.
Antonino Michienzi
Fonte: Corriere della Sera



sabato 20 ottobre 2012

Benetton sbarca in Madagascar


«Tutti i colori del mondo»
La storia dei Benetton di Treviso
La Undercolors of Benetton è anche ad Antananarivo la capitale del Madagascar. Il centro ZOOM divenuto un centro molto elegante e ricco di parecchie firme internazionali, molto frequentato sia dai residenti della capitale che dai turisti per la grande quantità e qualità di scelta che offre, oggi si arricchisce con la presenza di un outlet Benetton.
Colore, freschezza, comfort e fantasia sono gli elementi principali della collezione Undercolors of Benetton per essere sempre in linea con i trend del momento.


  Parlare di stile riferendosi a un’azienda che produce maglioni potrà sembrare scontato, e forse anche banale, ma la scelta del termine in questo caso va oltre la semplice eccezione legata all’abbigliamento e alle sfilate di moda, abbracciando anche i suoi ulteriori significati di disegno strategico e modo di comportarsi. Vedere nella Benetton solo l’aspetto legato alla moda e al giro di affari che vi ruota attorno sarebbe oltremodo riduttivo, essendo riscontrabili nel gruppo di Treviso due diversi livelli di intervento: uno eminentemente commerciale e uno più propriamente “ideologico”, entrambi riconducibili, comunque, alle strategie del mondialismo.
    Luciano Benetton viene dalla “gavetta”, avendo cominciato come commesso in un negozio di tessuti di Treviso, e in seguito come rappresentante di capi di maglieria per conto di piccole imprese locali. Quando a metà degli anni Sessanta comincia ad operare il maglificio di Ponzano Veneto, è sui rapporti di Luciano con importanti commercianti romani, consolidati durante la precedente attività, che la famiglia Benetton può contare come trampolino di lancio. Inizialmente l’attività si basa sul lavoro artigiano di Giuliana Benetton e sulla commercializzazione, da parte di Luciano, delle maglie da questa prodotte.

La marcia trionfale che ha condotto Benetton da questo inizio, tutto sommato modesto, alle odierne dimensioni multinazionali della sua impresa ha, bisogna riconoscerlo, tutte le caratteristiche del miracolo (anche se per l’ambito in cui il fenomeno Benetton può essere inserito, l’impiego di un termine legato al mondo del sacro è senz’altro fuori luogo, risultando più efficace il ricorso ad altre espressioni, come mistero o enigma). Nel 1967, un primo “colpo di genio”: l’acquisto, a prezzo di rottame, di vecchi telai Cotton (destinati alla produzione di classiche calze da donna, resi ormai obsoleti dall’irrompere sul mercato del meno affascinante ma più pratico collant), trasformati a basso costo in telai per la lavorazione della maglieria. I telai, acquistati per un milione di vecchie lire l’uno, dopo la riconversione andarono a costituire un parco macchine il cui costo salì a circa mezzo miliardo.La “rivoluzione culturale” sessantottina portò, fra le altre conseguenze, anche al crollo della domanda di capi eleganti e ben curati, dando il via libera a un abbigliamento informale, di minore qualità e dal basso costo. La Benetton si specializzò nella produzione di un abbigliamento per un pubblico di massa; e per garantirsi il successo in un mercato non certo facile puntò alla standardizzazione mascherata di originalità attraverso l’uso differenziato dei colori. «Tutti i colori del mondo» divenne lo slogan trainante dell’impresa trevigiana.

    Per il mercato giovanile di massa, dove l’abbigliamento viene particolarmente percepito come elemento fondamentale nella definizione dell’immagine di sé, il prodotto Benetton tende a presentarsi come un vero e proprio modello di vita. All’omologazione interiore deve corrispondere quella esteriore, e se c’è un modo per non essere mai se stessi, questo è quello di cambiare (e cambiarsi!) continuamente. Ne consegue l’elevata rotazione della merce, tipica dei negozi col marchio Benetton, con l’affermazione del prodotto usa e getta che ben si adatta ad una società consumistica e superficiale come quella che da noi si è andata diffondendo, proprio a partire dal presunto anticonformismo del Sessantotto.

    Un’altra “trovata” di Benetton è stata quella di affidare quasi totalmente all’esterno le diverse fasi della lavorazione e della commercializzazione del suo prodotto. A partire dall’approvvigionamento delle materie prime, per il quale egli si affida ad un ristretto gruppo di imprese, nei cui confronti esercita una vera e propria supremazia. Tramite grossi volumi d’acquisti concentrati progressivamente su singoli fornitori, più che creare rapporti privilegiati si determinano vere e proprie dipendenze che, di fatto, condizionano fortemente le scelte interne dei fornitori.

    La Benetton opera esplicite sollecitazioni affinché le imprese fornitrici si adeguino alle sue esigenze, inducendole a modificare la propria specializzazione produttiva. Nel tempo le aziende fornitrici hanno modellato la loro specializzazione sulle esigenze della Benetton. Il condizionamento diventa a poco a poco totalizzante e dalla semplice compravendita del prodotto grezzo sconfina anche nella scelta degli investimenti e negli standard qualitativi, provocando l’immedesimazione totale del fornitore nei problemi produttivi del cliente.



    Anche il lavoro di confezione è affidato a laboratori esterni. La Benetton si riserva esclusivamente le fasi di piegatura, etichettatura, imbustaggio, oltre alla coloritura dei capi, che viene effettuata per ultima, onde poterla adeguare alle effettive esigenze del mercato. I capi vengono controllati al rientro dai laboratori, dopo che a questi sono state fornite tutte le indicazioni necessarie al perseguimento di uno standard unico, e non vengono tollerati scadimenti qualitativi. Viene esercitato anche un controllo sulla politica di sviluppo dei laboratori, che devono informare annualmente sulla struttura del proprio parco macchine e sul numero di addetti impiegati. Viene garantito, d’altra parte, il completo assorbimento delle capacità produttive del laboratorio. Si verifica infatti, che questi laboratori si trovano ad operare a tempo pieno per conto della Benetton, senza che questo rapporto di dipendenza sia in alcun modo formalizzato; i contratti riguardano infatti solo le singole commesse.

    Il prezzo viene imposto dalla Benetton e le spese di consegna della merce e di ricevimento della materia prima sono a carico dei terzisti. Spesso il laboratorio viene spinto a specializzarsi in un solo tipo di lavorazione, il che vuol dire minori costi di gestione, richiedendone al contempo il massimo impegno produttivo per legarlo stabilmente a sé. Ovviamente il decentramento della lavorazione in piccole imprese, svolta comunque sotto il rigido controllo del committente, salvaguarda il gruppo trevigiano dai rischi e dai costi derivanti dalla conflittualità sociale. Per cui, alla fine, non solo Benetton non ha nessun problema con i sindacati – se il singolo laboratorio o un’impresa fornitrice di lana grezza è costretta a licenziare i suoi dipendenti, nessuno potrà prendersela con il loro reale padrone –, ma per giunta l’ex senatore repubblicano passa per essere un imprenditore illuminato e di sinistra.

    D’altra parte non è diverso il destino degli Stati caduti sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale. Paesi costretti ad applicare politiche economiche autodistruttive, indotti a concentrare le proprie capacità produttive nella direzione voluta dal potere mondialista, i quali, quando il loro indebitamento diventa di proporzioni astronomiche, vengono sostenuti dal FMI come l’impiccato viene retto dalla corda.

    Allo stesso modo è stato risolto il problema fondamentale della distribuzione. L’apertura di una catena di negozi esclusivisti di Benetton,  ma non gestiti direttamente dal gruppo, è stato uno degli elementi decisivi del successo nazionale prima e internazionale poi dell’impresa. Fino al 1976 la preoccupazione principale è stata quella di occupare il mercato interno, consolidando la presenza in Italia, sebbene già agli inizi degli anni Settanta erano stati aperti punti vendita all’estero (2 a Parigi, 1 a Dublino e a Londra, 2 in Germania), i quali, più che altro, hanno svolto la funzione di sondare le tendenze internazionali.

    La commercializzazione all’estero dei prodotti Benetton è gestita dalla Benetton International N. V. Olanda, che controlla la catena di punti vendita e le sedi produttive estere. Lungimirante (o bene informato?) è stato Benetton riguardo all’imminente crollo dell’Unione Sovietica, con la conseguente apertura di un mercato di oltre 250 milioni di persone, visto che già nel 1988, con l’aiuto decisivo del miliardario americano Armand Hammer che lo mise in contatto con le autorità sovietiche, venne costituita la joint venture Benetton-Ayaz che prevedeva la ristrutturazione di una fabbrica di cotone, posseduta dal Ministero dell’Industria della Repubblica Armena. L’accordo prevedeva inoltre la nascita graduale di una rete di negozi gestiti con la “tradizionale” formula del franchising, ognuno dei quali, secondo le previsioni, avrebbe potuto vendere fino a 100 mila capi all’anno. Un’operazione simile a quella condotta nell’ex impero sovietico è stata realizzata nel 1993 guardando al non meno promettente mercato cinese, tramite la costituzione della Benetton China holdings, che doveva portare alla costruzione di uno stabilimento a Shanghai e all’apertura di trecento negozi Benetton in Cina     
    *  *  *
   

                Un’attenzione particolare merita il sistema adottato nella costituzione della rete distributiva. La famiglia Benetton, dopo aver concentrato all’inizio i propri sforzi finanziari nella realizzazione di alcuni negozi che sarebbero serviti da prototipo, appaltò a terzi la loro riproduzione ad ampio raggio. Puntando sui loro stessi rappresentanti, si trovarono ad operare con personale con cui già esisteva un certo affiatamento e già “iniziato” alla filosofia del gruppo. Questi, nel momento in cui venivano invitati ad assumersi un rischio maggiore, si vedevano prospettare la possibilità di incrementare notevolmente i propri utili. Ognuno di loro, da solo o associandosi con altri investitori locali, diede vita ai punti vendita che andarono a costituire i primi anelli della “catena di S. Antonio” che è diventata la rete dei negozi Benetton.

                Di fatto il titolare del singolo negozio diventa, col tempo, proprietario di una piccola catena di negozi, realizzando fra l’altro significative economie riguardo all’amministrazione, l’approvvigionamento, l’addestramento del personale. Queste “bancarelle al coperto”, dall’arredamento essenziale, con scaffali che permettono la massima esposizione della merce, senza il classico bancone, con l’uso di musica appropriata, in cui si vuole creare un’atmosfera ben definita, nella loro progettazione e realizzazione non vengono lasciate alla libera iniziativa e all’improvvisazione del singolo proprietario o gestore, ma vengono elaborate ed imposte direttamente dalla Benetton.

                I negozi col marchio Benetton (in origine diversificato in Jeans West, Tomato, Merceria, My Market), a cui si affiancano i marchi 0-12 e Sisley, sono concentrati all’interno delle aree urbane, nei centri storici e uno a pochi metri dall’altro. È significativa questa dichiarazione di Luciano Benetton, dalle inquietanti assonanze col modo di operare del potere occulto in altri ambiti: «Se un cliente non vuole entrare in un negozio, perché c’è troppa musica, perché gli sembra troppo signorile, o per qualsiasi altro motivo, se ne va ed io ho perso una vendita. Allora io dieci metri dopo gli faccio trovare un altro negozio, che vende le stesse cose, ma con un’altra musica, altro arredamento, ecc. Poi, ad altri cinquanta metri ne metto un altro, ancora diverso: prima o poi quel cliente lo catturo».

                Adottando un sistema pseudo-feudale, la catena di negozi si è allargata a macchia d’olio: da una singola cellula sono germinati nuovi organismi (relativamente autonomi ed autosufficienti), restando immutato il centro propulsore, che trasmette il verbo-pullover, uguale per tutti. Il prezzo di vendita viene fissato dalla Benetton, come i parametri di localizzazione dei negozi, la attribuzione delle insegne, le date e le condizioni dei saldi. La quota maggioritaria dei negozi fa capo ad una rete di poco più di cento titolari, il che semplifica enormemente l’uniformizzazione della politica distributiva.

                Tenuto conto che il grado di partecipazione diretta è molto limitato rispetto al reale controllo esercitato dal gruppo sulle imprese fornitrici, sui laboratori terzisti e sulla rete distributiva, non è azzardato affermare che Benetton si è arricchito, quanto se non più di tanti altri industriali che si sono fatti la fama di “pescecani”, sul lavoro degli altri. La resa economica di questo sistema è stata finora tale da far passare in second’ordine i vincoli imposti. La “galassia Benetton” è,  in definitiva, tenuta insieme da una divinità che, come ogni divinità che si rispetti, ha reso possibile da parte dei suoi “ministri del culto” la spersonalizzazione, la rinuncia a se stessi, la concentrazione su un’unica meta incessantemente perseguita, e questa moderna divinità risponde al nome di dio denaro.


                  Ma queste considerazioni di ordine prettamente economico, che potrebbero far pensare ad una nostra prevenzione nei confronti di ogni idea di profitto, vanno completati con un’analisi di tipo ideologico del fenomeno Benetton; possibile solo attraverso l’esame delle campagne pubblicitarie che hanno reso famoso in tutto il mondo il gruppo trevigiano.

                È singolare che negli anni Sessanta, quando Benetton cominciava a muovere i primi passi nel settore dell’abbigliamento, la sua pubblicità apparisse sulle pagine de La Rassegna mensile di Israel, la rivista delle Comunità ebraiche italiane. Evidentemente la lungimiranza di certi ambienti, che di commercio se ne intendono, aveva individuato in Benetton un cavallo su cui puntare! Seguirono, sulle pagine del mensile Linus, le vignette pubblicitarie del disegnatore franco-argentino Copi, recentemente morto di AIDS.

                Ma il vero salto di “qualità” è stato compiuto con le campagne basate sull’affissione di giganteschi manifesti murali, contenenti immagini che non passano sicuramente inosservate. Il manifesto murale, prima che venisse rilanciato da Benetton, era un mezzo pubblicitario che stava praticamente andando in disuso, essendogli preferito il messaggio affidato alla stampa e, soprattutto, alla televisione. Benetton lo ha riscoperto, utilizzandolo ampiamente, affrontando fra l’altro costi più contenuti e disponendo di uno strumento più agile e più efficace, considerata anche la massima visibilità delle gigantografie ideate dalla Eldorado di Parigi, che fa capo al fotografo Oliviero Toscani.



    
Per meglio comprendere la condizione di completa passività con cui l’uomo moderno subisce i messaggi pubblicitari, e di conseguenza i nefasti effetti che anche le campagne della Benetton determinano su coloro a cui sono indirizzate, potrà risultare utile ricordare quanto ha scritto Evola in proposito: «un insieme di processi ha fatto sì che l’uomo oggi sia particolarmente esposto a subire più o meno passivamente un genere di influenze che si possono chiamare “sottili”, coperte o subliminali, a carattere quasi sempre collettivo. (…) in genere può dirsi che la possibilità di successo delle ideologie e delle parole d’ordine che al giorno d’oggi determinano quasi per intero la vita politico-sociale deriva unicamente dalla mancanza, nei più, di ogni vera difesa per quel che concerne l’accesso alla parte sub-intellettuale irrazionale e “fisica” della psiche». Ci si trova davanti ad un vero e proprio bombardamento che precipita «la persona in una specie di gorgo psichico collettivo autonomo e se essa non dispone di difese interiori, rafforzate dalla vigilanza e dall’aderenza impersonale ad un’idea superiore, è difficile evitare a lungo andare il pericolo dell’infezione».[1]

                Il messaggio pubblicitario della Benetton punta innanzitutto a far risaltare la prospettiva “mondiale” della proposta del gruppo, e per fare questo ha spesso insistito su soggetti che richiamassero modelli multirazziali. Dai bambini di ogni razza ed etnia, l’uno accanto all’altro, fino alla serie di organi genitali maschili di tutti i tipi. Ha inoltre scelto di ogni paese le immagini per le quali questo fosse universalmente conosciuto: per l’Italia l’omicidio di Mafia, per la Bosnia la mimetica crivellata di colpi del soldato caduto a Mostar, per l’Albania i grappoli di profughi in fuga ammassati come formiche su una nave, per il Bangladesh gli effetti devastanti di un alluvione, ecc.

                Ma è tutta la collezione di provocazioni sbattute in faccia all’inerme passante che dimostra un costante intento dissolutivo e dissacratorio, perseguito attraverso la ricerca morbosa dell’orrido e dei risvolti meno nobili dell’esistenza. Illuminante è a tal proposito questa dichiarazione di Oliviero Toscani: «La realtà, così come è raffigurata in immagini del genere, fa più paura della finzione, del falso. Ma noi pensiamo di dover andare oltre il semplice messaggio che i maglioni Benetton sono migliori degli altri. Profitto e comunicazione possono anche convivere».

                Non c’è aspetto dell’esistenza umana che non sia stato fotografato attraverso la lente deformante di questa infezione psichica. Dalla bambina appena nata, insanguinata e ancora legata con il cordone ombelicale alla madre, in cui del miracolo della nascita è rimasto solo l’aspetto nauseabondo, alla zulù albina in mezzo alla sua tribù nera; dai cormorani ricoperti di petrolio[2], ai preservativi colorati a mo’ di palloncini; per finire con la ricostruzione blasfema e in chiave moderna della deposizione di Cristo, attraverso la foto di David Kirby, il malato di AIDS ritratto sul letto di morte fra le braccia del padre.


    Parlare di stile riferendosi a un’azienda che produce maglioni potrà sembrare scontato, e forse anche banale, ma la scelta del termine in questo caso va oltre la semplice eccezione legata all’abbigliamento e alle sfilate di moda, abbracciando anche i suoi ulteriori significati di disegno strategico e modo di comportarsi. Vedere nella Benetton solo l’aspetto legato alla moda e al giro di affari che vi ruota attorno sarebbe oltremodo riduttivo, essendo riscontrabili nel gruppo di Treviso due diversi livelli di intervento: uno eminentemente commerciale e uno più propriamente “ideologico”, entrambi riconducibili, comunque, alle strategie del mondialismo.
    Luciano Benetton viene dalla “gavetta”, avendo cominciato come commesso in un negozio di tessuti di Treviso, e in seguito come rappresentante di capi di maglieria per conto di piccole imprese locali. Quando a metà degli anni Sessanta comincia ad operare il maglificio di Ponzano Veneto, è sui rapporti di Luciano con importanti commercianti romani, consolidati durante la precedente attività, che la famiglia Benetton può contare come trampolino di lancio. Inizialmente l’attività si basa sul lavoro artigiano di Giuliana Benetton e sulla commercializzazione, da parte di Luciano, delle maglie da questa prodotte.

    La marcia trionfale che ha condotto Benetton da questo inizio, tutto sommato modesto, alle odierne dimensioni multinazionali della sua impresa ha, bisogna riconoscerlo, tutte le caratteristiche del miracolo (anche se per l’ambito in cui il fenomeno Benetton può essere inserito, l’impiego di un termine legato al mondo del sacro è senz’altro fuori luogo, risultando più efficace il ricorso ad altre espressioni, come mistero o enigma). Nel 1967, un primo “colpo di genio”: l’acquisto, a prezzo di rottame, di vecchi telai Cotton (destinati alla produzione di classiche calze da donna, resi ormai obsoleti dall’irrompere sul mercato del meno affascinante ma più pratico collant), trasformati a basso costo in telai per la lavorazione della maglieria. I telai, acquistati per un milione di vecchie lire l’uno, dopo la riconversione andarono a costituire un parco macchine il cui costo salì a circa mezzo miliardo.La “rivoluzione culturale” sessantottina portò, fra le altre conseguenze, anche al crollo della domanda di capi eleganti e ben curati, dando il via libera a un abbigliamento informale, di minore qualità e dal basso costo. La Benetton si specializzò nella produzione di un abbigliamento per un pubblico di massa; e per garantirsi il successo in un mercato non certo facile puntò alla standardizzazione mascherata di originalità attraverso l’uso differenziato dei colori. «Tutti i colori del mondo» divenne lo slogan trainante dell’impresa trevigiana.

    Per il mercato giovanile di massa, dove l’abbigliamento viene particolarmente percepito come elemento fondamentale nella definizione dell’immagine di sé, il prodotto Benetton tende a presentarsi come un vero e proprio modello di vita. All’omologazione interiore deve corrispondere quella esteriore, e se c’è un modo per non essere mai se stessi, questo è quello di cambiare (e cambiarsi!) continuamente. Ne consegue l’elevata rotazione della merce, tipica dei negozi col marchio Benetton, con l’affermazione del prodotto usa e getta che ben si adatta ad una società consumistica e superficiale come quella che da noi si è andata diffondendo, proprio a partire dal presunto anticonformismo del Sessantotto.

    Un’altra “trovata” di Benetton è stata quella di affidare quasi totalmente all’esterno le diverse fasi della lavorazione e della commercializzazione del suo prodotto. A partire dall’approvvigionamento delle materie prime, per il quale egli si affida ad un ristretto gruppo di imprese, nei cui confronti esercita una vera e propria supremazia. Tramite grossi volumi d’acquisti concentrati progressivamente su singoli fornitori, più che creare rapporti privilegiati si determinano vere e proprie dipendenze che, di fatto, condizionano fortemente le scelte interne dei fornitori.

    La Benetton opera esplicite sollecitazioni affinché le imprese fornitrici si adeguino alle sue esigenze, inducendole a modificare la propria specializzazione produttiva. Nel tempo le aziende fornitrici hanno modellato la loro specializzazione sulle esigenze della Benetton. Il condizionamento diventa a poco a poco totalizzante e dalla semplice compravendita del prodotto grezzo sconfina anche nella scelta degli investimenti e negli standard qualitativi, provocando l’immedesimazione totale del fornitore nei problemi produttivi del cliente.

    Anche il lavoro di confezione è affidato a laboratori esterni. La Benetton si riserva esclusivamente le fasi di piegatura, etichettatura, imbustaggio, oltre alla coloritura dei capi, che viene effettuata per ultima, onde poterla adeguare alle effettive esigenze del mercato. I capi vengono controllati al rientro dai laboratori, dopo che a questi sono state fornite tutte le indicazioni necessarie al perseguimento di uno standard unico, e non vengono tollerati scadimenti qualitativi. Viene esercitato anche un controllo sulla politica di sviluppo dei laboratori, che devono informare annualmente sulla struttura del proprio parco macchine e sul numero di addetti impiegati. Viene garantito, d’altra parte, il completo assorbimento delle capacità produttive del laboratorio. Si verifica infatti, che questi laboratori si trovano ad operare a tempo pieno per conto della Benetton, senza che questo rapporto di dipendenza sia in alcun modo formalizzato; i contratti riguardano infatti solo le singole commesse.

    Il prezzo viene imposto dalla Benetton e le spese di consegna della merce e di ricevimento della materia prima sono a carico dei terzisti. Spesso il laboratorio viene spinto a specializzarsi in un solo tipo di lavorazione, il che vuol dire minori costi di gestione, richiedendone al contempo il massimo impegno produttivo per legarlo stabilmente a sé. Ovviamente il decentramento della lavorazione in piccole imprese, svolta comunque sotto il rigido controllo del committente, salvaguarda il gruppo trevigiano dai rischi e dai costi derivanti dalla conflittualità sociale. Per cui, alla fine, non solo Benetton non ha nessun problema con i sindacati – se il singolo laboratorio o un’impresa fornitrice di lana grezza è costretta a licenziare i suoi dipendenti, nessuno potrà prendersela con il loro reale padrone –, ma per giunta l’ex senatore repubblicano passa per essere un imprenditore illuminato e di sinistra.

    D’altra parte non è diverso il destino degli Stati caduti sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale. Paesi costretti ad applicare politiche economiche autodistruttive, indotti a concentrare le proprie capacità produttive nella direzione voluta dal potere mondialista, i quali, quando il loro indebitamento diventa di proporzioni astronomiche, vengono sostenuti dal FMI come l’impiccato viene retto dalla corda.

    Allo stesso modo è stato risolto il problema fondamentale della distribuzione. L’apertura di una catena di negozi esclusivisti di Benetton,  ma non gestiti direttamente dal gruppo, è stato uno degli elementi decisivi del successo nazionale prima e internazionale poi dell’impresa. Fino al 1976 la preoccupazione principale è stata quella di occupare il mercato interno, consolidando la presenza in Italia, sebbene già agli inizi degli anni Settanta erano stati aperti punti vendita all’estero (2 a Parigi, 1 a Dublino e a Londra, 2 in Germania), i quali, più che altro, hanno svolto la funzione di sondare le tendenze internazionali.

    La commercializzazione all’estero dei prodotti Benetton è gestita dalla Benetton International N. V. Olanda, che controlla la catena di punti vendita e le sedi produttive estere. Lungimirante (o bene informato?) è stato Benetton riguardo all’imminente crollo dell’Unione Sovietica, con la conseguente apertura di un mercato di oltre 250 milioni di persone, visto che già nel 1988, con l’aiuto decisivo del miliardario americano Armand Hammer che lo mise in contatto con le autorità sovietiche, venne costituita la joint venture Benetton-Ayaz che prevedeva la ristrutturazione di una fabbrica di cotone, posseduta dal Ministero dell’Industria della Repubblica Armena. L’accordo prevedeva inoltre la nascita graduale di una rete di negozi gestiti con la “tradizionale” formula del franchising, ognuno dei quali, secondo le previsioni, avrebbe potuto vendere fino a 100 mila capi all’anno. Un’operazione simile a quella condotta nell’ex impero sovietico è stata realizzata nel 1993 guardando al non meno promettente mercato cinese, tramite la costituzione della Benetton China holdings, che doveva portare alla costruzione di uno stabilimento a Shanghai e all’apertura di trecento negozi Benetton in Cina     
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                Un’attenzione particolare merita il sistema adottato nella costituzione della rete distributiva. La famiglia Benetton, dopo aver concentrato all’inizio i propri sforzi finanziari nella realizzazione di alcuni negozi che sarebbero serviti da prototipo, appaltò a terzi la loro riproduzione ad ampio raggio. Puntando sui loro stessi rappresentanti, si trovarono ad operare con personale con cui già esisteva un certo affiatamento e già “iniziato” alla filosofia del gruppo. Questi, nel momento in cui venivano invitati ad assumersi un rischio maggiore, si vedevano prospettare la possibilità di incrementare notevolmente i propri utili. Ognuno di loro, da solo o associandosi con altri investitori locali, diede vita ai punti vendita che andarono a costituire i primi anelli della “catena di S. Antonio” che è diventata la rete dei negozi Benetton.

                Di fatto il titolare del singolo negozio diventa, col tempo, proprietario di una piccola catena di negozi, realizzando fra l’altro significative economie riguardo all’amministrazione, l’approvvigionamento, l’addestramento del personale. Queste “bancarelle al coperto”, dall’arredamento essenziale, con scaffali che permettono la massima esposizione della merce, senza il classico bancone, con l’uso di musica appropriata, in cui si vuole creare un’atmosfera ben definita, nella loro progettazione e realizzazione non vengono lasciate alla libera iniziativa e all’improvvisazione del singolo proprietario o gestore, ma vengono elaborate ed imposte direttamente dalla Benetton.

                I negozi col marchio Benetton (in origine diversificato in Jeans West, Tomato, Merceria, My Market), a cui si affiancano i marchi 0-12 e Sisley, sono concentrati all’interno delle aree urbane, nei centri storici e uno a pochi metri dall’altro. È significativa questa dichiarazione di Luciano Benetton, dalle inquietanti assonanze col modo di operare del potere occulto in altri ambiti: «Se un cliente non vuole entrare in un negozio, perché c’è troppa musica, perché gli sembra troppo signorile, o per qualsiasi altro motivo, se ne va ed io ho perso una vendita. Allora io dieci metri dopo gli faccio trovare un altro negozio, che vende le stesse cose, ma con un’altra musica, altro arredamento, ecc. Poi, ad altri cinquanta metri ne metto un altro, ancora diverso: prima o poi quel cliente lo catturo».

                Adottando un sistema pseudo-feudale, la catena di negozi si è allargata a macchia d’olio: da una singola cellula sono germinati nuovi organismi (relativamente autonomi ed autosufficienti), restando immutato il centro propulsore, che trasmette il verbo-pullover, uguale per tutti. Il prezzo di vendita viene fissato dalla Benetton, come i parametri di localizzazione dei negozi, la attribuzione delle insegne, le date e le condizioni dei saldi. La quota maggioritaria dei negozi fa capo ad una rete di poco più di cento titolari, il che semplifica enormemente l’uniformizzazione della politica distributiva.

                Tenuto conto che il grado di partecipazione diretta è molto limitato rispetto al reale controllo esercitato dal gruppo sulle imprese fornitrici, sui laboratori terzisti e sulla rete distributiva, non è azzardato affermare che Benetton si è arricchito, quanto se non più di tanti altri industriali che si sono fatti la fama di “pescecani”, sul lavoro degli altri. La resa economica di questo sistema è stata finora tale da far passare in second’ordine i vincoli imposti. La “galassia Benetton” è,  in definitiva, tenuta insieme da una divinità che, come ogni divinità che si rispetti, ha reso possibile da parte dei suoi “ministri del culto” la spersonalizzazione, la rinuncia a se stessi, la concentrazione su un’unica meta incessantemente perseguita, e questa moderna divinità risponde al nome di dio denaro.
     
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                Ma queste considerazioni di ordine prettamente economico, che potrebbero far pensare ad una nostra prevenzione nei confronti di ogni idea di profitto, vanno completati con un’analisi di tipo ideologico del fenomeno Benetton; possibile solo attraverso l’esame delle campagne pubblicitarie che hanno reso famoso in tutto il mondo il gruppo trevigiano.

                È singolare che negli anni Sessanta, quando Benetton cominciava a muovere i primi passi nel settore dell’abbigliamento, la sua pubblicità apparisse sulle pagine de La Rassegna mensile di Israel, la rivista delle Comunità ebraiche italiane. Evidentemente la lungimiranza di certi ambienti, che di commercio se ne intendono, aveva individuato in Benetton un cavallo su cui puntare! Seguirono, sulle pagine del mensile Linus, le vignette pubblicitarie del disegnatore franco-argentino Copi, recentemente morto di AIDS.

                Ma il vero salto di “qualità” è stato compiuto con le campagne basate sull’affissione di giganteschi manifesti murali, contenenti immagini che non passano sicuramente inosservate. Il manifesto murale, prima che venisse rilanciato da Benetton, era un mezzo pubblicitario che stava praticamente andando in disuso, essendogli preferito il messaggio affidato alla stampa e, soprattutto, alla televisione. Benetton lo ha riscoperto, utilizzandolo ampiamente, affrontando fra l’altro costi più contenuti e disponendo di uno strumento più agile e più efficace, considerata anche la massima visibilità delle gigantografie ideate dalla Eldorado di Parigi, che fa capo al fotografo Oliviero Toscani.

                Per meglio comprendere la condizione di completa passività con cui l’uomo moderno subisce i messaggi pubblicitari, e di conseguenza i nefasti effetti che anche le campagne della Benetton determinano su coloro a cui sono indirizzate, potrà risultare utile ricordare quanto ha scritto Evola in proposito: «un insieme di processi ha fatto sì che l’uomo oggi sia particolarmente esposto a subire più o meno passivamente un genere di influenze che si possono chiamare “sottili”, coperte o subliminali, a carattere quasi sempre collettivo. (…) in genere può dirsi che la possibilità di successo delle ideologie e delle parole d’ordine che al giorno d’oggi determinano quasi per intero la vita politico-sociale deriva unicamente dalla mancanza, nei più, di ogni vera difesa per quel che concerne l’accesso alla parte sub-intellettuale irrazionale e “fisica” della psiche». Ci si trova davanti ad un vero e proprio bombardamento che precipita «la persona in una specie di gorgo psichico collettivo autonomo e se essa non dispone di difese interiori, rafforzate dalla vigilanza e dall’aderenza impersonale ad un’idea superiore, è difficile evitare a lungo andare il pericolo dell’infezione».[1]

                Il messaggio pubblicitario della Benetton punta innanzitutto a far risaltare la prospettiva “mondiale” della proposta del gruppo, e per fare questo ha spesso insistito su soggetti che richiamassero modelli multirazziali. Dai bambini di ogni razza ed etnia, l’uno accanto all’altro, fino alla serie di organi genitali maschili di tutti i tipi. Ha inoltre scelto di ogni paese le immagini per le quali questo fosse universalmente conosciuto: per l’Italia l’omicidio di Mafia, per la Bosnia la mimetica crivellata di colpi del soldato caduto a Mostar, per l’Albania i grappoli di profughi in fuga ammassati come formiche su una nave, per il Bangladesh gli effetti devastanti di un alluvione, ecc.

                Ma è tutta la collezione di provocazioni sbattute in faccia all’inerme passante che dimostra un costante intento dissolutivo e dissacratorio, perseguito attraverso la ricerca morbosa dell’orrido e dei risvolti meno nobili dell’esistenza. Illuminante è a tal proposito questa dichiarazione di Oliviero Toscani: «La realtà, così come è raffigurata in immagini del genere, fa più paura della finzione, del falso. Ma noi pensiamo di dover andare oltre il semplice messaggio che i maglioni Benetton sono migliori degli altri. Profitto e comunicazione possono anche convivere».

                Non c’è aspetto dell’esistenza umana che non sia stato fotografato attraverso la lente deformante di questa infezione psichica. Dalla bambina appena nata, insanguinata e ancora legata con il cordone ombelicale alla madre, in cui del miracolo della nascita è rimasto solo l’aspetto nauseabondo, alla zulù albina in mezzo alla sua tribù nera; dai cormorani ricoperti di petrolio[2], ai preservativi colorati a mo’ di palloncini; per finire con la ricostruzione blasfema e in chiave moderna della deposizione di Cristo, attraverso la foto di David Kirby, il malato di AIDS ritratto sul letto di morte fra le braccia del padre.

                Ma c’è da dire che gli attacchi alla religione sono sempre stati un pallino dell’entourage Benetton.[3] Il prete che bacia la suora o gli articoli della rivista Colors dove si definisce Cristo “un falegname tuttofare che diede del vino ai suoi seguaci”, la Vergine Maria abbinata a un intervento ricostruttivo della verginità o la pubblicizzazione del “testo più autorevole per lo sputtanamento dei miracoli”, sono alcuni esempi che chiariscono molto bene quale può essere l’autentica ispirazione di fondo di questa impresa commerciale. E viene anche il sospetto che la vendita dei maglioni sia solo un modo per finanziare queste megacampagne pubblicitarie le quali, se c’è una cosa che vogliono piazzare, non è sicuramente l’abbigliamento.
Fonte:  .heliodromos.it
    

[1] J. Evola, L’arco e la clava, (Cap. XIV, Influenze subliminali e “stupidità intelligente”), Milano, 1968.

[2] Naturalmente una delle immagini che la Benetton vuol trasmettere di se stessa è quella legata all’impegno ecologico – insieme all’antimilitarismo pacifista e all’antirazzismo ipocrita di chi lavora per la distruzione di ogni razza ed etnia. In effetti esiste una Fondazione Benetton che proprio dell’ambientalismo e della tutela e trasformazione del paesaggio si occupa, assegnando dal 1989 il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il giardino. Emblema della Fondazione è un frammento di epoca romana raffigurante una baccante, una furia che danza, sensuale e sfrenata, esibendo la sua nudità.

[3] Fra i tanti, merita di essere menzionata l’ex compagna di Luciano Benetton, Marina Salamon, la quale se l’è presa di recente con il Papa, dichiarando di essere “addolorata” dal fatto che «ancora una volta il cattolicesimo vede le leggi del profitto e dell’economia come qualcosa di malvagio, in conflitto con i bisogni della persona. È una visione che nell’Europa del Nord, a maggioranza protestante, è stata superata da tempo». Inoltre, alla signora Salamon non è andato giù il fatto che il Papa resti contrario alla contraccezione, senza la quale «è impossibile programmare la vita lavorativa». La Salamon, dopo essersi separata da Benetton, si è messa in proprio, e gli affari le vanno naturalmente bene, visto che oltre al controllo sulla Doxa, si occupa di abbigliamento e surgelati, tramite Alchimia (la holding di famiglia) che controlla il 50% della società Agape, che gestisce fra l’altro i servizi di ristorazione a bordo dei treni delle FS.