sabato 20 ottobre 2012

Benetton sbarca in Madagascar


«Tutti i colori del mondo»
La storia dei Benetton di Treviso
La Undercolors of Benetton è anche ad Antananarivo la capitale del Madagascar. Il centro ZOOM divenuto un centro molto elegante e ricco di parecchie firme internazionali, molto frequentato sia dai residenti della capitale che dai turisti per la grande quantità e qualità di scelta che offre, oggi si arricchisce con la presenza di un outlet Benetton.
Colore, freschezza, comfort e fantasia sono gli elementi principali della collezione Undercolors of Benetton per essere sempre in linea con i trend del momento.


  Parlare di stile riferendosi a un’azienda che produce maglioni potrà sembrare scontato, e forse anche banale, ma la scelta del termine in questo caso va oltre la semplice eccezione legata all’abbigliamento e alle sfilate di moda, abbracciando anche i suoi ulteriori significati di disegno strategico e modo di comportarsi. Vedere nella Benetton solo l’aspetto legato alla moda e al giro di affari che vi ruota attorno sarebbe oltremodo riduttivo, essendo riscontrabili nel gruppo di Treviso due diversi livelli di intervento: uno eminentemente commerciale e uno più propriamente “ideologico”, entrambi riconducibili, comunque, alle strategie del mondialismo.
    Luciano Benetton viene dalla “gavetta”, avendo cominciato come commesso in un negozio di tessuti di Treviso, e in seguito come rappresentante di capi di maglieria per conto di piccole imprese locali. Quando a metà degli anni Sessanta comincia ad operare il maglificio di Ponzano Veneto, è sui rapporti di Luciano con importanti commercianti romani, consolidati durante la precedente attività, che la famiglia Benetton può contare come trampolino di lancio. Inizialmente l’attività si basa sul lavoro artigiano di Giuliana Benetton e sulla commercializzazione, da parte di Luciano, delle maglie da questa prodotte.

La marcia trionfale che ha condotto Benetton da questo inizio, tutto sommato modesto, alle odierne dimensioni multinazionali della sua impresa ha, bisogna riconoscerlo, tutte le caratteristiche del miracolo (anche se per l’ambito in cui il fenomeno Benetton può essere inserito, l’impiego di un termine legato al mondo del sacro è senz’altro fuori luogo, risultando più efficace il ricorso ad altre espressioni, come mistero o enigma). Nel 1967, un primo “colpo di genio”: l’acquisto, a prezzo di rottame, di vecchi telai Cotton (destinati alla produzione di classiche calze da donna, resi ormai obsoleti dall’irrompere sul mercato del meno affascinante ma più pratico collant), trasformati a basso costo in telai per la lavorazione della maglieria. I telai, acquistati per un milione di vecchie lire l’uno, dopo la riconversione andarono a costituire un parco macchine il cui costo salì a circa mezzo miliardo.La “rivoluzione culturale” sessantottina portò, fra le altre conseguenze, anche al crollo della domanda di capi eleganti e ben curati, dando il via libera a un abbigliamento informale, di minore qualità e dal basso costo. La Benetton si specializzò nella produzione di un abbigliamento per un pubblico di massa; e per garantirsi il successo in un mercato non certo facile puntò alla standardizzazione mascherata di originalità attraverso l’uso differenziato dei colori. «Tutti i colori del mondo» divenne lo slogan trainante dell’impresa trevigiana.

    Per il mercato giovanile di massa, dove l’abbigliamento viene particolarmente percepito come elemento fondamentale nella definizione dell’immagine di sé, il prodotto Benetton tende a presentarsi come un vero e proprio modello di vita. All’omologazione interiore deve corrispondere quella esteriore, e se c’è un modo per non essere mai se stessi, questo è quello di cambiare (e cambiarsi!) continuamente. Ne consegue l’elevata rotazione della merce, tipica dei negozi col marchio Benetton, con l’affermazione del prodotto usa e getta che ben si adatta ad una società consumistica e superficiale come quella che da noi si è andata diffondendo, proprio a partire dal presunto anticonformismo del Sessantotto.

    Un’altra “trovata” di Benetton è stata quella di affidare quasi totalmente all’esterno le diverse fasi della lavorazione e della commercializzazione del suo prodotto. A partire dall’approvvigionamento delle materie prime, per il quale egli si affida ad un ristretto gruppo di imprese, nei cui confronti esercita una vera e propria supremazia. Tramite grossi volumi d’acquisti concentrati progressivamente su singoli fornitori, più che creare rapporti privilegiati si determinano vere e proprie dipendenze che, di fatto, condizionano fortemente le scelte interne dei fornitori.

    La Benetton opera esplicite sollecitazioni affinché le imprese fornitrici si adeguino alle sue esigenze, inducendole a modificare la propria specializzazione produttiva. Nel tempo le aziende fornitrici hanno modellato la loro specializzazione sulle esigenze della Benetton. Il condizionamento diventa a poco a poco totalizzante e dalla semplice compravendita del prodotto grezzo sconfina anche nella scelta degli investimenti e negli standard qualitativi, provocando l’immedesimazione totale del fornitore nei problemi produttivi del cliente.



    Anche il lavoro di confezione è affidato a laboratori esterni. La Benetton si riserva esclusivamente le fasi di piegatura, etichettatura, imbustaggio, oltre alla coloritura dei capi, che viene effettuata per ultima, onde poterla adeguare alle effettive esigenze del mercato. I capi vengono controllati al rientro dai laboratori, dopo che a questi sono state fornite tutte le indicazioni necessarie al perseguimento di uno standard unico, e non vengono tollerati scadimenti qualitativi. Viene esercitato anche un controllo sulla politica di sviluppo dei laboratori, che devono informare annualmente sulla struttura del proprio parco macchine e sul numero di addetti impiegati. Viene garantito, d’altra parte, il completo assorbimento delle capacità produttive del laboratorio. Si verifica infatti, che questi laboratori si trovano ad operare a tempo pieno per conto della Benetton, senza che questo rapporto di dipendenza sia in alcun modo formalizzato; i contratti riguardano infatti solo le singole commesse.

    Il prezzo viene imposto dalla Benetton e le spese di consegna della merce e di ricevimento della materia prima sono a carico dei terzisti. Spesso il laboratorio viene spinto a specializzarsi in un solo tipo di lavorazione, il che vuol dire minori costi di gestione, richiedendone al contempo il massimo impegno produttivo per legarlo stabilmente a sé. Ovviamente il decentramento della lavorazione in piccole imprese, svolta comunque sotto il rigido controllo del committente, salvaguarda il gruppo trevigiano dai rischi e dai costi derivanti dalla conflittualità sociale. Per cui, alla fine, non solo Benetton non ha nessun problema con i sindacati – se il singolo laboratorio o un’impresa fornitrice di lana grezza è costretta a licenziare i suoi dipendenti, nessuno potrà prendersela con il loro reale padrone –, ma per giunta l’ex senatore repubblicano passa per essere un imprenditore illuminato e di sinistra.

    D’altra parte non è diverso il destino degli Stati caduti sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale. Paesi costretti ad applicare politiche economiche autodistruttive, indotti a concentrare le proprie capacità produttive nella direzione voluta dal potere mondialista, i quali, quando il loro indebitamento diventa di proporzioni astronomiche, vengono sostenuti dal FMI come l’impiccato viene retto dalla corda.

    Allo stesso modo è stato risolto il problema fondamentale della distribuzione. L’apertura di una catena di negozi esclusivisti di Benetton,  ma non gestiti direttamente dal gruppo, è stato uno degli elementi decisivi del successo nazionale prima e internazionale poi dell’impresa. Fino al 1976 la preoccupazione principale è stata quella di occupare il mercato interno, consolidando la presenza in Italia, sebbene già agli inizi degli anni Settanta erano stati aperti punti vendita all’estero (2 a Parigi, 1 a Dublino e a Londra, 2 in Germania), i quali, più che altro, hanno svolto la funzione di sondare le tendenze internazionali.

    La commercializzazione all’estero dei prodotti Benetton è gestita dalla Benetton International N. V. Olanda, che controlla la catena di punti vendita e le sedi produttive estere. Lungimirante (o bene informato?) è stato Benetton riguardo all’imminente crollo dell’Unione Sovietica, con la conseguente apertura di un mercato di oltre 250 milioni di persone, visto che già nel 1988, con l’aiuto decisivo del miliardario americano Armand Hammer che lo mise in contatto con le autorità sovietiche, venne costituita la joint venture Benetton-Ayaz che prevedeva la ristrutturazione di una fabbrica di cotone, posseduta dal Ministero dell’Industria della Repubblica Armena. L’accordo prevedeva inoltre la nascita graduale di una rete di negozi gestiti con la “tradizionale” formula del franchising, ognuno dei quali, secondo le previsioni, avrebbe potuto vendere fino a 100 mila capi all’anno. Un’operazione simile a quella condotta nell’ex impero sovietico è stata realizzata nel 1993 guardando al non meno promettente mercato cinese, tramite la costituzione della Benetton China holdings, che doveva portare alla costruzione di uno stabilimento a Shanghai e all’apertura di trecento negozi Benetton in Cina     
    *  *  *
   

                Un’attenzione particolare merita il sistema adottato nella costituzione della rete distributiva. La famiglia Benetton, dopo aver concentrato all’inizio i propri sforzi finanziari nella realizzazione di alcuni negozi che sarebbero serviti da prototipo, appaltò a terzi la loro riproduzione ad ampio raggio. Puntando sui loro stessi rappresentanti, si trovarono ad operare con personale con cui già esisteva un certo affiatamento e già “iniziato” alla filosofia del gruppo. Questi, nel momento in cui venivano invitati ad assumersi un rischio maggiore, si vedevano prospettare la possibilità di incrementare notevolmente i propri utili. Ognuno di loro, da solo o associandosi con altri investitori locali, diede vita ai punti vendita che andarono a costituire i primi anelli della “catena di S. Antonio” che è diventata la rete dei negozi Benetton.

                Di fatto il titolare del singolo negozio diventa, col tempo, proprietario di una piccola catena di negozi, realizzando fra l’altro significative economie riguardo all’amministrazione, l’approvvigionamento, l’addestramento del personale. Queste “bancarelle al coperto”, dall’arredamento essenziale, con scaffali che permettono la massima esposizione della merce, senza il classico bancone, con l’uso di musica appropriata, in cui si vuole creare un’atmosfera ben definita, nella loro progettazione e realizzazione non vengono lasciate alla libera iniziativa e all’improvvisazione del singolo proprietario o gestore, ma vengono elaborate ed imposte direttamente dalla Benetton.

                I negozi col marchio Benetton (in origine diversificato in Jeans West, Tomato, Merceria, My Market), a cui si affiancano i marchi 0-12 e Sisley, sono concentrati all’interno delle aree urbane, nei centri storici e uno a pochi metri dall’altro. È significativa questa dichiarazione di Luciano Benetton, dalle inquietanti assonanze col modo di operare del potere occulto in altri ambiti: «Se un cliente non vuole entrare in un negozio, perché c’è troppa musica, perché gli sembra troppo signorile, o per qualsiasi altro motivo, se ne va ed io ho perso una vendita. Allora io dieci metri dopo gli faccio trovare un altro negozio, che vende le stesse cose, ma con un’altra musica, altro arredamento, ecc. Poi, ad altri cinquanta metri ne metto un altro, ancora diverso: prima o poi quel cliente lo catturo».

                Adottando un sistema pseudo-feudale, la catena di negozi si è allargata a macchia d’olio: da una singola cellula sono germinati nuovi organismi (relativamente autonomi ed autosufficienti), restando immutato il centro propulsore, che trasmette il verbo-pullover, uguale per tutti. Il prezzo di vendita viene fissato dalla Benetton, come i parametri di localizzazione dei negozi, la attribuzione delle insegne, le date e le condizioni dei saldi. La quota maggioritaria dei negozi fa capo ad una rete di poco più di cento titolari, il che semplifica enormemente l’uniformizzazione della politica distributiva.

                Tenuto conto che il grado di partecipazione diretta è molto limitato rispetto al reale controllo esercitato dal gruppo sulle imprese fornitrici, sui laboratori terzisti e sulla rete distributiva, non è azzardato affermare che Benetton si è arricchito, quanto se non più di tanti altri industriali che si sono fatti la fama di “pescecani”, sul lavoro degli altri. La resa economica di questo sistema è stata finora tale da far passare in second’ordine i vincoli imposti. La “galassia Benetton” è,  in definitiva, tenuta insieme da una divinità che, come ogni divinità che si rispetti, ha reso possibile da parte dei suoi “ministri del culto” la spersonalizzazione, la rinuncia a se stessi, la concentrazione su un’unica meta incessantemente perseguita, e questa moderna divinità risponde al nome di dio denaro.


                  Ma queste considerazioni di ordine prettamente economico, che potrebbero far pensare ad una nostra prevenzione nei confronti di ogni idea di profitto, vanno completati con un’analisi di tipo ideologico del fenomeno Benetton; possibile solo attraverso l’esame delle campagne pubblicitarie che hanno reso famoso in tutto il mondo il gruppo trevigiano.

                È singolare che negli anni Sessanta, quando Benetton cominciava a muovere i primi passi nel settore dell’abbigliamento, la sua pubblicità apparisse sulle pagine de La Rassegna mensile di Israel, la rivista delle Comunità ebraiche italiane. Evidentemente la lungimiranza di certi ambienti, che di commercio se ne intendono, aveva individuato in Benetton un cavallo su cui puntare! Seguirono, sulle pagine del mensile Linus, le vignette pubblicitarie del disegnatore franco-argentino Copi, recentemente morto di AIDS.

                Ma il vero salto di “qualità” è stato compiuto con le campagne basate sull’affissione di giganteschi manifesti murali, contenenti immagini che non passano sicuramente inosservate. Il manifesto murale, prima che venisse rilanciato da Benetton, era un mezzo pubblicitario che stava praticamente andando in disuso, essendogli preferito il messaggio affidato alla stampa e, soprattutto, alla televisione. Benetton lo ha riscoperto, utilizzandolo ampiamente, affrontando fra l’altro costi più contenuti e disponendo di uno strumento più agile e più efficace, considerata anche la massima visibilità delle gigantografie ideate dalla Eldorado di Parigi, che fa capo al fotografo Oliviero Toscani.



    
Per meglio comprendere la condizione di completa passività con cui l’uomo moderno subisce i messaggi pubblicitari, e di conseguenza i nefasti effetti che anche le campagne della Benetton determinano su coloro a cui sono indirizzate, potrà risultare utile ricordare quanto ha scritto Evola in proposito: «un insieme di processi ha fatto sì che l’uomo oggi sia particolarmente esposto a subire più o meno passivamente un genere di influenze che si possono chiamare “sottili”, coperte o subliminali, a carattere quasi sempre collettivo. (…) in genere può dirsi che la possibilità di successo delle ideologie e delle parole d’ordine che al giorno d’oggi determinano quasi per intero la vita politico-sociale deriva unicamente dalla mancanza, nei più, di ogni vera difesa per quel che concerne l’accesso alla parte sub-intellettuale irrazionale e “fisica” della psiche». Ci si trova davanti ad un vero e proprio bombardamento che precipita «la persona in una specie di gorgo psichico collettivo autonomo e se essa non dispone di difese interiori, rafforzate dalla vigilanza e dall’aderenza impersonale ad un’idea superiore, è difficile evitare a lungo andare il pericolo dell’infezione».[1]

                Il messaggio pubblicitario della Benetton punta innanzitutto a far risaltare la prospettiva “mondiale” della proposta del gruppo, e per fare questo ha spesso insistito su soggetti che richiamassero modelli multirazziali. Dai bambini di ogni razza ed etnia, l’uno accanto all’altro, fino alla serie di organi genitali maschili di tutti i tipi. Ha inoltre scelto di ogni paese le immagini per le quali questo fosse universalmente conosciuto: per l’Italia l’omicidio di Mafia, per la Bosnia la mimetica crivellata di colpi del soldato caduto a Mostar, per l’Albania i grappoli di profughi in fuga ammassati come formiche su una nave, per il Bangladesh gli effetti devastanti di un alluvione, ecc.

                Ma è tutta la collezione di provocazioni sbattute in faccia all’inerme passante che dimostra un costante intento dissolutivo e dissacratorio, perseguito attraverso la ricerca morbosa dell’orrido e dei risvolti meno nobili dell’esistenza. Illuminante è a tal proposito questa dichiarazione di Oliviero Toscani: «La realtà, così come è raffigurata in immagini del genere, fa più paura della finzione, del falso. Ma noi pensiamo di dover andare oltre il semplice messaggio che i maglioni Benetton sono migliori degli altri. Profitto e comunicazione possono anche convivere».

                Non c’è aspetto dell’esistenza umana che non sia stato fotografato attraverso la lente deformante di questa infezione psichica. Dalla bambina appena nata, insanguinata e ancora legata con il cordone ombelicale alla madre, in cui del miracolo della nascita è rimasto solo l’aspetto nauseabondo, alla zulù albina in mezzo alla sua tribù nera; dai cormorani ricoperti di petrolio[2], ai preservativi colorati a mo’ di palloncini; per finire con la ricostruzione blasfema e in chiave moderna della deposizione di Cristo, attraverso la foto di David Kirby, il malato di AIDS ritratto sul letto di morte fra le braccia del padre.


    Parlare di stile riferendosi a un’azienda che produce maglioni potrà sembrare scontato, e forse anche banale, ma la scelta del termine in questo caso va oltre la semplice eccezione legata all’abbigliamento e alle sfilate di moda, abbracciando anche i suoi ulteriori significati di disegno strategico e modo di comportarsi. Vedere nella Benetton solo l’aspetto legato alla moda e al giro di affari che vi ruota attorno sarebbe oltremodo riduttivo, essendo riscontrabili nel gruppo di Treviso due diversi livelli di intervento: uno eminentemente commerciale e uno più propriamente “ideologico”, entrambi riconducibili, comunque, alle strategie del mondialismo.
    Luciano Benetton viene dalla “gavetta”, avendo cominciato come commesso in un negozio di tessuti di Treviso, e in seguito come rappresentante di capi di maglieria per conto di piccole imprese locali. Quando a metà degli anni Sessanta comincia ad operare il maglificio di Ponzano Veneto, è sui rapporti di Luciano con importanti commercianti romani, consolidati durante la precedente attività, che la famiglia Benetton può contare come trampolino di lancio. Inizialmente l’attività si basa sul lavoro artigiano di Giuliana Benetton e sulla commercializzazione, da parte di Luciano, delle maglie da questa prodotte.

    La marcia trionfale che ha condotto Benetton da questo inizio, tutto sommato modesto, alle odierne dimensioni multinazionali della sua impresa ha, bisogna riconoscerlo, tutte le caratteristiche del miracolo (anche se per l’ambito in cui il fenomeno Benetton può essere inserito, l’impiego di un termine legato al mondo del sacro è senz’altro fuori luogo, risultando più efficace il ricorso ad altre espressioni, come mistero o enigma). Nel 1967, un primo “colpo di genio”: l’acquisto, a prezzo di rottame, di vecchi telai Cotton (destinati alla produzione di classiche calze da donna, resi ormai obsoleti dall’irrompere sul mercato del meno affascinante ma più pratico collant), trasformati a basso costo in telai per la lavorazione della maglieria. I telai, acquistati per un milione di vecchie lire l’uno, dopo la riconversione andarono a costituire un parco macchine il cui costo salì a circa mezzo miliardo.La “rivoluzione culturale” sessantottina portò, fra le altre conseguenze, anche al crollo della domanda di capi eleganti e ben curati, dando il via libera a un abbigliamento informale, di minore qualità e dal basso costo. La Benetton si specializzò nella produzione di un abbigliamento per un pubblico di massa; e per garantirsi il successo in un mercato non certo facile puntò alla standardizzazione mascherata di originalità attraverso l’uso differenziato dei colori. «Tutti i colori del mondo» divenne lo slogan trainante dell’impresa trevigiana.

    Per il mercato giovanile di massa, dove l’abbigliamento viene particolarmente percepito come elemento fondamentale nella definizione dell’immagine di sé, il prodotto Benetton tende a presentarsi come un vero e proprio modello di vita. All’omologazione interiore deve corrispondere quella esteriore, e se c’è un modo per non essere mai se stessi, questo è quello di cambiare (e cambiarsi!) continuamente. Ne consegue l’elevata rotazione della merce, tipica dei negozi col marchio Benetton, con l’affermazione del prodotto usa e getta che ben si adatta ad una società consumistica e superficiale come quella che da noi si è andata diffondendo, proprio a partire dal presunto anticonformismo del Sessantotto.

    Un’altra “trovata” di Benetton è stata quella di affidare quasi totalmente all’esterno le diverse fasi della lavorazione e della commercializzazione del suo prodotto. A partire dall’approvvigionamento delle materie prime, per il quale egli si affida ad un ristretto gruppo di imprese, nei cui confronti esercita una vera e propria supremazia. Tramite grossi volumi d’acquisti concentrati progressivamente su singoli fornitori, più che creare rapporti privilegiati si determinano vere e proprie dipendenze che, di fatto, condizionano fortemente le scelte interne dei fornitori.

    La Benetton opera esplicite sollecitazioni affinché le imprese fornitrici si adeguino alle sue esigenze, inducendole a modificare la propria specializzazione produttiva. Nel tempo le aziende fornitrici hanno modellato la loro specializzazione sulle esigenze della Benetton. Il condizionamento diventa a poco a poco totalizzante e dalla semplice compravendita del prodotto grezzo sconfina anche nella scelta degli investimenti e negli standard qualitativi, provocando l’immedesimazione totale del fornitore nei problemi produttivi del cliente.

    Anche il lavoro di confezione è affidato a laboratori esterni. La Benetton si riserva esclusivamente le fasi di piegatura, etichettatura, imbustaggio, oltre alla coloritura dei capi, che viene effettuata per ultima, onde poterla adeguare alle effettive esigenze del mercato. I capi vengono controllati al rientro dai laboratori, dopo che a questi sono state fornite tutte le indicazioni necessarie al perseguimento di uno standard unico, e non vengono tollerati scadimenti qualitativi. Viene esercitato anche un controllo sulla politica di sviluppo dei laboratori, che devono informare annualmente sulla struttura del proprio parco macchine e sul numero di addetti impiegati. Viene garantito, d’altra parte, il completo assorbimento delle capacità produttive del laboratorio. Si verifica infatti, che questi laboratori si trovano ad operare a tempo pieno per conto della Benetton, senza che questo rapporto di dipendenza sia in alcun modo formalizzato; i contratti riguardano infatti solo le singole commesse.

    Il prezzo viene imposto dalla Benetton e le spese di consegna della merce e di ricevimento della materia prima sono a carico dei terzisti. Spesso il laboratorio viene spinto a specializzarsi in un solo tipo di lavorazione, il che vuol dire minori costi di gestione, richiedendone al contempo il massimo impegno produttivo per legarlo stabilmente a sé. Ovviamente il decentramento della lavorazione in piccole imprese, svolta comunque sotto il rigido controllo del committente, salvaguarda il gruppo trevigiano dai rischi e dai costi derivanti dalla conflittualità sociale. Per cui, alla fine, non solo Benetton non ha nessun problema con i sindacati – se il singolo laboratorio o un’impresa fornitrice di lana grezza è costretta a licenziare i suoi dipendenti, nessuno potrà prendersela con il loro reale padrone –, ma per giunta l’ex senatore repubblicano passa per essere un imprenditore illuminato e di sinistra.

    D’altra parte non è diverso il destino degli Stati caduti sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale. Paesi costretti ad applicare politiche economiche autodistruttive, indotti a concentrare le proprie capacità produttive nella direzione voluta dal potere mondialista, i quali, quando il loro indebitamento diventa di proporzioni astronomiche, vengono sostenuti dal FMI come l’impiccato viene retto dalla corda.

    Allo stesso modo è stato risolto il problema fondamentale della distribuzione. L’apertura di una catena di negozi esclusivisti di Benetton,  ma non gestiti direttamente dal gruppo, è stato uno degli elementi decisivi del successo nazionale prima e internazionale poi dell’impresa. Fino al 1976 la preoccupazione principale è stata quella di occupare il mercato interno, consolidando la presenza in Italia, sebbene già agli inizi degli anni Settanta erano stati aperti punti vendita all’estero (2 a Parigi, 1 a Dublino e a Londra, 2 in Germania), i quali, più che altro, hanno svolto la funzione di sondare le tendenze internazionali.

    La commercializzazione all’estero dei prodotti Benetton è gestita dalla Benetton International N. V. Olanda, che controlla la catena di punti vendita e le sedi produttive estere. Lungimirante (o bene informato?) è stato Benetton riguardo all’imminente crollo dell’Unione Sovietica, con la conseguente apertura di un mercato di oltre 250 milioni di persone, visto che già nel 1988, con l’aiuto decisivo del miliardario americano Armand Hammer che lo mise in contatto con le autorità sovietiche, venne costituita la joint venture Benetton-Ayaz che prevedeva la ristrutturazione di una fabbrica di cotone, posseduta dal Ministero dell’Industria della Repubblica Armena. L’accordo prevedeva inoltre la nascita graduale di una rete di negozi gestiti con la “tradizionale” formula del franchising, ognuno dei quali, secondo le previsioni, avrebbe potuto vendere fino a 100 mila capi all’anno. Un’operazione simile a quella condotta nell’ex impero sovietico è stata realizzata nel 1993 guardando al non meno promettente mercato cinese, tramite la costituzione della Benetton China holdings, che doveva portare alla costruzione di uno stabilimento a Shanghai e all’apertura di trecento negozi Benetton in Cina     
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                Un’attenzione particolare merita il sistema adottato nella costituzione della rete distributiva. La famiglia Benetton, dopo aver concentrato all’inizio i propri sforzi finanziari nella realizzazione di alcuni negozi che sarebbero serviti da prototipo, appaltò a terzi la loro riproduzione ad ampio raggio. Puntando sui loro stessi rappresentanti, si trovarono ad operare con personale con cui già esisteva un certo affiatamento e già “iniziato” alla filosofia del gruppo. Questi, nel momento in cui venivano invitati ad assumersi un rischio maggiore, si vedevano prospettare la possibilità di incrementare notevolmente i propri utili. Ognuno di loro, da solo o associandosi con altri investitori locali, diede vita ai punti vendita che andarono a costituire i primi anelli della “catena di S. Antonio” che è diventata la rete dei negozi Benetton.

                Di fatto il titolare del singolo negozio diventa, col tempo, proprietario di una piccola catena di negozi, realizzando fra l’altro significative economie riguardo all’amministrazione, l’approvvigionamento, l’addestramento del personale. Queste “bancarelle al coperto”, dall’arredamento essenziale, con scaffali che permettono la massima esposizione della merce, senza il classico bancone, con l’uso di musica appropriata, in cui si vuole creare un’atmosfera ben definita, nella loro progettazione e realizzazione non vengono lasciate alla libera iniziativa e all’improvvisazione del singolo proprietario o gestore, ma vengono elaborate ed imposte direttamente dalla Benetton.

                I negozi col marchio Benetton (in origine diversificato in Jeans West, Tomato, Merceria, My Market), a cui si affiancano i marchi 0-12 e Sisley, sono concentrati all’interno delle aree urbane, nei centri storici e uno a pochi metri dall’altro. È significativa questa dichiarazione di Luciano Benetton, dalle inquietanti assonanze col modo di operare del potere occulto in altri ambiti: «Se un cliente non vuole entrare in un negozio, perché c’è troppa musica, perché gli sembra troppo signorile, o per qualsiasi altro motivo, se ne va ed io ho perso una vendita. Allora io dieci metri dopo gli faccio trovare un altro negozio, che vende le stesse cose, ma con un’altra musica, altro arredamento, ecc. Poi, ad altri cinquanta metri ne metto un altro, ancora diverso: prima o poi quel cliente lo catturo».

                Adottando un sistema pseudo-feudale, la catena di negozi si è allargata a macchia d’olio: da una singola cellula sono germinati nuovi organismi (relativamente autonomi ed autosufficienti), restando immutato il centro propulsore, che trasmette il verbo-pullover, uguale per tutti. Il prezzo di vendita viene fissato dalla Benetton, come i parametri di localizzazione dei negozi, la attribuzione delle insegne, le date e le condizioni dei saldi. La quota maggioritaria dei negozi fa capo ad una rete di poco più di cento titolari, il che semplifica enormemente l’uniformizzazione della politica distributiva.

                Tenuto conto che il grado di partecipazione diretta è molto limitato rispetto al reale controllo esercitato dal gruppo sulle imprese fornitrici, sui laboratori terzisti e sulla rete distributiva, non è azzardato affermare che Benetton si è arricchito, quanto se non più di tanti altri industriali che si sono fatti la fama di “pescecani”, sul lavoro degli altri. La resa economica di questo sistema è stata finora tale da far passare in second’ordine i vincoli imposti. La “galassia Benetton” è,  in definitiva, tenuta insieme da una divinità che, come ogni divinità che si rispetti, ha reso possibile da parte dei suoi “ministri del culto” la spersonalizzazione, la rinuncia a se stessi, la concentrazione su un’unica meta incessantemente perseguita, e questa moderna divinità risponde al nome di dio denaro.
     
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                Ma queste considerazioni di ordine prettamente economico, che potrebbero far pensare ad una nostra prevenzione nei confronti di ogni idea di profitto, vanno completati con un’analisi di tipo ideologico del fenomeno Benetton; possibile solo attraverso l’esame delle campagne pubblicitarie che hanno reso famoso in tutto il mondo il gruppo trevigiano.

                È singolare che negli anni Sessanta, quando Benetton cominciava a muovere i primi passi nel settore dell’abbigliamento, la sua pubblicità apparisse sulle pagine de La Rassegna mensile di Israel, la rivista delle Comunità ebraiche italiane. Evidentemente la lungimiranza di certi ambienti, che di commercio se ne intendono, aveva individuato in Benetton un cavallo su cui puntare! Seguirono, sulle pagine del mensile Linus, le vignette pubblicitarie del disegnatore franco-argentino Copi, recentemente morto di AIDS.

                Ma il vero salto di “qualità” è stato compiuto con le campagne basate sull’affissione di giganteschi manifesti murali, contenenti immagini che non passano sicuramente inosservate. Il manifesto murale, prima che venisse rilanciato da Benetton, era un mezzo pubblicitario che stava praticamente andando in disuso, essendogli preferito il messaggio affidato alla stampa e, soprattutto, alla televisione. Benetton lo ha riscoperto, utilizzandolo ampiamente, affrontando fra l’altro costi più contenuti e disponendo di uno strumento più agile e più efficace, considerata anche la massima visibilità delle gigantografie ideate dalla Eldorado di Parigi, che fa capo al fotografo Oliviero Toscani.

                Per meglio comprendere la condizione di completa passività con cui l’uomo moderno subisce i messaggi pubblicitari, e di conseguenza i nefasti effetti che anche le campagne della Benetton determinano su coloro a cui sono indirizzate, potrà risultare utile ricordare quanto ha scritto Evola in proposito: «un insieme di processi ha fatto sì che l’uomo oggi sia particolarmente esposto a subire più o meno passivamente un genere di influenze che si possono chiamare “sottili”, coperte o subliminali, a carattere quasi sempre collettivo. (…) in genere può dirsi che la possibilità di successo delle ideologie e delle parole d’ordine che al giorno d’oggi determinano quasi per intero la vita politico-sociale deriva unicamente dalla mancanza, nei più, di ogni vera difesa per quel che concerne l’accesso alla parte sub-intellettuale irrazionale e “fisica” della psiche». Ci si trova davanti ad un vero e proprio bombardamento che precipita «la persona in una specie di gorgo psichico collettivo autonomo e se essa non dispone di difese interiori, rafforzate dalla vigilanza e dall’aderenza impersonale ad un’idea superiore, è difficile evitare a lungo andare il pericolo dell’infezione».[1]

                Il messaggio pubblicitario della Benetton punta innanzitutto a far risaltare la prospettiva “mondiale” della proposta del gruppo, e per fare questo ha spesso insistito su soggetti che richiamassero modelli multirazziali. Dai bambini di ogni razza ed etnia, l’uno accanto all’altro, fino alla serie di organi genitali maschili di tutti i tipi. Ha inoltre scelto di ogni paese le immagini per le quali questo fosse universalmente conosciuto: per l’Italia l’omicidio di Mafia, per la Bosnia la mimetica crivellata di colpi del soldato caduto a Mostar, per l’Albania i grappoli di profughi in fuga ammassati come formiche su una nave, per il Bangladesh gli effetti devastanti di un alluvione, ecc.

                Ma è tutta la collezione di provocazioni sbattute in faccia all’inerme passante che dimostra un costante intento dissolutivo e dissacratorio, perseguito attraverso la ricerca morbosa dell’orrido e dei risvolti meno nobili dell’esistenza. Illuminante è a tal proposito questa dichiarazione di Oliviero Toscani: «La realtà, così come è raffigurata in immagini del genere, fa più paura della finzione, del falso. Ma noi pensiamo di dover andare oltre il semplice messaggio che i maglioni Benetton sono migliori degli altri. Profitto e comunicazione possono anche convivere».

                Non c’è aspetto dell’esistenza umana che non sia stato fotografato attraverso la lente deformante di questa infezione psichica. Dalla bambina appena nata, insanguinata e ancora legata con il cordone ombelicale alla madre, in cui del miracolo della nascita è rimasto solo l’aspetto nauseabondo, alla zulù albina in mezzo alla sua tribù nera; dai cormorani ricoperti di petrolio[2], ai preservativi colorati a mo’ di palloncini; per finire con la ricostruzione blasfema e in chiave moderna della deposizione di Cristo, attraverso la foto di David Kirby, il malato di AIDS ritratto sul letto di morte fra le braccia del padre.

                Ma c’è da dire che gli attacchi alla religione sono sempre stati un pallino dell’entourage Benetton.[3] Il prete che bacia la suora o gli articoli della rivista Colors dove si definisce Cristo “un falegname tuttofare che diede del vino ai suoi seguaci”, la Vergine Maria abbinata a un intervento ricostruttivo della verginità o la pubblicizzazione del “testo più autorevole per lo sputtanamento dei miracoli”, sono alcuni esempi che chiariscono molto bene quale può essere l’autentica ispirazione di fondo di questa impresa commerciale. E viene anche il sospetto che la vendita dei maglioni sia solo un modo per finanziare queste megacampagne pubblicitarie le quali, se c’è una cosa che vogliono piazzare, non è sicuramente l’abbigliamento.
Fonte:  .heliodromos.it
    

[1] J. Evola, L’arco e la clava, (Cap. XIV, Influenze subliminali e “stupidità intelligente”), Milano, 1968.

[2] Naturalmente una delle immagini che la Benetton vuol trasmettere di se stessa è quella legata all’impegno ecologico – insieme all’antimilitarismo pacifista e all’antirazzismo ipocrita di chi lavora per la distruzione di ogni razza ed etnia. In effetti esiste una Fondazione Benetton che proprio dell’ambientalismo e della tutela e trasformazione del paesaggio si occupa, assegnando dal 1989 il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il giardino. Emblema della Fondazione è un frammento di epoca romana raffigurante una baccante, una furia che danza, sensuale e sfrenata, esibendo la sua nudità.

[3] Fra i tanti, merita di essere menzionata l’ex compagna di Luciano Benetton, Marina Salamon, la quale se l’è presa di recente con il Papa, dichiarando di essere “addolorata” dal fatto che «ancora una volta il cattolicesimo vede le leggi del profitto e dell’economia come qualcosa di malvagio, in conflitto con i bisogni della persona. È una visione che nell’Europa del Nord, a maggioranza protestante, è stata superata da tempo». Inoltre, alla signora Salamon non è andato giù il fatto che il Papa resti contrario alla contraccezione, senza la quale «è impossibile programmare la vita lavorativa». La Salamon, dopo essersi separata da Benetton, si è messa in proprio, e gli affari le vanno naturalmente bene, visto che oltre al controllo sulla Doxa, si occupa di abbigliamento e surgelati, tramite Alchimia (la holding di famiglia) che controlla il 50% della società Agape, che gestisce fra l’altro i servizi di ristorazione a bordo dei treni delle FS.




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