lunedì 23 marzo 2015

Il riso, la pianta che sfama metà del mondo

E mette a rischio la foresta
La Fao: nel 2015 il consumo supererà la produzione
Una distesa di risaie allagate dove c’era la foresta primaria. Volare sopra al Madagascar, l’Isola verde diventata in qualche lustro da sogno a incubo dei naturalisti del pianeta, fa sorgere nel viaggiatore tutta una serie di quesiti. Il primo: perché uno dei Paesi più poveri e affamati del mondo è anche uno dei principali produttori di riso?  
Il riso tra le commodities alimentari è un po’ particolare. È l’alimento principale per circa la metà della popolazione mondiale, perlopiù in Paesi poveri o in via di sviluppo. Ma i principali produttori - Cina e India in testa, che valgono insieme più del 50% della produzione mondiale - sono anche i principali consumatori. Nel 2014 ne sono state prodotte 744,7 milioni di tonnellate (dati Fao), che danno poco meno di 500 milioni di tonnellate di prodotto raffinato. Ma di queste solo una piccola parte - nel 2014 poco più di 40 milioni di tonnellate - entra nel commercio globale. Meno del 10% contro il 20% circa del grano. Il prezzo internazionale viene fissato alla Borsa di Chicago - gli Usa sono un modesto consumatore ma il terzo esportatore globale, con una quota del 12% del volume scambiato -. Ma in molti Paesi il commercio di riso è sotto il controllo più o meno stretto dello Stato, col risultato di falsare il prezzo. L’India, ad esempio, durante la corsa dei prezzi del 2008 chiuse le frontiere bloccando l’export del proprio riso, per riaprirle solo nel 2011.  
Ciclicamente torna l’idea di una «Opec del riso», un cartello dei Paesi produttori per stabilizzare i prezzi. Ma «questi schemi hanno generato finora più che altro corruzione e scorte in eccesso», dice Carlo Filippini, direttore dell’Istituto di studi economico-sociali per l’Asia Orientale dell’Università Bocconi. Che cita il caso della Thailandia, dove l’ex premier Thaksin, destituito nel 2006 da un golpe militare, cercò di realizzare un programma di sostegno dei prezzi del riso. «Purtroppo l’idea era buona ma la realizzazione aveva molti difetti», ricorda Filippini. Con il risultato di favorire i grandi commercianti, che compravano dai piccoli produttori a prezzi irrisori e rivendevano al prezzo fissato dal governo, molto superiore a quello di mercato. Proprio la Thailandia, tra l’altro, è uno dei principali esportatori mondiali.  
Intanto, segnala ancora la Fao, nel 2014/2015 per la prima volta in un decennio il consumo è destinato a superare la produzione. Nessun allarme, spiega l’agenzia delle Nazioni Unite nel suo «Rice market monitor»: le scorte mondiali sono sufficienti per garantire il fabbisogno dei prossimi quattro mesi, un tempo che mette al riparo da eventuali shock della domanda.  
Ma a questo punto possiamo tornare alle risaie del Madagascar che hanno preso il posto delle foreste. Il consumo mondiale di riso è aumentato del 40% negli ultimi 30 anni. La popolazione del Madagascar cresce al ritmo del 3% all’anno, uno dei maggiori tassi di crescita del continente africano. La risposta alla domanda iniziale è allora il «taglia e brucia»: taglia la foresta e metti una risaia. Piccolo inciso per parlare di quel fenomeno che va sotto il nome di «land grabbing», sul quale ci soffermeremo diffusamente nelle pagine successive. I suoi effetti applicati alle materie prime alimentari come il riso li spiega Giovanni Ferri, docente di emerging markets Luiss-Lumsa: per il Paese che investe, significa garantire la propria sicurezza alimentare. Per il Madagascar però il land grabbing significa che l’8% della superficie del Paese è in mano ad investitori stranieri. Tra questi, la Cina è in prima fila e parte degli investimenti di Pechino sono destinati proprio alla coltura di riso. 
«Taglia e brucia» la foresta, metti la risaia. Poi magari, se dovesse servire, il riso prenderà altre vie e garantirà la «sicurezza alimentare» altrove. Ma come recita un detto malgascio, «meglio morire domani che morire oggi». 
GIANLUCA PAOLUCCI

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