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Nord, la rubrica de IlGiunco.net per tutti coloro che amano viaggiare e
confrontarsi con differenti culture, odori, sapori e le tante differenti
opportunità che offre il mondo. Oggi andiamo in Madagascar, dove ci porta una
nostra lettrice, Chiara Ghilardi.
1
giorno Mercoledì
Partiamo
da Roma Fiumicino con un volo AirFrance diretto a Parigi Charles de Gaulle dove
dovremo passare la notte in attesa del volo per il Madagascar. Staremo via solo
due settimane ma le valigie sono già quasi al limite del peso previsto… le
avevamo riempite fino all’orlo di medicinali e vestiti di tutte le stagioni
vista la possibilità di trovare pioggia e fresco negli altipiani.
Il volo
per Parigi inizia male: il mio dirimpettaio decide di abbassare la poltrona e
farmi passare le due ore successive in un minimo spazio vitale… proprio a me
che sono claustrofobica e l’aereo mi fa sentire stretta stretta. Fortunatamente
in due ore circa arriviamo a Parigi, dove sono le 23.55. Entro cinque minuti il
terminal chiude e se usciamo per provare a raggiungere l’altro terminal da cui
parte il volo alle 8, lo troveremo chiuso e non potremo nemmeno
rientrare. Decidiamo quindi di dormire al ritiro bagagli dove c’è un
piccolo scomparto con le prese di corrente… che nottataccia! C’eravamo solo noi
e gli addetti alle pulizie che ci guardavano come fossimo barboni.
2
giorno Giovedì
Alle 4.30
raggiungiamo l’altro terminal che aveva appena aperto e ci mettiamo ad
aspettare l’apertura del check-in di AirMadagascar mentre l’aeroporto piano
piano riprende vita. Dopo tanta attesa scopriamo che il nostro volo è in
ritardo di ben quattro ore. Avevamo letto che il motto del Madagascar è “Mora-Mora”
ossia “piano piano” ma non immaginavamo di rendercene conto ancora prima di
salire sull’aereo. Se l’avessimo saputo prima saremmo potuti partire la mattina
da Roma ed evitarci la nottata in aeroporto come dei clochard.
Il volo
per Antananarivo è lungo ma alla fine riusciamo ad arrivare all’aeroporto di
Ivato alle 2.00 di notte, dove ci aspetta un’auto dell’hotel che ci
accompagnerà. Il primo impatto è di caldo, un caldo afoso, diverso dal nostro,
nonostante l’ora tarda. Siamo spiazzati dal buio, non ci sono lampioni eppure
siamo in mezzo alla città e le persone camminano in mezzo alla strada. Ci ferma
pure un militare con il mitra per fare un controllo e noi ci guardiamo
spaesati: avevamo paura!
Finalmente
arriviamo all’hotel dove c’è un po’ di gente al bar, ma noi siamo davvero
stanchi. Più che essere in Madagascar, sembrava di essere stati catapultati in
India, con arredamento in legno, elefantini in ogni dove e mosaici: andiamo a
dormire che è meglio.
3
giorno Venerdì
Con la
luce riusciamo a vedere la città. In Madagascar la vita è ancora scandita dal
sole: ci si alza quando canta il gallo, si fa colazione dalle 6.30, pranzo
dalle 11.30 e la cena dalle 18.00-18.30 e poi quando cala il sole chiude tutto.
Ovviamente nelle città è un po’ diverso perché c’è attività anche di notte, ma
ai “Vazaha”, gli stranieri in lingua malgascia è sconsigliato girovagare a
piedi con il buio per il rischio di scippi e chissà cos’altro. Nelle città è
presente l’elettricità, ma i lampioni non ci sono e quei pochi che si trovano
nelle vie sono rotti. Abbiamo poi scoperto che sono i ladri, che per garantirsi
l’oscurità, tirano sassi alle lampadine. Ad Antananarivo già di prima mattina
c’è confusione, tanta gente che cammina e degli odori stranissimi. Vediamo un
mercato pieno di gente e bancarelle in lontananza. Facciamo colazione e ci
stupiamo di trovare la “Nutella” ma capiamo subito che il nostro hotel in
realtà è un hotel di alta qualità, visto anche il prezzo di 120.000 Ariary,
ovvero circa 40.00 €, è davvero tanto per il Madagascar.
Alle 10.30
ci portano l’auto che abbiamo prenotato dall’Italia. Informandoci per il
viaggio avevamo capito che le auto venivano noleggiate con un’autista ma noi ci
siamo intestarditi e siamo riusciti a trovare un’agenzia che ce l’ha affittata
senza. Non sapevamo se poteva essere pericoloso, ma volevamo essere
indipendenti. Parlando con la persona che ci ha recapitato la macchina, una
Toyota Fortuner 4×4, abbiamo compreso che la strada è impervia e difficile da
percorrere. Dovevamo partire subito ma saremmo arrivati a Fianarantsoa con il
buio… pericolosissimo! Allora parliamo con la receptionist dell’hotel e
decidiamo di rimanere un giorno in più per poter partire la mattina seguente di
buon ora, alle 7.00 per riuscire ad arrivare a destinazione prima del tramonto
e ci affidiamo a Mahefa, il proprietario dell’auto, per il viaggio. Avendo
visto la strada dall’aeroporto ci eravamo un po’ spaventati e così gli abbiamo
chiesto di accompagnarci fino a Tulear, per i prossimi 1000 km di strada. Poi
sarebbe tornato indietro con un Taxi-Brousse: i piccoli furgoncini che fungono
da trasporto pubblico per i malgasci. Il costo è di 30.000 Ar al giorno più le
spese per il rientro in taxi-brousse ovvero 50.000 Ar. Ci diamo appuntamento
per il giorno seguente alle 7.00 e cominciamo il nostro giro non previsto per
la capitale.
Mercatini,
bancarelle, colori e profumi: tutto ci fa capire di essere arrivati all’altro
capo del mondo. Le case sono architettonicamente molto diverse dalle nostre e
sono meno colorate di quello che mi aspettassi, sono poche quelle dipinte!
Camminiamo per quattro ore in qua e in là fino alla città alta, dove c’è il
centro storico. Arrivati in cima troviamo due ragazzi malgasci che ci fermano
lungo la strada e ci propongono la visita al palazzo della regina e lungo le
mura. Avevamo finito i soldi per il palazzo ma ci rimaneva qualche Ariary per
fare il giro. Scopriamo che questi due giovani avevano imparato l’italiano per
strada, con i Vazaha come noi e che per loro la vita è dura, non sono potuti
andare all’università perché costava troppo per la loro famiglia (1) e si
mantengono facendo le guide. Ci spiegano tantissime cose come ad esempio che i
malgasci hanno molto rispetto per i galli perché vengono usati per i
combattimenti e una volta morti non vengono cotti e mangiati, bensì seppelliti.
Il cane invece è considerato un animale inutile: non fa niente tutto il giorno,
è un peso per il mantenimento e alla fine, non puoi nemmeno mangiarlo, molto
meglio avere uno Zebù, uno degli animali simbolo del Madagascar. Ci raccontano
poi un po’ di storia di Antananarivo e delle ultime vicissitudini elettorali.
Noi ci lamentiamo dell’Italia ma anche lì non sono messi tanto bene dal punto
di vista politico. Il 20 dicembre ci sarà il ballottaggio tra due candidati e
la popolazione spera che dopo le elezioni, il Madagascar riuscirà ad uscire
dalla crisi che lo attanaglia dal 2009, anche perché una volta assicurato il
governo, dovrebbero venire sbloccati gli aiuti internazionali, che al momento
sono congelati. Il Madagascar è agli ultimi posti del mondo rispetto al livello
di povertà e lo si nota dappertutto. C’è tanta gente senza scarpe, con vestiti
stracciati e tantissimi mendicanti, anche bambini. Eppure questi bambini hanno
dei sorrisi che dalle nostre parti è difficile vedere: ridono e ridono di
gusto! Sanno davvero essere felici con poco.
Stanchi di
camminare decidiamo di tornare all’hotel, dove ci concediamo un po’ di riposo
prima della cena. Dopo mangiato ci fermiamo al bar dell’albergo dove pensavamo
di restare poco, ma ancora non avevamo conosciuto il proprietario. C’è musica
dance malgascia a tutto volume e le persone al bar cominciano a parlare con
noi, erano tutti amici del proprietario, un indiano musulmano che appena ha
scoperto la nostra nazionalità ha messo alla tv un DVD di un concerto di
Bocelli, abbiamo ballato e cantato tutti insieme e poi ci hanno voluto a tutti
i costi offrire da bere… e guai a rifiutare!
4
giorno Sabato
Pronti a
partire, alle 7.00 scendiamo alla reception per trovarci con la nostra guida
Mahefa, un ometto sulla sessantina molto simpatico che parla bene francese ma
non una parola di italiano. Abbiamo scoperto che gli adulti parlano molto
meglio il francese perché sono cresciuti in Madagascar durante il periodo della
colonizzazione. Con la conquista dell’indipendenza il francese è stato abolito
e di conseguenza una parte della popolazione, quella dai 30 ai 40 anni circa,
lo parla poco. Fortunatamente hanno reinserito il francese nelle scuole anche
se solo come seconda lingua.
Si parte
alla volta di Fianarantsoa per un tragitto lungo 405 km e 8/9 ore di auto.
Scopriamo subito che i malgasci guidano davvero male! Non esiste un codice
stradale, non ci sono limiti di velocità e tutti superano a piacimento. La
strada è piena di buche, tortuosa e difficile da percorrere perché le persone,
non essendoci marciapiede, camminano al bordo della banchina. Inoltre ogni
tanto si incontra una mandria di zebù o un carrettino da loro trainato che
attraversa la strada. Le auto però sono poche e noi cominciamo ad uscire dalla
confusione di Antananarivo. Piano piano ci addentriamo nelle campagne e si
aprono paesaggi incredibili, mai visti prima. Al lato della strada ci sono
terrazzamenti coltivati a risaie ognuna con una sfumatura di verde differente.
Alberi a noi sconosciuti e tanti piccoli villaggi. Il Madagascar viene
soprannominato “l’isola rossa” perché la sua terra è ricca di ferro e si tinge
di “terra di Siena”. L’architettura e i colori delle case cambiano aspetto
lungo i chilometri che percorriamo perché sono costruite con i materiali che
regala la natura: dove la terra è più chiara le case sono beige, ma quando
cominciamo ad entrare nei territori rossi le abitazioni sembrano adattarsi alla
terra e diventano rossastre. Nelle campagne la popolazione produce i propri
mattoni creando un composto con la terra e una volta fatta la forma vengono
accatastati in una montagnola con dei buchi alla base per accendere il fuoco e
cuocerli.
Ci
fermiamo a pranzo ad Ambositra in un Motel di amici della nostra guida e ci
buttiamo sul pesce ma non ci va tanto bene. Il pesce non è fresco ed ha un
saporaccio. E’ sicuramente il peggior posto in cui abbiamo mangiato.
Mahefa ci
spiega che nonostante la parvenza di povertà, quelle che stiamo attraversando
sono zone in cui si vive abbastanza bene, grazie alla natura rigogliosa che
permette di coltivare tantissimi prodotti: carote, riso, orzo, patate, manioca,
spinaci, fagiolini, prugne, pesche e chi più ne ha più ne metta. Qui il cibo
non manca e la popolazione vive di agricoltura e pascoli. Nel frattempo stiamo
risalendo gli altipiani e a volte sembra di vedere immagini dell’America Latina
con gli abitanti che indossano dei cappellini a larga base e scialli e coperte
per ripararsi dal freddo.
A novembre
in Madagascar inizia la stagione delle piogge e ci viene spiegato che
normalmente la mattina c’è il sole e il pomeriggio viene a piovere e infatti le
nuvole si fanno sempre più grigie e ci troviamo nel bel mezzo di un acquazzone!
Con la pioggia è ancora più difficile guidare e i bimbi si armano di pale e
cominciano a riempire le buche di terra nella speranza di guadagnare qualche
spicciolo dai Vazaha che percorrono la RN7.
Dopo
chilometri di curve arriviamo a Fianarantsoa dove alloggiamo presso l’hotel
Cotsoyannis, una struttura molto caratteristica con arredi in legno e un
bel giardino interno con tante piante. Perdiamo di vista Mahefa, andiamo a
farci la doccia in camera e scendiamo nella hall per la cena. Al termine il
nostro ometto rispunta tutto malconcio e sudato: il poveretto si è ammalato e
noi gli suggeriamo di riposarsi in vista del viaggio del giorno seguente.
Passiamo
la notte un po’ turbati dal forte temporale e dai continui cali di energia.
5
giorno Domenica
Il sole è
alto in cielo. Siamo pronti a partire e ci ritroviamo alle 7.00 con Mahefa che
non sembra essere migliorato rispetto alla sera precedente. Ci dice che non ha
chiuso occhio tutta la notte e che gli è venuta la “turista” (nome malgascio
per la diarrea del viaggiatore). Ma proprio noi dobbiamo trovare la guida che
si ammala?! Insomma decide di farci procedere da soli e di tornare indietro in
Taxi Brousse ma al momento del pagamento salta fuori che dobbiamo saldargli più
del previsto. Gli accordi erano 30.000 Ariary al giorno per due giornate di
viaggio insieme a noi, più il costo del rientro, mentre il simpatico vecchietto
sostiene che la giornata di rientro sia comunque da pagare. Il mio fidanzato si
arrabbia ma riesco a calmarlo e scuciamo i 30.000 Ariary non previsti,
dopotutto per noi sono poco più di 10 €.
Da questo
momento in poi Mahefa è argomento tabù, nonostante sappiamo di doverlo
rincontrare al ritorno per la consegna della macchina e la restituzione della
cauzione.
Fianarantsoa
con il sole sembra Antananarivo, regna la confusione più assoluta e non ci fa
una bella impressione. Dobbiamo sbrigarci a partire altrimenti rischiamo di
dover guidare con il buio visto che ci aspettano dalle 7 alle 9 ore di auto. I
paesaggi che incontriamo sono diversi da quelli del viaggio del giorno prima,
gli spazi sono molto più ampi e il primo pezzo di strada è pieno di tornanti.
Dobbiamo arrivare ad Ambalavao e dopo 12 chilometri svoltare a sinistra per
fare tappa alla riserva dei lemuri. Speriamo di non perderci! Ambalavao è una
cittadina davvero carina: piena di colori e di persone sorridenti che, con
vestiti eleganti passeggiano al bordo della strada. Immaginiamo che essendo
domenica mattina si stiano recando a messa e che come da noi negli anni del
dopoguerra, la domenica si indossano i vestiti della festa.
All’uscita
della città ci ferma un gendarme per il controllo dei documenti della macchina,
dei passaporti e della patente. E’ talmente strano vedere due Vazaha che
guidano e non sono accompagnati da una guida che da qui in avanti ci fermeranno
ogni venti chilometri. Abbiamo letto sulla guida che spesso i poliziotti
chiedono il pagamento di una piccola fee per poter andare avanti senza problemi
ma a noi non è successo, sembrano tutti molto gentili. Il poliziotto ci dà
indicazioni su come arrivare alla riserva che si trova poco lontana.
Al nostro
arrivo sembra che questa gente non abbia mai visto degli stranieri e ci
scrutano fino a che non scendiamo dall’auto per andare al baracchino delle
informazioni. Nessuno parla francese eccetto la ragazza che ci fa da guida che
conosce qualche parola. Ci accompagna un ragazzo che è l’avvistatore di lemuri.
Sotto una montagna rocciosa sovrasta l’immensa riserva creata da una comunità
che riunisce sei villaggi che fino a poco tempo fa si cibavano dei lemuri! Dei
francesi li hanno convinti a smettere di mangiarli e a cominciare a proteggerli
facendo pagare l’ingresso ai turisti curiosi che non possono passare dal
Madagascar senza aver visto queste bestiole birichine.
Nella
riserva si possono vedere piante, insetti e serpenti particolari ma noi non
vediamo l’ora di avvistare i lemuri: ne incontriamo tantissimi e sono tutti
parte della famiglia dei lemuri Katta, caratterizzati dalla coda ad anelli.
Sono simpatici e dispettosi, a volte mordono e, come gli scoiattoli, fanno dei
balzi lunghissimi da un ramo all’altro, sono un mix tra scoiattoli e scimmie!
La visita
dura un’ora e noi dobbiamo ripartire sulla RN7. Terminate le curve la strada si
fa sempre più dritta e ci troviamo davanti ad uno spettacolo mai visto: un
terreno roccioso che ricorda molto il Gran Canyon americano. Questa zona, con
il Parco Nazionale dell’Isalo è soprannominata il Colorado del Madagascar e noi
siamo sempre più a bocca aperta. Poi passiamo un deserto, per chilometri e
chilometri non vediamo persone, case, auto, carretti, ci circonda solo il nulla
e noi preghiamo che non succeda niente all’auto, anche se sorpresa delle
sorprese il cellulare ha piena ricezione: 5 tacche di linea che probabilmente
derivano dal ripetitore che vediamo in lontananza.
Passiamo
una città chiamata Ilakaka che è la patria degli Zaffiri: costruita dai
cercatori d’oro sul fiume da cui prende il nome. La guida Routard ci informa
che oltre ad essere nota per le sue gemme, Ilakaka è famosa come “la città dei
banditi” in quanto gli abitanti rubano costantemente gli zebù alle altre etnie,
tanto che quando si celebra un matrimonio, lo sposo deve portare in dote alla
famiglia della sposa un capo di bestiame rubato per dimostrare coraggio e
lealtà. Rabbrividiamo!
Ci
rimangono altre due o tre ore di strada e proseguendo notiamo che le case in
questa zona non sono più a due piani e di mattoni ma sono capanne di legno o
bambù. Il deserto non permette la coltivazione e di conseguenza la popolazione
è povera. Piove e i bimbi saltellano nudi per la strada e ne approfittano per
lavarsi e per mettere le cisterne all’aperto per riempirle di acqua piovana che
poi bevono o usano per cucinare. L’acqua che scende dal cielo è sicuramente più
pulita di quella dei fiumi.
Quando
smette di piovere capiamo di essere finalmente usciti dagli altipiani e di
essere sempre più vicini al mare e infatti dopo un’oretta arriviamo a Tulear.
Il sole sta calando e noi siamo arrivati giusto in tempo per evitare il buio
lungo il tragitto. Dopo quasi nove ore di auto il mio fidanzato è stanco morto
e ci sistemiamo in camera.
L’hotel
Escapade, dove soggiorneremo per i prossimi sette giorni è un villaggio
vacanze composto da dieci bungalows e un’area centrale con una terrazza con
vista su Boulevard Gallieni. Durante la cena il nostro cameriere ci suggerisce
di fare un giro verso il lungo mare perché la domenica sera c’è sempre un po’
di festa, raccomandandosi di non uscire a piedi ma con la macchina o in taxi.
E’ buio, i lampioni non esistono e noi ci sediamo fuori da un piccolo bar e osserviamo
i ragazzi che festeggiano e si recano nelle due discoteche della città: lo Zazà
club e il Tamtam. Si avvicina una ragazza, ubriaca fradicia, che attacca
bottone con noi: si chiama Miria, ha trentatré anni e una bimba di un anno. Ci
fa tenerezza e le offriamo due sigarette. Non riuscivamo più a mandarla via!
La
discoteca non fa per noi e decidiamo di tornare in hotel e andare a dormire.
Finalmente il giorno dopo non dovevamo guidare più!
6
giorno Lunedì
Il primo
giorno a Tulear l’abbiamo dedicato alla scoperta di questa cittadina del sud
del paese. La città si riempie di colori grazie ai Pousse-Pousse, carretti di
legno trainati dai malgasci che per una corsa chiedono circa 1.500 Ariary. E’
l’unico mezzo di trasporto “pubblico” che la maggior parte della popolazione
può permettersi: lo utilizzano per andare a prendere i bimbi a scuola, per
tornare dal lavoro e per andare a fare la spesa. Incuriositi ne fermiamo uno e
chiediamo di farci lasciare al mercato cittadino che si estende lungo un
incrocio di quattro vie con bancarelle e baracche che vendono ogni tipo di
prodotto: ci sono vestiti, zaini, borse, cappelli, alimentari, pneumatici,
accessori elettronici e altro ancora.
La
confusione, come potrete immaginare, è tanta. Ci fermiamo in un negozio di
elettronica per trovare una SD card per la macchina fotografica perché la mia
era già piena e non volevo rischiare di perdere qualche bel momento per
mancanza di memoria.
Dopo una
lunga passeggiata nel mercato saliamo su un altro pousse-pousse e ci facciamo
portare al mercatino dell’artigianato. Le bancarelle che avevamo visto
proponevano prodotti di stampo europeo e non avevamo comprato niente. Questi
mercatini sono tutt’altro che confusionari, sono puliti, coloratissimi e molto
ordinati. Ci fermiamo per acquistare i souvenir da portare a parenti e amici.
Compriamo delle bellissime statuette in legno, un baobab di Cisale (una pianta
utilizzata per creare oggettistica di vario tipo simile al vimini) e un cestino
con le spezie del posto.
Dall’Italia
avevo scoperto che a Tulear ha sede l’ONG Bel Avenir,
un’organizzazione che gestisce attività culturali per i bambini meno abbienti
del territorio come il cinema e la biblioteca mobili e corsi di musica e canto,
nei quali si formano i cantanti di uno dei cori gospel di voci bianche più
famosi del Madagascar. Vista la mia passione per la musica non ho potuto fare
altro che trovare la sede dell’organizzazione e comprare due CD del coro da
riportare in Italia e ascoltare fino a non poterne più!
Il
pomeriggio passa tranquillamente con una passeggiata sul lungomare e sulla
spiaggia di Tulear che non è niente di che…ci vuole coraggio a fare il bagno in
quell’acqua! Passeggiando poi chi incontriamo?? La nostra amica della sera
precedente che, ancora ubriaca, si divertiva a “metterci le mani addosso” con
complimenti un po’ ambigui. Era il suo modo per cercare di rubarci quello che
avevamo in tasca e appena ce ne siamo resi conto ce la siamo dati a gambe
levate tornando in hotel. Dopo i viaggi dei giorni precedenti avevamo deciso di
dedicare questa giornata al relax, e quindi torniamo in hotel per riposarci e
per la cena.
Dopo aver
mangiato comincio però ad avere qualche problema: mi gira la testa, sudo freddo
e quindi corro in camera per provare la febbre che risulta essere a 37.4. Penso
che se mi riposo il giorno dopo starò meglio e alla fine riesco ad
addormentarmi nonostante i dolori alle ossa e i crampi alla pancia.
Continua
nel prossimo numero.........
(1) Non è vero che non sono
andati all’università per il costo in quanto i migliori ragazzi fanno un
concorso e frequentano l’Università a spese dello stato e viene dato loro un
alloggio e anche una paga mensile per il sostentamento.
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