sabato 4 gennaio 2014

Racconto di Serena Cannata: Il Madagascar

Il lungo volo per i cieli africani volgeva al termine. L'atterraggio era previsto alle 18.00, ora locale, all'aeroporto di Antananarivo. Il comandante annunciava pioggia all'arrivo ed una temperatura di 27 gradi.  Stavo per calpestare l'Isola Rossa, il Madagascar. Il periodo era novembre, che naturalmente è quello delle piogge e più avanti degli uragani. Smisuratamente grande e oltremodo sporco il paese ti avvolge con la sua natura esagerata e con quel suo caratteristico odore, un odore fatto di tanti odori, di cui non ti liberi più e in cui riconosci quello di cibi cotti con grasso di maiale a disposizione di chi consuma per strada il fast food locale, oppure quello acre di urina ed escrementi, sui muri e sui cigli delle strade, e ancora quello nauseante di sporco corporeo, che protegge dal freddo chi saluta il nuovo giorno sotto il sole. Presto mi rendo conto che non si tratta dell'Africa delle illusioni, dei miraggi e nemmeno della triste realtà di un popolo che scompare, ma di quella che ben presto accompagnerà il popolo malgascio verso il disastro ecologico!
Spostandomi verso l'interno incontro la cittadina di Ambositra, con il miglior artigianato locale che viene in gran parte dal legno della foresta e dalle pelli e corna di zebù. Il paesaggio non cambia man mano ti addentri nella foresta, verso Nasandratrony; vaste zone disboscate, quotidianamente  destinate ad accogliere riso, mais, manioca e casette fatte di sterco d'animale, paglia e fango  in tema con la terra battuta delle strade e  con l'uragano che se le porta via; ma dopo poco l'occhio va su delle piccole costruzioni in medesimo materiale, poco lontane dalle case, e ti rendi conto che non possono essere case. Cosa sono allora? Sono i bagni. I malgasci non amano avere i servizi in casa perché tutto ciò che è da buttare non può convivere con loro; infatti si cammina su delle buche colme di escrementi e ricoperte di terra perchè prima a poi l'uragano si porta via i muri di fango.
La vita nella foresta è come quella dei racconti della nonna, ottanta, cento anni fa. Cucina a legna, ferro da stiro a carbone, bucato a mano e lavorare per mangiare dall'alba al tramonto, ma tutto naturale; tu lo semini, lo raccogli, lo lavori, lo cucini, e finalmente lo mangi. Provate a raccogliere la radice di manioca, pulirla dalla corteccia, pestarla con pesanti bastoni in grandi mortai di legno ricavati da tronchi d'albero scavati, per farne una farina da impastare con acqua e latte e poi friggerla per farne delle focacce; molto più semplice andare dal fornaio se ci fosse! E visto che non puoi mangiare solo manioca devi fare lo stesso con il riso, il mais che però devi condire con altri ortaggi da seminare, raccogliere ecc..E non è solo questo perché convivi  con insetti molesti e a volte pericolosi e per questo non devi dimenticare di sbattere scarpe e vestiti prima di usarli, di stare attento all'acqua che bevi, tutte cose di cui oggi, alle nostre latitudini, molti non hanno più memoria. E allora? Sarà il caso di dire"tutto il mondo è paese"? oppure molto meglio che ognuno stia a casa propria vivendo il proprio tempo e la propria realtà, considerando soltanto che viaggiare è bello per andare in vacanza?
Certo non mi sentirei di ignorare tali realtà tanto lontane da noi non soltanto per le miglia da percorrere e naturalmente mi piacerebbe osservare quelle genti immerse nella nostra "civiltà" che è per loro cento anni avanti!. Ma se noi possiamo avere memoria dei cento anni passati, con l'aiuto dei racconti della nonna e dei libri,  considerando inoltre che per noi c'è stato un passaggio graduale per vivere cento anni, mi chiedo cosa potrebbe succedere alle persone della foresta con un impatto evolutivo di cento anni in avanti concentrati in un solo giorno con l'aggiunta della perdita di tutte le fasi intermedie?
A parte la foresta che purtroppo è destinata a morire, anche in Madagascar si fanno strada il cemento e la tecnologia, ma per chi? Io li ho visti nelle mani dei religiosi, con le loro residenze ecclesiastiche da sogno, con grosse automobili fuori strada, e non gli manca nemmeno la mozzarella!, la producono i gesuiti; il vino, lo producono i trappisti, in contesti residenziali da capogiro. Ma quando torni sulla strada che collega i vari villaggi torni sicuramente alla realtà, una realtà fatta di paglia e fango, di gente storpia per mancanza di nutrimento, di bambini che con le ceste sulle teste si spostano a piedi nudi per chilometri, sul ciglio delle strade in terra battuta, per andare a vendere i prodotti della terra. E allora qual è l'alternativa per i giovani? Forse quella di fare il percorso religioso, entrando a far parte di una missione, dove studi, mangi, hai una dimora dignitosa da condividere con altre persone come te,  con la preghiera, con i lavori sicuramente non leggeri dall'alba alla sera tardi. Vivere in quelle comunità vuol dire alzarsi alle quattro del mattino e preparare la colazione, rigovernare e andare a scuola.
Quando torni ti aspetta di andare a raccogliere l'erba per gli animali, pulirli, tenere puliti i locali, occuparsi del giardino da coltivare, preparare la cena, rigovernare e preparare le verdure per il pasto di domani. Il tutto scandito da molte ore di preghiera. Ma per quei giovani tutto ciò è preferibile al farsi rosicchiare le gambe dagli scarafaggi, di cui portano i segni. E non sono pochi quelli che si convertono alla religione cristiana continuando però a rispondere, per molti aspetti, alla loro religione animista. Tutto questo è sicuramente per noi un anacronismo e mio malgrado mi sono accorta che nonostante tutti i disagi  causati dalla povertà,  sono ancora molti i malgasci  contenti della vita che vivono. Allo straniero, che è il "VASA' chiedono solo i soldi, non accettano di imparare nulla perché vogliono continuare a rotolarsi nel fango, a credere nei loro demoni, a uccidere  per invidia,  per vendetta con veleni rudimentali, quanti tentano di elevarsi socialmente, perchè  tutti i malgasci devono essere uguali. Gli aspetti molto forti della vita malgascia sono per fortuna smorzati, almeno per il viaggiatore attento, da quella magnifica cornice che madre natura ha fatto. Non è difficile, andando in giro per la foresta, incontrare un bel serpente da fotografare mentre fugge da te per rintanarsi tra il fogliame, o un camaleonte su un albero che vorrebbe evitare di esser guardato salendo sui rami più alti;  vedere i lemuri, invece, comporta recarsi nei parchi perché ormai la foresta è troppo affollata per queste splendide creature. E che dire dei fiori? Pomelie di vari colori, con profumi inebrianti che volgendo lo sguardo  qua e  là ti danno l'idea di guardare attraverso un caleidoscopio; piante di poinsezia, con grandi foglie,che i malgasci adorano chiamare "Madagascar" e di cui hanno fatto l'emblema nazionale  perché la foglia , ripiegata in due in senso longitudinale ha la stessa, medesima forma dell'Isola che un tempo lontano si staccò dall'Africa; piante grandi le stelle di natale, come un tempo erano anche da noi, almeno in Sicilia, ma che adesso abbiamo ridotto a piantine da distruggere per un "Natale che ormai non c'è più,  e che invece tra i malgasci catechizzati ho ritrovato in tutto il suo valore.
Alla prossima, cara Isola Rossa, sei stata molti piaceri e la sola sofferenza di convivere con quelle orribili bestie che sono i kalalau (scarafaggi ben grossi) ma che hanno il riconoscimento di salvare la gente dal tetano. Ho visto un posto dove ancora la natura regna quasi sovrana tra gente che comincia solo ora ad opporsi ad un regime che dopo la dominazione  francese continua a tenerli schiavi e costretti ad accontentarsi di patate dolci, riso e manioca; i disordini politici che hanno contornato il mio soggiorno hanno purtroppo causato dei morti; tornando in Italia ho appreso con vivo piacere che i malgasci sono riusciti nel loro intento.
Serena Cannata

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