lunedì 11 novembre 2013

Madagascar/ Una casa per l’eternità

Attraversando il Madagascar, ci si imbatte di frequente nelle centinaia di tombe che diventano parte integrante del paesaggio.

Per noi “stranieri” in questa terra, non è sempre facile comprendere il rapporto tra la vita e la morte, e tra i morti e i vivi, che anima e regola la vita dei malgasci, anche quelli che hanno abbracciato il cristianesimo o l’islam. Ci sono tradizioni (fomba) e taboo (fady), che regolano la vita dei vivi in stretta relazione con le credenze legate agli antenati. Ogni tomba rispecchia le condizioni sociali della famiglia che l’ha costruita, anche con grande dispendio economico, alcune arrivano a costare anche più delle abitazioni in cui i defunti hanno trascorso la vita. Normalmente, infatti, le case sono costruite con fango, paglia, legno e mattoni, le tombe – soprattutto quelle dell’altopiano – in granito. E proprio davanti ad una di queste ho chiesto ai nostri ragazzi, all’inizio della mia esperienza in Madagascar, ma perché non fare al contrario, perchè i malgasci non costruiscono delle case in pietra e delle tombe più semplici, con i mattoni? Mi hanno guardato un po’ sorpresi da questa domanda, e poi, uno di loro, con molta naturalezza mi ha risposto, “ma è chiaro, la casa è costruita perché deve durare solo una vita, la tomba invece deve resistere all’eternità!”. Una casa per l’eternità, una visione, questa, che rispecchia il rispetto e la venerazione che i vivi devono ai morti, agli antenati (Razana).

Alla morte di una persona bisogna anche uccidere uno o più zebù, così lo spirito dell’animale può accompagnare lo spirito (Fanahy) del defunto alla montagna di Ambondrobe, dove abitano tutti gli altri spiriti.
Ogni gruppo etnico (ce ne sono 18 in Madagascar) ha un suo modo di costruire le tombe e di venerare la memoria dei cari defunti. I Betsileo, etnia prevalente nella regione in cui ci troviamo, così come i Merina, che invece si trovano prevalentemente nella regione della capitale, tra giugno e settembre, durante l’inverno australe, hanno una tradizione particolare che si chiama Famadiahana. In un clima festoso, con orchestre che animano canti e danze, invitati “allietati” da litri e litri di Rum, si svolge un rito che prevede la riesumazione dei morti. I corpi vengono riportati alla luce per essere riavvolti in nuovi sudari di seta o cotone, per poi essere portati in processione, celebrati e festeggiati in cambio di protezione per i familiari viventi.
Alla venerazione e al rispetto si affiancano anche tanti altri aspetti legati alla superstizione e alla paura degli spiriti vaganti: Angatra (fantasmi).
C’è chi, ad esempio, lascia una bottiglia di rum sulla tomba così lo spirito, ubriaco, a cui si è forse fatto un torto mentre era vivo, non riconosce la strada di ritorno verso casa e non può ricambiare il male ricevuto da vivo. Altri rituali prevedono che alla fine dei riti funebri bisogna passare nel fuoco tutti gli strumenti utilizzati, e anche le persone devono passare attraverso il fumo per liberarsi da eventuali spiriti malvagi e bisogna anche lavarsi prima di poter entrare in contatto con i bambini.
Non è facile raccapezzarsi tra tutte queste credenze e riti, non è semplice capire dove finisce il rispetto, la venerazione, e inizia la superstizione o la paura, sono tutti strettamente intrecciati e legati in una logica che forse ci resterà sempre estranea.
L’apertura e la convivenza con altre culture sta forse intaccando queste credenze, le nuove generazioni non hanno più una conoscenza e una fede assoluta di questi fomba e fady, ma indubbiamente, questi hanno ancora una grande influenza nella vita e nella cultura di milioni di malgasci, vecchi e giovani, colti e non.
Scritto da Rosario Volpi
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