Attraversando
il Madagascar, ci si imbatte di frequente nelle centinaia di tombe che
diventano parte integrante del paesaggio.
Per noi
“stranieri” in questa terra, non è sempre facile comprendere il rapporto tra la
vita e la morte, e tra i morti e i vivi, che anima e regola la vita dei
malgasci, anche quelli che hanno abbracciato il cristianesimo o l’islam. Ci
sono tradizioni (fomba) e taboo (fady), che regolano la vita dei vivi in
stretta relazione con le credenze legate agli antenati. Ogni tomba rispecchia
le condizioni sociali della famiglia che l’ha costruita, anche con grande
dispendio economico, alcune arrivano a costare anche più delle abitazioni in
cui i defunti hanno trascorso la vita. Normalmente, infatti, le case sono
costruite con fango, paglia, legno e mattoni, le tombe – soprattutto quelle
dell’altopiano – in granito. E proprio davanti ad una di queste ho chiesto ai
nostri ragazzi, all’inizio della mia esperienza in Madagascar, ma perché non
fare al contrario, perchè i malgasci non costruiscono delle case in pietra e
delle tombe più semplici, con i mattoni? Mi hanno guardato un po’ sorpresi da
questa domanda, e poi, uno di loro, con molta naturalezza mi ha risposto, “ma è
chiaro, la casa è costruita perché deve durare solo una vita, la tomba invece
deve resistere all’eternità!”. Una casa per l’eternità, una visione, questa,
che rispecchia il rispetto e la venerazione che i vivi devono ai morti, agli
antenati (Razana).
Alla
morte di una persona bisogna anche uccidere uno o più zebù, così lo spirito
dell’animale può accompagnare lo spirito (Fanahy) del defunto alla montagna di
Ambondrobe, dove abitano tutti gli altri spiriti.
Ogni
gruppo etnico (ce ne sono 18 in Madagascar) ha un suo modo di costruire le
tombe e di venerare la memoria dei cari defunti. I Betsileo, etnia prevalente
nella regione in cui ci troviamo, così come i Merina, che invece si trovano
prevalentemente nella regione della capitale, tra giugno e settembre, durante
l’inverno australe, hanno una tradizione particolare che si chiama Famadiahana.
In un clima festoso, con orchestre che animano canti e danze, invitati
“allietati” da litri e litri di Rum, si svolge un rito che prevede la
riesumazione dei morti. I corpi vengono riportati alla luce per essere
riavvolti in nuovi sudari di seta o cotone, per poi essere portati in
processione, celebrati e festeggiati in cambio di protezione per i familiari
viventi.
Alla
venerazione e al rispetto si affiancano anche tanti altri aspetti legati alla
superstizione e alla paura degli spiriti vaganti: Angatra (fantasmi).
C’è
chi, ad esempio, lascia una bottiglia di rum sulla tomba così lo spirito,
ubriaco, a cui si è forse fatto un torto mentre era vivo, non riconosce la
strada di ritorno verso casa e non può ricambiare il male ricevuto da vivo.
Altri rituali prevedono che alla fine dei riti funebri bisogna passare nel
fuoco tutti gli strumenti utilizzati, e anche le persone devono passare
attraverso il fumo per liberarsi da eventuali spiriti malvagi e bisogna anche
lavarsi prima di poter entrare in contatto con i bambini.
Non è
facile raccapezzarsi tra tutte queste credenze e riti, non è semplice capire
dove finisce il rispetto, la venerazione, e inizia la superstizione o la paura,
sono tutti strettamente intrecciati e legati in una logica che forse ci resterà
sempre estranea.
L’apertura
e la convivenza con altre culture sta forse intaccando queste credenze, le
nuove generazioni non hanno più una conoscenza e una fede assoluta di questi
fomba e fady, ma indubbiamente, questi hanno ancora una grande influenza nella
vita e nella cultura di milioni di malgasci, vecchi e giovani, colti e non.
Scritto
da Rosario Volpi
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