Di Roberto Beretta
Dicevano che in America le strade erano
pavimentate d'oro. Arrivato là, mi sono accorto invece che non erano
pavimentate per niente. E mi hanno detto che adesso pavimentarle toccava
proprio a me". A Ellis Island, la "porta degli Stati Uniti" che
oggi è diventata un museo-sacrario dell'emigrazione, sta affisso quest'amaro
apologo italiano che documenta come non per tutti i nostri connazionali la
Merica sia stata l'America – o almeno con quanta santa fatica lo è poi diventata.
E però la storiella dice anche un'altra verità meno nota: ovvero che ci fu una
ben organizzata propaganda (dalla quale non è stata immune nemmeno la Chiesa)
per attirare gli italiani oltreoceano; una pubblicità che non si faceva
scrupolo di dipingere gli Usa come un irrealistico eden avvalendosi dei più
moderni – per l'epoca – mezzi di comunicazione". Così scrive oggi Roberto
Beretta dalle pagine web del quotidiano Avvenire.
"Perché non è vero che i siciliani emigrati
erano tutti cafoni morti di fame", è la seconda cosa che Marcello Saija
dice al visitatore del Museo dell'Emigrazione eoliana di Malfa, sull'isola di
Salina: per esempio dal nostro arcipelago si partiva non tanto per indigenza,
bensì alla ricerca di maggior fortuna e denari grazie ai commerci".
La prima cosa che invece il professor Saija,
docente di Storia delle istituzioni politiche all'università di Palermo ma
forse anzitutto presidente ed anima della Rete che collega i musei siciliani
dell'emigrazione, ricorda a chi lo interpella in materia è una sorta di
distillato della sua pluridecennale ricerca: "Non esiste una sola
emigrazione, ma tante emigrazioni quanti sono i campanili o quasi. Ognuna con i
suoi motivi, caratteristiche anche molto diverse, le sue destinazioni
geografiche. E ognuna va compresa al di fuori degli stereotipi creati dalla
storiografia (soprattutto di sinistra) che nel dopoguerra aveva bisogno di
"dimostrare" le colpe di uno Stato incapace di garantire lavoro e
sopravvivenza ai suoi figli, i quali avevano dovuto espatriare per sfuggire
alla miseria".
Prendiamo le Eolie, dunque, e in specie Salina
che tra le "sette sorelle" dell'arcipelago pare essere stata
storicamente la più prodiga in imprenditorialità: già dal primo Ottocento le
famiglie dei "padroni" salinari si distinguevano per la capacità di
mettere a frutto le abilità di navigatori, intessendo reti di trasporto
commerciale in tutto il Mediterraneo, mentre chi rimaneva sulla fertile terra
vulcanica dell'isola si dedicava all'agricoltura e in particolare alla
produzione di altissima qualità e resa economica della malvasìa... Perché
dunque abbandonare quella possibile agiatezza per andare fino in America?
"Intanto perché, a causa della dovizia di abili velisti reclutati dalle
grandi compagnie di navigazione transoceanica, gli eoliani conoscono il Nuovo
mondo prima di altri", risponde Sajia. "E poi per fare più soldi e
magari costruirsi in patria un palazzotto, come quello sontuoso che a Malfa si
fece edificare Antonio Marchetti (presto soprannominato 'u miliunariu), che
aveva fatto fortuna a New York commerciando il marmo di Carrara. E fu il primo
ad avere la corrente elettrica a Salina!".
Il professore documenta la tesi con cifre e con
storie. Qui la crescita costante della flotta a vela eoliana, testimonianza di
un investimento che fu assai redditizio. Lì il passaporto di un salinaro che
emigra a 50 anni suonati, con tutta la famiglia, pur essendo tra i notabili
dell'isola. Non era dunque gente che andasse alla ventura perché tanto non
aveva nulla da perdere...
"La filossera. Certo, qualcuno spiega la
spinta ad andarsene con l'arrivo del parassita che in pochissimo tempo, da metà
degli anni Ottanta dell'Ottocento, azzerò tutte le vigne eoliane; fu davvero un
cataclisma. Tuttavia, più che al minuscolo insetto, le responsabilità
dell'esodo vanno attribuite a questo libretto".
Saija indica in una vetrina la colorata
copertina di "Dall'Italia a New York. Guida dell'Emigrante", edizione
1902: "A New York le case sono in torri alte anche 300 metri – così vi si
leggeva –, e più in alto si va più ricche sono le case. I rubinetti dell'acqua
sono d'oro e d'argento". "Vuoi sapere che succede appena arrivi nel
porto di Nuova York? Dieci, venti persone ti chiederanno se vuoi un lavoro. Tu
scegli quello che più ti piace". "Se vuoi diventare un venditore di
frutta non hai bisogno di fare molta fatica; basta solo la tua forza di volontà
e la tua voglia di lavorare! Appena riesci a guadagnare un po' di soldi
procurati un carretto, la mattina presto vai ai mercati generali, compra un po'
di frutta e vendila per le strade"...
Ed è alquanto significativo che questa
pubblicistica da paese di Cuccagna sia stampata e distribuita da due grandi
compagnie navali, "La Veloce" e la "Navigazione Generale
Italiana": le due che – prima divise, poi fuse nella medesima impresa –
nelle Eolie si accaparrarono grazie ai loro agenti la maggior quota di
biglietti transoceanici. Il business era così allettante che sulle sperdute
isole arrivarono persino emissari di armatori stranieri, sviluppando tutto un
indotto di sensali e speculatori. C'erano per esempio faccendieri che
anticipavano il prezzo del viaggio, il quale sarebbe poi stato restituito «in
comode rate» oltre Atlantico lavorando per un boss già prefissato; c'era chi
lucrava acquistando a prezzi da svendita i beni immobili dei partenti; c'era
l'assicuratore per stipulare, «a sole 10 lire», polizze che garantivano le 200
lire del biglietto nel caso si venisse respinti all'arrivo (evento tutt'altro
che remoto) o che addirittura avrebbe versato un vitalizio ai congiunti in caso
di affondamento del piroscafo e morte del titolare.
Pure la Chiesa veniva incontro alle nuove
esigenze: nel museo di Malfa sono esposti libretti di orazioni appositi per
emigranti, con preghiere da recitare per ogni occasione del viaggio e della
lontananza, ma anche diplomi pontifici in cui (a pagamento...) si garantiva
l'indulgenza anche nel caso non si fosse riusciti a confessarsi in tempo mentre
la nave colava a picco.
Di fatto poi, e anche se l'America non si rivela
certo quell'eden dipinto dai manualetti pubblicitari, gli eoliani faranno molto
spesso fortuna. Il professor Sajia ha documentato negli Stati Uniti del primo
Novecento addirittura 15 società di mutuo soccorso per emigrati del solo
arcipelago, che divisi per «isola» creano e sostengono corposi processi di
integrazione sociale: quelli di Lipari, quelli di Filicudi, quelli di Salina,
eccetera.
Nate come istituti di assistenza reciproca in
caso di malattia, infortunio o morte e comunque per tenere viva la colleganza
tra conterranei (era prevista l'espulsione immediata per chi non avesse
partecipato ai funerali di un socio), le organizzazioni diventarono poi lobbies
anche assai ricche – basta osservare appese al museo le foto di gruppo scattate
durante le elegantissime feste sociali – e influenti: tanto che i presidenti
Usa non disdegnavano di averle come partner in campagna elettorale (l'ultimo
presidente della Mutual Aid Society «Isola di Salina», Edoard Re, divenne
segretario di Stato alla Cultura con John Kennedy e giudice federale con
Johnson). Parte di tale prosperità ritornò poi in patria: per esempio, il primo
generatore elettrico di Santa Marina Salina venne finanziato nel 1919 con
centomila lire da un munifico emigrato americano.
E lo stesso museo di Malfa ha trovato significativamente
la sua prima sede nella dimora di un emigrante ritornato in patria. Ma il
medesimo viaggio di ritorno purtroppo lo fece anche la mafia (no, non avvenne
il contrario, come comunemente si crede), che a New York imparò i metodi
estorsivi: tra gli oggetti della raccolta vi sono infatti pure gli
sgrammaticati biglietti che la Mano Nera newyorkese spediva ai fruttivendoli
salinari di Little Italy e di Brooklyn per offrire «protezione» in cambio del
«pizzo». Cosa Nostra imparò presto". (aise)
Ti possono interessare
Nessun commento:
Posta un commento