venerdì 27 giugno 2014

Assalto alle terre africane

di Luca Manes
Che cosa spinge un’impresa italiana a volare in Madagascar, dove nel 2008 si è consumato un sanguinoso colpo di Stato provocato, tra le altre cose, dall’indignazione per il furto legalizzato di terre agricole da parte di imprese straniere, per mettere in piedi proprio un progetto agricolo?
Per rispondere a questa e a tante altre domande Re:Common è volata in Madagascar e insieme a una rete di contatti locali ha attraversato il Paese, scattato foto, posto domande, filmato interviste. Poi, una volta di ritorno in Italia, assieme a comitati e cittadini contro gli inceneritori in Umbria e Puglia ci si è interrogati sui collegamenti e i meccanismi che possono giustificare quanto visto in Madagascar. Il frutto di tutto questo lavoro, durato mesi, è la pubblicazione “Assalto alla Terra!
L’impresa, o faremmo meglio a dire la holding, visto che nelle varie località opera tramite sue sussidiarie, si chiama Tozzi. In Madagascar è presente nella regione dell’Ihorombe con un progetto molto ambizioso, che prevede, entro il 2019, la realizzazione di piantagioni di jatropha per produrre agro-combustibili su 100mila ettari di territorio. Per ora il contratto d’affitto è stato messo in piedi per i primi 6.558 ettari, al costo irrisorio di 10 euro l’anno a ettaro e per una durata complessiva di tre decenni. Non si capisce se la jatropha sia destinata al mercato locale o a quello dell’export, visto che al riguardo ci sono informazioni contrastanti.

Sembra più chiaro, soprattutto dopo la missione sul campo, che tutto il processo di consultazione con le comunità locali, peraltro previsto espressamente dalla normativa malgascia, non sia stato seguito in maniera particolarmente “accurata”. I contadini e i pastori dell’area sono a dir poco scettici sui benefici che reca loro la jatropha, mentre sono sicuri che gli allevamenti di zebù, animale da cui dipendono in tutto e per tutto le popolazioni di quello spicchio di Madagascar, ne patiscono e patiranno enormemente. Pochi riscontri positivi anche rispetto ai posti di lavoro sbandierati dalla Tozzi.

Intanto circolano voci, riportate nel rapporto di Re:Common, di un possibile cambio di destinazione d’uso dei terreni malgasci. A questo punto c’è bisogno di porsi altre domande. Forse la normativa italiana sulle energie rinnovabili sta giocando un ruolo decisivo nel comportamento delle compagnie all’estero? La loro linea di condotta è trainata dal sistema di incentivi istituito dal piano d’azione nazionale per le energie rinnovabili (200 miliardi previsti fra il 2013 e il 2032). È anche possibile che le recenti variazioni nei piani industriali della Tozzi e di altre società in diversi paesi africani nascano dall’aver appurato che la jatropha non è né economicamente né ambientalmente e socialmente sostenibile. Però non è da escludere che le aziende si stiano spostando dalla produzione di agro-combustibili su larga scala in Africa alla filiera corta su base locale, come conseguenza dello sviluppo irregolare della legislazione italiana.

A proposito del Bel Paese, come si muove l’azienda dalle nostre parti? 
Come spiega nella pubblicazione Giuseppe Dimunno, blogger pugliese che segue da vicino le vicende energetiche del suo territorio: «La storia del Gruppo Tozzi in Puglia è quella che meglio esemplifica il nesso esistente fra la realizzazione di megaimpianti agroenergetici in Italia e le pratiche di accaparramento di terre nei paesi del Sud del mondo portate avanti da alcune aziende italiane». Ovvero coltivazioni di materie prime combustibili portate in Italia a termovalorizzare. Una storia caratterizzata da un pressing inedito da parte della società nei confronti delle istituzioni e del tessuto sociale locale: una spasmodica ricerca del maggior consenso possibile.
Un progetto per la costruzione di un impianto a biomasse è stato presentato in ben quattro province pugliesi e infine approvato, fra le mille resistenze della collettività e un iter pieno di ostacoli, solo nel piccolo comune di Sant’Agata di Puglia. Attualmente è in attesa della cantierizzazione. Ma un interrogativo incombe: qual è la sostenibilità socioambientale ed economica dell’impresa, il cui “core business” resterebbe quello di trovare un mercato ai biocarburanti che essa stessa produce in Africa, avvantangiandosi degli aiuti per la produzione di “energia pulita”, si chiede ancora Dimunno.
Il business delle biomasse non è certo facile. In Puglia, nonostante oltre sessanta istanze censite ufficiosamente presso l’Assessorato regionale allo sviluppo economico e alle infrastrutture energetiche nel 2010, solo poche aziende sono realmente riuscite ad avviare la produzione di energia, come i due impianti della Powerflor a Molfetta e del Gruppo Marseglia a Monopoli. Quest’ultimo è stato fra i primi in Italia a investire nei biocombustibili e oggi tuttavia orienta i suoi affari all’estero, soprattutto nei Balcani con la costruzione di nuovi impianti di Albania, mentre il primo ha richiesto di integrare l’alimentazione dell’impianto con gas.
In Umbria, invece, come ci racconta il Comitato No Inceneritori di Terni, la Tozzi ha acquisito il Printer srl, impianto a pirolisi da 3,8 Mwe. Lo ha fatto anche sfruttando al meglio due delibere della Giunta regionale datate 2011, che eliminavano i vincoli relativi alle emissioni massime dei mezzi di trasporto per l’approvvigionamento degli impianti a biomassa, ovvero l’eliminazione della filiera corta. Il passaggio finale di un progetto che nasce nel lontano Madagascar e “trova compimento” su territorio italiano?

Fonte: http://comune-info.net/

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