di Luca
Manes
Che cosa spinge un’impresa italiana a volare in Madagascar, dove
nel 2008 si è consumato un sanguinoso colpo di Stato provocato, tra le altre
cose, dall’indignazione per il furto legalizzato di terre agricole da parte di
imprese straniere, per mettere in piedi proprio un progetto agricolo?
Per rispondere a questa e a tante altre domande Re:Common
è volata in Madagascar e
insieme a una rete di contatti locali ha attraversato il Paese, scattato foto,
posto domande, filmato interviste. Poi, una volta di ritorno in Italia, assieme
a comitati e cittadini contro gli inceneritori in Umbria e Puglia ci si è
interrogati sui collegamenti e i meccanismi che possono giustificare quanto
visto in Madagascar. Il frutto di tutto questo lavoro, durato mesi, è la
pubblicazione “Assalto
alla Terra!”
L’impresa, o faremmo meglio a dire la holding, visto
che nelle varie località opera tramite sue sussidiarie, si chiama Tozzi. In Madagascar è presente nella
regione dell’Ihorombe con un progetto molto ambizioso, che prevede, entro il
2019, la realizzazione di piantagioni di jatropha per produrre
agro-combustibili su 100mila ettari di territorio. Per ora il contratto
d’affitto è stato messo in piedi per i primi 6.558 ettari, al costo irrisorio
di 10 euro l’anno a ettaro e per una durata complessiva di tre decenni. Non si
capisce se la jatropha sia destinata al mercato locale o a quello dell’export,
visto che al riguardo ci sono informazioni contrastanti.
Sembra più chiaro, soprattutto dopo la missione sul
campo, che tutto il processo di consultazione con le comunità locali, peraltro
previsto espressamente dalla normativa malgascia, non sia stato seguito in
maniera particolarmente “accurata”. I contadini e i pastori dell’area sono a
dir poco scettici sui benefici che reca loro la jatropha, mentre sono sicuri che
gli allevamenti di zebù, animale da cui dipendono in tutto e per tutto le
popolazioni di quello spicchio di Madagascar, ne patiscono e patiranno
enormemente. Pochi riscontri positivi anche rispetto ai posti di lavoro
sbandierati dalla Tozzi.
Intanto
circolano voci, riportate nel rapporto di Re:Common, di un possibile
cambio di destinazione d’uso dei terreni malgasci. A questo punto c’è bisogno
di porsi altre domande. Forse la normativa italiana sulle energie rinnovabili
sta giocando un ruolo decisivo nel comportamento delle compagnie
all’estero? La loro linea di condotta è trainata dal sistema di incentivi
istituito dal piano d’azione nazionale per le energie rinnovabili (200
miliardi previsti fra il 2013 e il 2032). È anche possibile che le recenti
variazioni nei piani industriali della Tozzi e di altre società in diversi
paesi africani nascano dall’aver appurato che la jatropha non è né
economicamente né ambientalmente e socialmente sostenibile. Però non è da
escludere che le aziende si stiano spostando dalla produzione di
agro-combustibili su larga scala in Africa alla filiera corta su base locale,
come conseguenza dello sviluppo irregolare della legislazione italiana.
A proposito
del Bel Paese, come si muove l’azienda dalle nostre parti?
Come spiega nella pubblicazione Giuseppe
Dimunno, blogger pugliese che segue da vicino le vicende energetiche del suo
territorio: «La storia del Gruppo Tozzi in Puglia è quella che meglio
esemplifica il nesso esistente fra la realizzazione di megaimpianti
agroenergetici in Italia e le pratiche di accaparramento di terre nei paesi del
Sud del mondo portate avanti da alcune aziende italiane». Ovvero coltivazioni
di materie prime combustibili portate in Italia a termovalorizzare. Una storia
caratterizzata da un pressing inedito da parte della società
nei confronti delle istituzioni e del tessuto sociale locale: una spasmodica
ricerca del maggior consenso possibile.
Un progetto per la costruzione di un
impianto a biomasse è stato presentato in ben quattro province pugliesi e infine
approvato, fra le mille resistenze della collettività e un iter pieno di
ostacoli, solo nel piccolo comune di Sant’Agata di Puglia. Attualmente è in
attesa della cantierizzazione. Ma un interrogativo incombe: qual è la sostenibilità socioambientale ed
economica dell’impresa, il cui “core business” resterebbe quello di trovare un
mercato ai biocarburanti che essa stessa produce in Africa, avvantangiandosi
degli aiuti per la produzione di “energia pulita”, si chiede ancora Dimunno.
Il business delle biomasse non è certo facile. In Puglia,
nonostante oltre sessanta istanze censite ufficiosamente presso l’Assessorato
regionale allo sviluppo economico e alle infrastrutture energetiche nel 2010,
solo poche aziende sono realmente riuscite ad avviare la produzione di energia,
come i due impianti della Powerflor a Molfetta e del Gruppo Marseglia a
Monopoli. Quest’ultimo è stato fra i primi in Italia a investire nei
biocombustibili e oggi tuttavia orienta i suoi affari all’estero, soprattutto
nei Balcani con la costruzione di nuovi impianti di Albania, mentre il primo ha
richiesto di integrare l’alimentazione dell’impianto con gas.
In Umbria, invece, come ci
racconta il Comitato No Inceneritori di Terni, la Tozzi ha acquisito il Printer
srl, impianto a pirolisi da 3,8 Mwe. Lo ha fatto anche sfruttando al meglio due
delibere della Giunta regionale datate 2011, che eliminavano i vincoli relativi
alle emissioni massime dei mezzi di trasporto per l’approvvigionamento degli
impianti a biomassa, ovvero l’eliminazione della filiera corta. Il passaggio
finale di un progetto che nasce nel lontano Madagascar e “trova compimento” su
territorio italiano?
Fonte: http://comune-info.net/
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