Alcune organizzazioni non governative criticano le politiche
dell’Alliance for a Green Revolution in Africa (Agra), fondata nel 2006
dalla Bill and Melinda Gates Foundation
e Rockefeller Foundation, che vuole favorire la diffusione di colture
geneticamente modificate (Ogm) e delle tecnologie della nuova “rivoluzione
verde”. All’inizio di luglio una coalizione di circa 60 Ong africane si è
riunita per protestare contro l’Agra in previsione del summit del G8 a Londra. Queste associazioni affermano che gli Ogm e la rivoluzione verde,
che puntano ad aumentare le rendite agricole dei Paesi in via di sviluppo con
innovazioni specifiche, a lungo termine saranno nocive per gli ecosistemi
africani e, in una lettera invita alla presidente dell’Agra Jane Karuku,
scrivono: «Le tecnologie della
rivoluzione verde vanno a profitto di relativamente pochi agricoltori ed i
benefici avvengono spesso a spese della maggioranza. Queste tecnologia
provocano una concentrazione della proprietà, aumentano l’economia di scala (la
produzione deve essere fatta su grande scala per penetrare nei mercati e
mantenercisi) e riducono il numero di famiglie che producono del nutrimento in
un contesto in cui gli altri mezzi di sussistenza sono limitati». Inoltre, come
spiega Irin, l’agenzia di informazione umanitaria dell’Onu, «Pensano anche che
la proprietà intellettuale di numerosi tipi di piante andrà alle grandi
compagnie multinazionali, come prevedono le pratiche della rivoluzione verde». Le Ong africane sono convinte che «La
proprietà private delle conoscenze e delle risorse materiali (per esempio le
sementi ed il materiale genetico) significa che i diritti di proprietà
(royalties) sfuggono all’Afrique e passano nelle mani delle multinazionali». L’Agra
sta lavorando in Africa in collaborazione con i piccoli agricoltori, accorda
loro microcrediti e fornisce sementi ibride e concimi per aumentare le rendite
agricole, il tutto con il dichiarato intento di lottare contro la fame e la
povertà. Intervenendo ad una recente conferenza sull’agricoltura a Nairobi, Sir
Gordon Conway, un agronomo autore del libro “One Billion Hungry: Can We Feed
the World?”, ha sottolineato: «Ci sono milioni di agricoltori qualificati in
Africa ed hanno semplicemente bisogno di attrezzature». Nel suo libro sostiene che «I microcrediti –
destinati ai piccoli agricoltori – così come i macro-investimenti, sono
necessari perché gli agricoltori possano beneficiare delle tecnologia della green
revolution». Secondo lui, «I gruppi
tradizionalmente marginalizzati – soprattutto le donne, I giovani e le
minoranze etniche – trarranno profitto dell’utilizzo delle nuove tecniche
agricole destinate ai piccoli coltivatori e ci sarà una diminuzione
considerevole del numero totale delle persone che soffrono la fame». Secondo i
suoi calcoli, «Se le agricoltrici si vedono garantire l’accesso alle stesse
risorse produttive degli uomini, questo potrebbe ridurre da 100 a 150 milioni
il numero di persone sottoalimentate b nel mondo». Uno scenario che stride con
le esperienze di diffusione degli Ogm presenti ma condiviso anche da Peter
Hazell, un esperto che lavora per la Banca mondiale e l’ International food
policy research institute (Ifpri): «Se entro il 2050 bisognerà nutrire 9
miliardi dei esseri umani con delle procedure che rispettino l’ambiente e in un
contesto di cambiamento climatico,
dobbiamo aver accesso a quel che di meglio la scienza moderna può offrire. Tutte le
tecnologie presentano dei rischi (per esempio i telefonini possano causare il
cancro al cervello), ma intanto le colture Ogm sembrano piuttosto efficaci». Discorsi
fotocopia di quelli già fatti per giustificare tecnologie rischiose come il
nucleare, ma le Ong africane non sono per nulla d’accordo e Teresa Anderson de
la Fondation Gaia, spiega ad Irin che «L’Agra spinge gli diversi anni delle Ong
lavorano in tutta l’Africa con gli agricoltori per incoraggiarli a non
utilizzare più fertilizzanti e pesticidi ed a migliorare la salute dei suoli e
degli ecosistemi, la diversità delle sementi e la loro sovranità alimentare.
L’Agra sta cancellando un decennio di progressi agroecologici in Africa,
spingendo gli agricoltori ad indebitarsi ed a ricadere sotto il giogo
dell’industria agroalimentare, un tragico film già visto in India. Gareth Jones
dell’African centre for biosafety, sottolinea che «Le coltivazioni commerciali
di piante geneticamente modificate sono autorizzate unicamente in tre Paesi
dell’Africa: l’Egitto, il Burkina Faso ed il Sudafrica. Tra questi Paesi, solo
il Sudafrica le utilizza in maniera intensiva. E’ un errore pensare che questo
modello possa essere riprodotto altrove nel continente. L’eredità del
colonialismo e poi dell’apartheid in Sudafrica ha lasciato un settore agricolo
commerciale ricco e sovvenzionato nelle mani degli agricoltori bianchi che,
spesso (soprattutto i coltivatori di mais, di cotone e di soia), possiedono
grandi parcelle di terreno ed utilizzano fertilizzanti moderni. I progetti che
puntano a spingere i piccoli agricoltori a coltivare Ogm, sull’esempio di
quello della regione di Makhathini Flats, all’epoca portati come un vanto
dall’industria della biotecnologia, sono ampiamente falliti». Makhathini Flats
è un progetto iniziato nel 2002 con la produzione di cotone ed è finite dopo
solo 5 anni: gli alti costi dei rimborsi dei prestiti per acquistare le sementi
e le cattive condizioni climatiche hanno reso impossibile ai piccoli contadini
coltivare il cotone Ogm e Jones ribadisce: «Niente prova che l’introduzione
delle sementi Ogm darà dei risultati differenti sul resto del continente».
Allora perché iniziative come Agra propongono un maggior utilizzo di Ogm in
Africa? La presidente dell’Agra Karuku si difende e ribatte che
«L’organizzazione cerca di collaborare con partner locali per sviluppare nuove
varietà di sementi. In Kenya, l’alleanza lavora con l’istituto nazionale di
ricerca agricola, è questo organismo che detiene i brevetti sulle sementi e non
le grandi società multinazionali». La Karuku ha anche sottolineato i problemi
che creerà la imponente crescita demografica in Africa: «A causa della mancanza
di terre agricole, gli agricoltori africani dovranno accrescere la produttività
delle loro coltivazioni». La presidente dell’Agra ricorda il rapporto Fao 2012
sull’insicurezza alimentare, che dice che in Africa ci sono 239 milioni di
persone sottoalimentate e conclude che «E’ necessaria un’azione molto ampia. Se
non facciamo niente, sarà molto peggio di così. Dovremmo preoccuparci». Hazell
corre in soccorso della Karuku: «Nessuno obbliga gli agricoltori a coltivare
Ogm; se si rivelano meno redditizi delle altre soluzioni, gli agricoltori
smetteranno semplicemente di utilizzarli. Gli agricoltori hanno potuto ridurre
l’utilizzo dei pesticidi in numerose colture geneticamente modificate, il che
ha avuto un impatto benefico considerevole sull’ambiente e la salute». Un
quadretto idilliaco degli Ogm in Africa che era già stato demolito nel
settembre 2012 da più di 350 Ong africane (tra le quali African biodiversity
network, African centre for biosafety, Kenya biotechnology coalition,
Participatory ecological land use management ed
ActionAid Tanzania ed Uganda), che
hanno redatto una dichiarazione per protestare contro i metodi agricoli
delle fondazioni dei coniugi Gates e di Rockfeller: «À causa del programma
delle sementi dell’Agra, noi temiamo che le numerose e ricche varietà delle
sementi indigene africane diventino proprietà delle compagnie di sementi
brevettate, il che cambierà e ridurrà l’accesso degli agricoltori alle varietà
indigene e li imprigionerà in un sistema di produzione agricola ad alto
rendimento molto costoso». Questa colazione cita uno studio del 2009
dell’International assessment of agricultural science and technology for
development (Iaastd), diretto da Fao,
United Nation environmental programme (Unep) e Banca mondiale che conclude che
«E’ poco probabile che l’agricoltura industriale suia davverio benefica per lottare contro la
fame e la povertà». Nel 2001, uno studio commissionato dalla Commissie
genetische modificatie olandese rivelò
che nel 2009 «Le tre più grandi imprese di sementi controllavano più di un
terzo del mercato mondiale delle sementi» ed Irin sottolinea che «In base ai
quadri giuridici più recenti, gli agricoltori che coltivano le sementi
brevettate non sono autorizzati ad utilizzare le sementi naturalmente prodotte
dalle loro colture. Le grandi imprese come Monsanto perseguono sistematicamente
gli agricoltori che propagano le loro colture brevettate». Ruth Nyambura, di
African biodiversity network, evidenzia infine che «Ovunque nel mondo, le
società che possiedono le sementi possiedono anche i prodotti chimici; è un
cartello mafioso che si dimostra spietato con gli agricoltori poveri che
producono su piccola scala».
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