mercoledì 3 aprile 2013

Madagascar, cioccolato rosso sangue


Se vivesse in Brianza, Mora Norbert terrebbe, sotto il cuscino, una pistola. Ma essendogli capitata la ventura di nascere in Madagascar, in camera da letto, per proteggersi, tiene la sabbuha. Questa è una lancia primordiale, dell’età della clava; la stessa in cui vive una delle valli più belle del creato, la valle Sambirano, da cui proviene uno dei frutti che più delizia il nostro palato: il cacao.
A inoltrarsi di giorno nelle piantagioni o anche nei villaggi, ci si perde in una ricca selva ancestrale in cui la vita scorre lenta scandita  com’è dai bisogni primordiali. Non ci sono pompe, e dunque l’acqua si prende al ruscello, spesso lontano. Non ci sono auto, bensì carretti di legno trainati da bestiame. Non c’è la luce, e dunque la notte si accende di fioche candele e delle torce rudimentali dei ladri.
Accade, in Madagascar, ciò che in America Latina succede con le foglie di coca: la guerra del cacao, con produttori, ladri, trafficanti, ricettatori.

Mora Norbert è un piccolo produttore, ha quattro ettari, in un villaggio vicino ad Ambanja, nel Nordest del Madagascar, che protegge con la lancia. I baccelli freschi li vende a mezzo euro al chilo, quelli secchi a due euro, con quelli secchi i più grandi chocolatier d’Europa – tra cui anche gli italiani – ci fanno il cioccolato che poi vendono 100 grammi a cinque euro. Mora Norbert, tuttavia, non lo ha mai assaggiato, il cioccolato: nel suo Paese lo fanno solo due società, nella capitale, a più di mille chilometri. “Abbiamo bisogno che qualcuno lo faccia qui”, mi dice.
Tutte le mattine, Mora va in pattuglia nel suo podere con la sabbuha a caccia di ladri. Negli ultimi mesi lo hanno derubato tre volte. A gennaio e febbraio, ci sono stati, in media, nella valle Sambirano, cinque furti a notte. Nella prigione di Ambanja, il capoluogo di provincia, il 70% dei 294 detenuti sono dentro per crimini legati al cacao. Ci sono anche 14 donne, sedute per terra, sul cemento, sotto una lamiera, ad attendere un pasto che non arriverà. Il direttore del carcere, un ragazzo in ciabatte, mi chiede aiuto: non ha cibo sufficiente per i ladri di cacao. Ha un po’ di mais e di patate e manioca, nient’altro.

Mi viene in mente che questa gente scalza, senza espressione, ha probabilmente rubato per fame, fame che soffre anche adesso che è dentro.
Mora Robert, ovviamente, non ha pietà.
Se avesse i soldi, si comprerebbe, per difendere il raccolto, una pistola. Ma non li ha, e allora va avanti con la sabbuha.
“Costa meno andare dal moasy, dallo stregone. Fa una makumba, scrive una formula magica su una foglia di palma, e alcuni ladri muoiono mentre altri escono pazzi”.
Ma va?
“Ma si”.
Come?
“Per esempio un mio amico ne ha ucciso uno”.
Come?
“Gli ha sparato un colpo in faccia”.
L’ho conosciuto, l’amico di Mora. Si chiama Miadana.
Ha 64 anni e per moglie una donna cannone dal sorriso d’oro.
Possiede due ettari di cacao, che sorveglia da sempre ogni mattina, in pattuglia solitaria, mentre i galli ronfano ancora.
Parliamo nel cortile della sua capanna, sotto un telo, affianco a un carretto di legno tra anatre e galline.
Un giorno, pioveva tanto, e forse i ladri pensarono che avrebbe rinunciato al suo giro. Ci andò lo stesso, a bordo della sua moto cinese Kinlon.
“Parcheggiai un po’ fuori. Arrivai a piedi tra le piante e notai, tra i rovesci d’acqua, delle ombre. C’erano due giovani, a 30 metri da me”.
Lavoravano in armonia: uno faceva cascare con la sabbuha i baccelli, l’altro li raccoglieva e li poneva in un sacco di iuta.
“Mi recai dritto verso quello che raccoglieva, in pugno la mia pistola malgascia. Non avevo intenzione di sparare, pioveva fitto, non vedevo niente, ma sentii un rumore dietro di me, era l’altro, con il sacco, che si avvicinava e allora mi girai e feci fuoco”. Corsero via entrambi, e allora Miadana raccolse i baccelli ancora per terra, coprì il sacco con un telo e tornò a casa a mangiar riso convinto di averlo mancato.
“Ore dopo, venne a casa un gendarme dicendomi che avevano trovato un ragazzo di 25 anni morto stecchito con un colpo di cuscinetto dentro il cranio”.
Finì in prigione. Due giorni dopo sua moglie riunì i sei anziani della famiglia e tutti assieme andarono ad Antsahapano, il villaggio del morto.
Andarono a trattare. Nella cultura malgascia, è possibile compensare la famiglia della vittima della perdita ricevuta, e in cambio questa può ritirare la denuncia e così far liberare il colpevole.
“Mia moglie e gli anziani, uccisero una grande grassa zebù (la vacca locale) e la offrirono in dono assieme a 160.000 ariary”, circa 60 euro. La famiglia della vittima accettò. Ma poi lo lasciarono in prigione. Allora la moglie, la signora dal sorriso d’oro, si riprese la zebù, ma i soldi erano persi.
“Li avevamo dati alle persone sbagliate. Alla fine pagammo 3 milioni di ariary (quasi mille euro) a uno del governo, e mi lasciarono andare”.
Gli chiedo se è pentito.
Ride una risata nervosa.
“Non volevo uccidere mica”.
Dice anche che i ladri continuano a visitare il suo podere: “Le vedo le loro luci, nella notte, tra le foglie”.
(Il reportage completo sulle guerre del cacao in Madagascar è in edicola mercoledì su Vanity Fair).
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