lunedì 23 marzo 2015

Una strana storia coloniale

POLONIA: L’isola di Kunta Kinte e l’operazione Madagascar.
Era un isolotto disabitato quando i primi coloni vi giunsero nel 1651. Un piccolo isolotto alla foce del fiume Gambia. Un angolo sperduto di Africa, senza nome né padrone. Ma i padroni si trovano in fretta. Così il duca di CurlandiaGiacomo Kettler, comprò dagli inglesi i diritti di commercio al largo delle coste del Gambia. Era un tipo intraprendente il duca Kettler, sostenitore delle idee mercantiliste, amante dei planisferi e delle mappe geografiche che aprivano le rotte verso nuovi mondi.
Fu così che decise di spedire dei coloni laggiù, su quell’isolotto sperduto. E il viaggio dal Baltico non deve essere stato agevole. Vale forse la pena ricordare che la Curlandia corrispondeva a parte dell’attuale Lettonia, e il duca era vassallo del Granducato di Polonia e Lituania. Era quello uno stato enorme, che andava dai confini occidentali della Polonia all’Ucraina e – grazie al duca Kettler – fino all’Africa. La piccola isola fu infatti la prima colonia formalmente “polacca” nel continente africano.
Giunti sull’isolotto i coloni costruirono un forte e ribattezzarono l’isola con il nome di Sant’Andrea. Non ci rimasero molto: coinvolto in una guerra con gli svedesi e fatto prigioniero, il duca Kettler vide la sua isola africana conquistata dagli olandesi. Una volta liberato, ricostruì la flotta e si riprese l’isola tenendola fino al 1661 quando gli inglesi la presero senza nemmeno combattere facendone un caposaldo della tratta degli schiavi. Non a caso oggi l’isola, che appartiene al Gambia, è stata ribattezzata Kunta Kinte dal nome del famoso personaggio del romanzo Radici di Alex Haley.
Quelli della colonizzazione dell’Africa fu un’avventura breve per il Commonwealth polacco-lituano. Dieci anni appena che devono però essere rimasti impressi ai polacchi poiché, secoli dopo, a Varsavia pensarono che in Africa non si stava poi tanto male, e progettarono di spedirci gli ebrei residenti in Polonia. Una storia meno allegra ma altrettanto singolare, che si svolge negli anni Trenta del secolo scorso.
Al turbolento rapporto tra ebrei e polacchi avevamo già dedicato un articolo, ma in quell’occasione non vi era stato modo di approfondire l’ipotesi di emigrazione forzata che il governo polacco formulò per tentare di risolvere definitivamente la questione ebraica. Alla crisi economica degli anni ’30 che aveva già inasprito le relazioni ebraico-polacche si accompagnava un importante evento oltreconfine, l’ascesa del Nazismo. Benché i nazionalisti polacchi avessero molto da temere da una rinascita tedesca, il ruolo di punta che l’antisemitismo ricopriva nell’ideologia nazista suscitava in loro profonda impressione. Il Governo stesso da una parte professava di continuare la tradizione di Piłsduski ma dall’altra se ne allontanava facendosi trascinare da una corrente antisemita funzionale ad un obiettivo politico: indurre gli ebrei superflui ad emigrare.
Proprio l’emigrazione apparve negli ultimi anni l’unica definitiva scappatoia per risolvere la questione ebraica, risollevare la bilancia dei pagamenti e diminuire il tasso di disoccupazione. Obiettivi per cui sarebbe stato necessario “liberarsi” anche del “surplus” di contadini e indigenti polacchi. Tuttavia, il governo non poteva ammetterlo – per evitare di offendere l’orgoglio nazionale – e la questione fu presentata come una necessità confinata alla sfera ebraica. Una volta individuato il luogo in cui collocare gli ebrei, i poveri polacchi – si diceva – avrebbero immediatamente trovato lavoro ed agiatezza. Nel settembre del 1937, in seno alla Società delle Nazioni, il Ministero degli Esteri Beck richiese formalmente dei possessi coloniali “in comune con le altre grandi potenze europee”, così recitava il documento noto come “Le Tesi Coloniali della Polonia”, preparato qualche mese prima. La Lega fu sorda alla richiesta e anche il Ministero lasciò cadere la proposta per l’evidente impossibilità di metterla in pratica. Nessuna minaccia di forzata espulsione fu avanzata dal governo e nessun piano concretizzabile fu effettivamente ideato. Questo portò a concludere che l’intera campagna fosse un diversivo per distrarre la popolazione dai reali problemi che andavano affrontati.
L’idea che si trattasse soltanto di una montatura guadagnò credito una volta reso pubblico il “Piano Madagascar”. Esistono pareri contrastanti riguardo l’origine di questo piano: fonti polacche hanno suggerito che l’isola, allora colonia francese, fu resa disponibile per un insediamento polacco, ma è molto più probabile che la proposta sia stata avanzata dal Colonnello Beck e i francesi risposero con cortesia ma senza impegno. Qualunque sia la vera versione dei fatti, il governo polacco, nella primavera del 1937, mandò una commissione in Madagascar per accertarsi sulle possibilità di insediamento. Il rapporto riferiva che l’isola avrebbe potuto assorbire tra le 15.000 e le 22.000 famiglie come coloni agricoli al costo di 1000$ a famiglia. Alla fine di quell’anno, un comunicato ufficiale diffuse la notizia che il piano di emigrazione sarebbe entrato nella fase di realizzazione con l’attivo supporto francese una volta trovati i fondi e completati i lavori organizzativi. La questione cadde nel dimenticatoio anche perché economicamente insostenibile, ma la malvagità con cui la Seconda Repubblica Polacca tentò di assurgere a grande potenza per sbarazzarsi di un presunto nemico interno andrebbe ricordata ancora oggi. Soprattutto quando si ama crogiolarsi nella rassicurante immagine di una Polonia eterna vittima dei propri vicini.
Fonte :http://fai.informazione.it/

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