all’interno della foresta primaria di Lokobe.
Avventurarsi laggiù dà la sensazione d’essere avvolti dal morbido abbraccio di
piante gigantesche che con le loro liane invitano ad addentrarsi sempre di più
nel cuore vergine della primitività
Diceva
bene Marcel Proust sostenendo che il vero viaggio non consiste nella ricerca di
nuovi paesaggi ma nell’avere nuovi occhi con cui scoprirli.
Ne ho
avuto conferma anche quest’estate, in Madagascar, durante un’escursione
all’interno della foresta primaria di Lokobe. Avventurarsi laggiù dà la
sensazione d’essere avvolti dal morbido abbraccio di piante gigantesche che con
le loro liane invitano ad addentrarsi sempre di più nel cuore vergine della
primitività. Le foglie carezzano, i fiori seducono, gli animali spiano. Viene
spontaneo trattenere il fiato per non disturbare la quiete, camminare in punta
di piedi, quasi a rallentatore, per assecondare l’apparente immobilità degli
alberi e dei loro ospiti. Ma soprattutto viene naturale aprire gli occhi in
maniera nuova, educare lo sguardo a ciò che sembra invisibile e che tuttavia
c’è: respira, si muove, osserva e spera di non essere scoperto, se non con
rispetto.
Mentre la
mia guida procedeva lenta nella delicata ricerca di serpenti e camaleonti
rarissimi, io ho casualmente alzato lo sguardo verso l’alto, più interessata ai
lemuri che ai boa. E frugando serendipicamente con gli occhi tra le palme
frondose, ho intravisto qualcosa d’inatteso. Una polposa macchia color giallo
brillante stava appesa a un robusto tronco di una pianta mai vista prima. Non
solo una ma altre tre, quattro o forse più macchie gialle penzolavano pigre
dallo stesso fusto. Sottovoce ho pregato la guida di dirottare il cammino verso
quegli stranissimi spruzzi di sole per capire cosa fossero ed è stato così che
ho incontrato per la prima volta il Jackfruit.
Quando si dice “amore a prima vista”!
La pianta
appartiene al genere Artocarpus, una famiglia di circa sessanta specie di
alberi e arbusti tropicali sempreverdi, di cui la più nota è il Breadfruit o
Albero del pane. Il Jackfruit è una variante meno nota, almeno nella nostra
cultura. La sua origine è asiatica: dalla Thailandia l’albero è stato trapiantato
fino in Brasile dai viaggiatori portoghesi del sedicesimo secolo, anche se
alcune ricerche farebbero risalire la sua primissima coltivazione a seimila
anni fa, in India. La cosa certa è che
il suo nome deriva dal portoghese “jaca”, inglesizzato nel 1563 dal naturalista
Garcia de Orta nel suo affascinante libro “Colòquios dos simples e drogas da
India”. Più tardi, un certo William Jack, un ambizioso botanico scozzese dei
primi dell’Ottocento, restò a sua volta talmente affascinato da questa bizzarra
pianta rinvenuta durante un viaggio in Malesia che millantò la paternità del
nome, Jack appunto.
Nome di
battesimo a parte, il Jackfruit oggi è uno dei tre frutti beneauguranti del
Tamil Nadu - insieme alla banana e al mango – oltre ad essere il frutto nazionale
del Bangladesh. Un’altra curiosità che lega il frutto all’Oriente, arte
culinaria a parte, è che da esso si estrae il colorante giallo utilizzato per
tingere le tonache sacre dei monaci buddhisti.
La sua
lunga storia ha permesso alla pianta di approdare molto lontano dalle terre
d’origine ed è così che anch’io ho potuto scoprirla in Madagascar,
straordinario crocevia di cultura africana e asiatica. Ogni Paese in cui è
arrivata è stato contagiato positivamente dalla sua esuberanza. In Brasile,
paradossalmente, il Jackfruit ha finito per diventare invasivo, soprattutto
nella foresta secondaria del Tijuca, dove piccoli mammiferi come il coati,
essendone golosi, contribuiscono a diffondere a dismisura i suoi semi nel
terreno, alimentando così un’eccessiva espansione della specie vegetale a
scapito di altre.
In
Madagascar, invece, la presenza del Jackfruit è discreta ma generosa e rallegra
la foresta punteggiandola qua e là di queste sfere ovoidali gialle che possono
raggiungere anche il peso di cinquanta chili e un metro di lunghezza ciascuna.
All’olfatto il frutto non risulta immediatamente simpatico, perché l’odore che
emana quando è maturo è prepotente e ricorda un po’ quello aspro e pungente della cipolla. Dev’essere un
trucco che la pianta ha escogitato come naturale difesa verso certi animali.
Toccando il frutto, la prima sensazione è quella di scontrarsi con una
superficie rugosa e coriacea inespugnabile che sembra non promettere granché di
speciale con tutti quei bitorzoli tondeggianti. Invece, la vera sorpresa del
Jackfruit sta proprio nel suo cuore tenero, cosa che avrei scoperto con mio
grande piacere a cena, quella stessa sera.
Anche
grazie al Jackfruit, ho imparato che il vero viaggio non solo vuole nuovi occhi
con cui guardare ma anche una nuova bocca e un nuovo naso con cui sentire
sapori del tutto sconosciuti. Essere curiosi e lasciarsi stupire è
indispensabile per aprire i sensi con disinvoltura a nuove esperienze senza
diffidenza né timore. E questo vale anche a tavola, soprattutto quando ci si
trova lontano da casa.
Prima di
assaporare il misterioso gusto del Jackfruit, ho voluto capire come venisse
ricavata la polpa dalla scorza brufolosa. E ho constatato che il lavoro
d’estrazione non è impresa da poco, anzi somiglia più all’arte fine dello
scultore che a una semplice opera culinaria. Dopo un primo taglio netto che
squarta la sfera ovoidale esattamente a metà, la scavatura deve essere eseguita
da mani esperte, decise ma delicate, di solito femminili. Il cuore carnoso del
frutto si lavora con un coltello flessibile con cui si ricavano decine e decine
di petali, simili a grosse fave o a patatine chipster, dal colore giallo tenue
e lucente. Io li ho mangiati crudi, perché il frutto da cui sono stati ricavati
era maturo al punto giusto. Quando invece il frutto è ancora acerbo o giovane,
la sua polpa viene utilizzata cotta in un’infinità di sfiziose varianti:
bollita, stufata, arrostita, lessata nel latte di cocco, speziata con aromi
agrodolci e piccanti, accompagnata spesso da gamberi o carne di zebù.
La
consistenza del petalo del Jackfruit crudo, così come l’ho assaporata io, è
fibrosa ma cedevole e al primo impatto, che risulta sonoramente croccante sotto
i denti, segue una sdilinquita scioglievolezza sulla lingua che ammutolisce
dalla bontà. Il profumo si percepisce appena, mentre il sapore è garbatamente
dolce e sottile ma non facilmente definibile. Immagino che la timbrica dipenda
dalle papille gustative di ognuno, perché mi è capitato di raccogliere
sensazioni discordanti tra loro da parte di chi, come me, assaggiava per la
prima volta questa prelibatezza. Banana, ananas, mandorla, vaniglia, mela, soia
e persino sapone: questi sono solo alcuni dei sapori che questo frutto titilla
al palato. In realtà, il Jackfruit è semplicemente unico, ridente e sensuale.
Questo è un motivo in più per assaggiarlo, giocando a dare un nome al suo
carattere senza confonderlo con altre unicità del mondo vegetale. La
possibilità ci sarebbe anche qui in Italia, poiché lo si può trovare, anche se
raramente, in qualche mercato etnico particolarmente curato. Un delitto,
invece, sarebbe provarlo in scatola, sciroppato, tostato o essiccato, come mi è
capitato di vedere in certe drogherie nel centro di Roma e Milano. Non solo il
Jackfruit inscatolato perde il suo fascino esotico ma s’impoverisce anche delle
virtù intrinseche, visto che non è solo bello ma anche sano. Il Jackfruit è,
infatti, una ricca fonte di vitamina B1, B2 e potassio, con un concentrato
minimo di grassi e massimo di carboidrati.
Quindi, se
possibile, meglio raggiungerlo e gustarlo laddove naturalmente prospera. E per
completare l’elogio del goloso frutto, aggiungo infine che se il Jackfruit mi
ha stuzzicato vista, tatto, olfatto e gusto è riuscito a sorprendere anche
l’udito. Il legno dell’albero viene, infatti, impiegato nella costruzione di
strumenti musicali dalle sonorità morbide e sensuali che hanno spesso animato i
tramonti infuocati di un Madagascar per me indimenticabile, in tutti i sensi.
Indimenticabile
anche grazie a quel giallo sole, odoroso e saporito, che spunta qua e là nella
lussureggiante foresta di Lokobe.
Paola Cerana blog
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Si tratta di un " museo vivente ", un " santuario della
natura ", un piccolo continente che concentra 12.000 specie di
piante e 1.000 specie di vertebrati , mammiferi , rettili, anfibi e uccelli che
sono endemiche.
Una natura superba, mare splendido che, in alcuni punti,
raggiunge i colori e le trasparenze delle Maldive, un verde della foresta così
intenso che quasi abbaglia.
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