Una battuta di pesca alla traina, in
Madagascar. Si parte. I pesci, attirati in superficie dalle acque più tiepide,
abbandonano i fondali abboccando con una facilità impressionante. Un paio di
colpi decisi sulla testa e il delitto è compiuto
Sono le 8 in punto del 30 giugno, quando
lasciamo la spiaggia di Nosy Be, sulla costa nord occidentale del Madagascar.
Una lieve brezza e un sole già caldo promettono una navigazione piacevole,
anticipata da una bassa marea quasi surreale che ci costringe a raggiungere la
barca a piedi, schivando le tane dei granchi nascosti sotto la sabbia umida.
Mio figlio Gabriele e io stiamo partendo
per una battuta di pesca alla traina, accompagnati da tre guide malgascie,
insieme ad altri due appassionati pescatori italiani. L’unica nota stonata
nell’equipaggio sono io, poiché mi accingo ad affrontare un’impresa quanto mai
estranea ai miei principi animalisti. Ma l’amore di madre e l’indomito spirito
d’avventura mi convincono a trascorrere l’intera giornata in alto mare, tra
squali, marlin e chissà che altro.
Si parte: i due potenti motori impennano
l’imbarcazione lasciando una coda bianca, densa e vaporosa, che si sguinzaglia
tra noi e la spiaggia. Stiamo per imboccare il Canale di Mozambico cavalcando
onde dapprima dolci, poi animate da una crescente prepotenza, troppa per i miei
gusti, ma la bellezza dei colori e il fascino di quel nulla all’orizzonte
rapiscono i miei sensi facendomi sentire un’esploratrice a caccia di approdi
sconosciuti.
Qui, le acque sono miti tutto l’anno, grazie
all’impatto normalmente lieve dei venti, anche se uragani e cicloni non sono
del tutto estranei, soprattutto nei primi mesi dell’anno. Da gennaio a marzo,
infatti, le piogge frequenti e abbondanti abbassano di qualche grado la
temperatura, favorendo giochi d’aria improvvisi e talvolta violenti,
condizionando così anche l’umore del mare. E’ il periodo prediletto dagli
esperti pescatori, perché i pesci, attirati in superficie dalle acque più
tiepide, abbandonano i fondali abboccando con una facilità impressionante.
Oltre ai tipici pesci mediterranei di
grossa taglia, questo tratto di Oceano Indiano è particolarmente ricco di pesci
capitano, pesci spada, pesci napoleone, marlin, pesci vela, nonché squali,
testuggini, delfini e balene, che proprio durante l’estate raggiungono il
Canale per partorire e svezzare i piccoli. Sarebbe un’emozione avvistarle,
almeno per me, ma gli altri naviganti sono molto più interessati alla battuta
di pesca che a una riflessione poetica della vita.
La loro impazienza, prima tra tutti
quella di mio figlio, è palpabile e dopo quasi due ore d’inutile navigazione a
caccia di uccelli che indichino la presenza dei pesci, l’entusiasmo iniziale
sembra spegnersi nella frustrazione. Niente uccelli, niente pesci! Ma il motto
malgascio, sia in terra sia in mare, è “mora-mora”, ovvero calma e pazienza:
senza fretta, con calma, si ottiene sempre tutto. Un po’ difficile da
assimilare per noi europei sempre alla rincorsa del tempo ma con un po’
d’addestramento anche i nostri spiriti frenetici possono essere educati al
piacere dell’attesa.
Certo, in questo caso le onde insistenti
non conciliano la quiete e tanto meno il mio stomaco urbano ma un pensiero
sembra venirmi in soccorso e mi porta per un attimo lontano dagli sguardi dei
pescatori puntati sull’orizzonte agitato. Da qualche parte avevo letto di un
filosofo, lo scettico Pirrone, che trovatosi a bordo di una barca durante una
burrasca notò, in mezzo ai viaggiatori terrorizzati, un maialino che con
porcina serenità d’animo mirava imperturbabile la tempesta.
Così, il filosofo indicò il suino agli
umani, come esempio di saggezza da seguire per affrontare la navigazione senza
panico e inutile spreco di energie.
Ecco che nel mezzo di questo strambo
pensiero volto al controllo delle mie viscere, una forza improvvisa strattona
la lenza di una delle canne da pesca. I quattro pescatori s’infiammano e le
acque paiono d’un tratto placarsi, quasi a facilitare la potenziale cattura.
A Gabriele è lasciato il privilegio del
primo tentativo che, dopo qualche minuto di lotta, si conclude con la conquista
di un bel barracuda. La soddisfazione negli occhi di mio figlio mi crea un
conflitto interiore che inghiotto in silenzio, accentuato dal fatto che quel
povero pesce rubato alla vita sarà subito sacrificato come esca, anziché
conservato come bottino.
Non è per catturare pesci così piccoli,
infatti, che siamo qui, quindi si prosegue in cerca di creature più grosse,
segnalate finalmente dai gabbiani che danzano in circolo su uno specchio di
mare poco lontano.
Mora-mora, ci avviciniamo al punto
cruciale e mentre i pescatori infilano le canne nella pettorina esasperando
inconsapevolmente la propria virilità, io impugno la macchina fotografica,
frapponendo così un’illusoria distanza tra la mia coscienza e il massacro che
verrà.
Due lenze nutrite da due pezzi di
barracuda vengono contemporaneamente messe in moto. Non si tratta di pesci di
poco calibro ora, tutto fa presagire la cattura di un paio di grossi pesci
vela, le prede più ambite in questo mare. Il pesce vela è un marlin
morfologicamente simile al pesce spada, ha un corpo affusolato con una coda
bilobata e ha una spada appuntita con cui stordisce le prede di cui si ciba, di
solito piccoli bonito.
Il suo nome gli deriva dalla pinna
dorsale che può misurare anche un metro e mezzo di lunghezza, il doppio del
corpo, dalla foggia di un ventaglio frastagliato che spesso si avvista fuori
dall’acqua, ricordando certe pittoresche creature preistoriche. E’ un pesce
bellissimo, un delitto ucciderlo: ha una livrea bruna con il ventre più chiaro
e le striature iridescenti lungo tutto il corpo sfumano dal verde al viola a
seconda del suo stato d’animo, essendo un pesce umorale, si dice.
Beh, quello che Gabriele, dopo alcuni
minuti di appassionata battaglia, riesce a catturare, dev’essere di umore nero,
perché non appena trascinato sulla barca ormai stremato, il suo bel verde
smeraldo puntinato di viola appassisce all’istante in un plumbeo mantello
opaco. Un paio di colpi decisi sulla testa e il delitto è compiuto, spegnendo
per sempre la natura combattiva della creatura vinta dall’inganno umano.
Non so come Gabriele sia riuscito con le
sue sole forze a trainare un essere così possente. Certamente è merito della
destrezza e di un’istintiva sensibilità che sin da piccolo ha coltivato a casa
con i pesci d’acqua dolce, anche se questa è un’impresa di ben altra portata.
Occorre, infatti, entrare in comunicazione con un pesce tanto tenace attraverso
la resistenza della lenza, per dosare forza e pazienza e lasciare che la
creatura si stanchi lentamente senza concederle lo scatto della fuga
improvvisa.
Questo sarà solo il primo di quattro
pesci vela catturati anche dagli altri pescatori, il più grande con i suoi 40
chili soppesati dall’occhio esperto dei ragazzi malgasci, mentre un altro più riottoso
sfuggirà alla presa, graziato forse dai miei taciti scongiuri. La pesca si
concluderà con una bella lampuga, anch’essa dai colori iridescenti che
ricordano il turchese delle acque più incontaminate. Un’altra elegante preda
che tuttavia sfigura accanto a quei quattro enormi pesci vela ormai esanimi e
senza più colore.
Il senso del tempo è nebuloso in alto
mare, senza riferimenti visivi è difficile valutare quanta distanza si sia
percorsa ma è quasi ora di tornare, lo dicono il sole pomeridiano e la stanchezza
che fa da coda all’eccitazione. Il mare nel frattempo s’è acquietato del tutto
e il nostro rientro è allietato per una buona mezz’ora da un banco di delfini
che sembrano giocare, facendo a gara con l’imbarcazione a chi va più veloce.
Almeno loro qui non vengono braccati e possono considerarsi nostri prediletti
alleati, avvicinandoci senza timore.
Guardandoli così liberi e guizzanti,
recupero una nuova serenità, fiduciosa che un giorno anche Gabriele sentirà
sbocciare dentro di sé la stessa coscienza che anima me. Cogliendo la sua
espressione ancora carica di orgoglio per l’eroica impresa, mi auguro che
crescendo impari a sentirsi altrettanto fiero semplicemente contemplando gli
animali, senza trasformarli in inutili trofei.
Spero che capisca che la sregolatezza
degli appetiti umani ha superato le esigenze della sazietà, trasformandoci
spesso in presuntuosi ingordi incapaci di nutrirci della sola bellezza della
Natura.
Capire questo sarà per lui la conquista
più importante e, forse, più difficile della sua vita.
Fonte: www.teatronaturale.it
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