mercoledì 19 febbraio 2014

All’ospedale di Henintsoa

Abbiamo lavorato molto: in tre settimane abbiamo trattato un centinaio di persone, tra cui molti bambini. Malattie infettive, parassitarie, malaria Comunque era pesante essere sempre di servizio, giorno e notte, e lavorare a temperature infernali.
Abbiamo anche operato più di quaranta persone, tra cui dodici cesarei d’urgenza: a volte anche due in una sola notte!!
L’ospedale di Henintsoa si trova a Vohipeno, nel sud est dell’isola, nella provincia di Fianarantsoa. Serve una popolazione di 500.000 abitanti in una zona rurale di 50 kmq priva di assistenza sanitaria.
L’ospedale è una piccola struttura di 50 posti letto con chirurgia, maternità, pediatria, radiologia ed ecografia e ambulatorio di primo intervento.
Il personale è malgascio, le équipe chirurgiche tutte composte di volontari italiani, sono inviate dall’ONLUS torinese “ANEMON”.
Abbiamo lavorato molto: in tre settimane abbiamo trattato un centinaio di persone, tra cui molti bambini. Malattie infettive, parassitarie, malaria Comunque era pesante essere sempre di servizio, giorno e notte, e lavorare a temperature infernali.
Abbiamo anche operato più di quaranta persone, tra cui dodici cesarei d’urgenza: a volte anche due in una sola notte!!
PROLOGO: IL VIAGGIO
Siamo tornati in Madagascar! Una equipe non è riuscita a partire per problemi personali e noi ( io, Vittorio Militi urologo, Ermanno Di Meo chirurgo e Daniele Fiducioso anestesista) riempiamo il buco.
Come ricordavo, il viaggio è eterno!
Oltre 12 ore di aereo, coda biblica per il visto, sosta notturna a Tanà (Antananarivo, la capitale) presso la casa delle Piccole Sorelle della Misericordia, dove si arriva a tarda notte. Sveglia dopo 4 ore di sonno e si riparte per due giorni di auto!!
Il panorama degli altopiani è strano: colline con prati e conifere tipo Svizzera e il verde tenero delle risaie che occupano tutti i fondo valle, con terrazze dall’aspetto decisamente asiatico!
Al termine del primo giorno, quando eravamo ancora sugli altopiani, si scatena un nubifragio che ci costringe a fermarci lungo la strada, squassati dal vento e flagellati da una poggia battente. Dopo un bel po’ ci rimettiamo in cammino, ma ,scendendo verso la foresta pluviale di Ranomafana, ci accoglie una fitta nebbia causata dall’abbassarsi della temperatura. Fortunatamente arriviamo ad un alberghetto, dove facciamo sosta e ceniamo.
Il giorno seguente è tutta un’altra faccenda: sole scintillante,fiume gonfio di pioggia,temperatura mite…L’ideale per un giro nella foresta alla ricerca dei lemuri,scivolando sulle foglie bagnate e schivando sanguisughe e ragni giganti…
Il viaggio prosegue fino a Manakara: a una quarantina di chilometri dalla cittadina, la conifera di guardia  lungo la strada ci segnala la pista per l’ospedale e finalmente, nel tardo pomeriggio, arriviamo ad Henintsoa.

Siamo un po’ sfatti: dopo i saluti di rito, scarichiamo i bagagli, rapida doccia, cena con padre Cento e alle nove di sera crolliamo a letto a dormire.

VITA IN WILDERNESS
Tutto, qui in Madagascar, diventa un cimento di coraggio, anche le cose più banali.
Già andare in bagno crea qualche ansia: a parte i rumori degli uccelli della vicina foresta e dei pennuti domestici che circondano la casa e che ti assordano con schiamazzi, devi superare l’inquietudine causata da sinistri ronzii, più vicino ad un rumore di scooter che ad un suono animale, emessi da vespe e calabroni. Questi sono invisibili, ma hai la sensazione che il ronzio sia emesso all’interno del bagno! A ciò si associa, in sottofondo, il rumore di potenti mandibole che rosicchiano le travi del tetto! In realtà grossi insetti non se ne vedono, ma la tranquillità è un’altra cosa! Anche perché spesso non c’è luce e si fa la doccia in penombra o a lume di candela..
Il bagno, a parte l’illuminazione, è decente: doccia e servizi di tipo occidentale, che teniamo rigorosamente puliti. In più, alla sera, se c’è stato il sole, abbiamo anche la doccia calda!!
Anche le cene con padre Cento si trasformano in imprese mitiche: lui soffre il caldo e spalanca la porta per fare corrente.
Le finestre hanno le zanzariere molto rotte e  permettono l’ingresso a grossi coleotteri volanti, che non sono intimiditi né dalla luce, né dai gechi sul muro, e neppure dal gatto che si introduce furtivo dalla porta. Non ci resta che abbattere i più fastidiosi a zoccolate, subendo l’ironia di padre Cento, che in quarant’anni ci ha fatto l’abitudine!
Inoltre ci fa notare come questi grossi scarafaggi facciano parte della farmacopea tradizionale e che si utilizza un decotto di otto animaletti come rimedio contro il tetano!! Anche se ci sembra strano, tale usanza ci viene confermata anche da suor Lea, che ne garantisce il buon risultato!

Alla sera, dopo il lavoro, andiamo spesso a camminare. Per fortuna in Madagascar non ci sono animali velenosi ….Anche se una inserviente dell’ospedale è stata azzannata da un coccodrillo, mentre si lavava nel fiume di Vohipeno!!!
Se stai lontano dal fiume si può camminare senza preoccupazioni, tranne quelle relative ai guidatori temerari, se cammini sulla  strada. I guidatori malgasci infatti credono che basti suonare per sgomberare magicamente la strada da passanti, polli, veicoli vari, ecc..
La distanza dall’ospedale al paese di Vohipeno è di circa tre kilometri, un po’ meno se si passa dal sentiero tra le risaie, quindi preferiamo questa via, anche se ti espone al rischio delle zanzare e a quello di scivolare dai ponticelli delle risaie .
Qualcuno di noi, non fidandosi dei tronchi a disposizione, preferisce fare lunghi giri sui bordi di terra…sprofondando comunque nella risaia! 

TIPI MALGASCI
Gli abitanti del Madagascar non sembrano del tutto africani: infatti sono un misto fra asiatici (malesi e cinesi), indiani, e africani. Molti hanno gli zigomi sporgenti e gli occhi a mandorla degli antenati asiatici.
Molti hanno i capelli crespi, che le donne raccolgono in treccine all’uso africano: tuttavia qui le treccine vengono poi raccolte in due trecce più grosse ai lati della testa, su cui si appoggia il cappello di paglia. Le bambine invece le raccolgono in una unica treccia posteriore e la maggioranza  non portano cappello.
Alcuni però, hanno i capelli lisci e neri, di cui le donne vanno fiere, curano molto e raccolgono un spesse trecce che vengono orgogliosamente esibite sulla schiena.
La maggioranza degli uomini veste all’occidentale con magliette e pantaloncini, mentre le donne spesso portano magliette o camicie indossate su ampie gonne tradizionali fatte annodando stoffe colorate.
Purtroppo la maggior parte della popolazione è molto povera ed ha pochi abiti, per cui spesso i colori dei vestiti si riducono ad un monotono e triste grigio polvere.
Per sposarti devi pagare la moglie in zebù, da dare alla famiglia paterna. Pertanto il futuro sposo deve lavorare come un mulo per guadagnare i soldi da sperperare in zebù. Pagato il prezzo ti porti via la sposa, che viene accolta nella nuova famiglia.  Se il marito muore, la famiglia, se vuole, si tiene i figli e rispedisce la moglie alla sua vecchia casa, dove farà la serva di tutti…
Anche le usanze funebri sono diverse da quelle africane: seppelliscono i morti in tombe nei campi. Dopo tre o cinque anni tirano fuori il defunto, ricompongono i resti,  gli fan fare un bel giro per il paese, e lo rimettono al suo posto con una grande festa.
Tutto questo costa alla famiglia un certo numero di zebù, che vengono immolati e mangiati da tutto il paese. A volte i familiari devono lavorare un bel po’, per racimolare gli zebù necessari!

IL LAVORO
In effetti i malgasci lavorano molto, anche perché qui al sud l’unica forza lavoro conosciuta è la loro: la gente tira i carretti, trasporta pesi enormi sulla schiena, percorrono lunghe distanze a piedi…gli zebù non fanno nulla!
In genere le donne coltivano un po’ di terra, i bambini badano agli zebù, mentre gli uomini pensano alle risaie, che rappresentano il centro della loro vita: la loro alimentazione infatti, si basa sul riso, che viene consumato in grandi quantità. Poiché ad esso non associano proteine (vendono le uova per procurarsi altro riso!) spesso la popolazione, in particolare i bimbi, soffre di malnutrizione…

Anche noi abbiamo lavorato molto: in tre settimane abbiamo trattato un centinaio di persone, tra cui molti bambini. Malattie infettive, parassitarie, malaria imperversavano. Ma anche cose strane: abbiamo salvato a stento una bimba di due anni che aveva mangiato mezzo pacchetto di topicida! Oppure un bimbo che ci è arrivato in coma , per una malaria cerebrale, per cui abbiamo penato per una settimana…
Abbiamo anche operato più di quaranta persone, tra cui dodici cesarei d’urgenza: a volte anche due in una sola notte!! Mi ha impressionato la giovane età di molte mamme: dodici-quattordici anni!
I medici locali, un internista-anestesista ed una ostetrica, non si stupivano molto: sorridevano piuttosto del nostro stupore!
Alcuni interventi, non pochi, sono stati fatti per patologie neoplastiche, che qui , al sud del Madagascar, sono insolitamente alte! Molto di più che nell’Africa continentale. Chissà come mai? Ereditarietà, inquinamento?
Comunque era pesante essere sempre di servizio, giorno e notte, e lavorare a temperature infernali. Però noi, alla domenica, ci siamo presi due mezze giornate di festa, i due Colleghi malgasci non staccavano mai! Trecentosessantacinque giorni all’anno!...Sono ammirato della loro resistenza


IL SORRISO DI ANITA
Quando siamo arrivati all’ospedale di Henintsoa, in Madagascar, vi abbiamo trovato alcuni pazienti operati dall’equipe precedente. Fra questi vi era anche Anita, una ragazza di 18 anni, operata per una peritonite da perforazione uterina.
Era malnutrita e depressa e non si muoveva più dal letto e dovevamo farle delle medicazioni dolorose.  Le prime le facevamo in anestesia generale a causa del dolore, e abbiamo cercato di convincerla a mangiare e a muoversi.
Aveva paura delle medicazioni, che le provocavano dolore, ma presto ha capito che medicarla faceva star male anche noi, che partecipavamo al suo dolore,  ma che lo facevamo per il suo bene. Così, con grande coraggio, ha iniziato a reagire e a mangiare, ed ha cominciato a sorridere.
Si avvicinava la nostra partenza ed avevo lasciato  fare le medicazioni al medico locale che era bravo e delicato ed avrebbe poi proseguito: io, negli ultimi giorni, mi limitavo a tenerle la mano.
La mattina del giorno di partenza, mentre stavamo ammucchiando i bagagli davanti alla porta della nostra abitazione, vedo arrivare Anita al braccio della madre, che lentamente saliva la strada che ci separava dall’ospedale. Nonostante il male era venuta a salutarci e a regalarci un ultimo sorriso.
Un sorriso che ci ha accompagnato durante tutto il lungo viaggio di ritorno ed oltre… Grazie Anita.
Fonte: mediciinafrica.it
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