“ Fa bene al sesso”, “cura
tutte le malattie”, dicono nei bar di provincia nel Sud d’Italia e del
Mondo, dall’India alla Calabria, dalla Cina all’Abruzzo, dal Messico alla
Spagna, da Cuba al Brasile (e ora ovviamente nei più balordi siti di Internet),
i religionari del piccante, coloro che seguendo i
mangiatori dozzinali Mao Tse Tung e Che Guevara (per i quali “il piccante è
rivoluzionario”) in cuor loro si sentono eroi del dolore “virile” (perché
questo, sotto sotto, è il problema…), quello da bruciore, proprio come i Cinesi
amano (e patiscono per questo i tumori a bocca ed esofago) oltre al piccante
anche il bollente (tè e zuppe, ma anche semplice acqua bollente) che fanno
soffrire “ma temprano”. Sono i sostenitori fanatici autonominatisi “esperti”
del peperoncino piccante, capaci anche se non sanno leggere e interpretare uno
studio e odiano la scienza, di scrivere perfino opuscoli e “libri” che ne
elencano senza il minimo senso critico mirabolanti proprietà, sempre ignorando
o tacendo sui suoi effetti secondari gravi. E’ un fanatismo, una religione.
Piace a tutti, certo,
insaporire con un sapore deciso un piatto evidentemente scondito. Ma perché era
scondito? Questo è un altro punto da sottolineare: non si usano per ignoranza e
insensibilità le tante erbe aromatiche e i tanti sapori delicati offerti dalla Natura, e si preferisce
coprire tutto con un solo sapore pungente, rozzo e invadente che fotografa in
modo impietoso la mancanza di gusto e raffinatezza del cuoco. Fateci caso: i
grandi utilizzatori del piccante in genere non capiscono nulla di gastronomia,
sono gente di bocca buona. Il piccante anestetizza la
lingua e il gusto.
Nonostante le
superstizioni del popolino risalenti ai tempi degli Antichi, quando i tanti
poveri invidiavano il pepe dei pochissimi ricchi, il piccante ha sempre un
valore biologico negativo. Alla luce dell’ecologia e dell’evoluzione, il sapore piccante è interpretato come
un segnale di pericolo da parte della Natura, un avvertimento della
specie al predatore (e l’uomo, tanto più se vegetariano o naturista, dopo gli
animali erbivori è il “predatore” per antonomasia di vegetali), proprio come
gli aculei d’un istrice o le affilate unghie d’un gatto dovrebbero dissuadere i
loro attaccanti carnivori. La differenza è che il piccante “avverte” in tempo
il predatore: si pensi ai tanti funghi velenosi di sapore piccante.
E che il peperoncino
possa non solo far bene (è, tra l’altro, antidolorifico e mucocinetico), ma
anche far male, non è frutto di chissà quali revisionismi anti-Natura di oggi:
è ingenuo, sottoculturale e anti-naturista idealizzare la Natura come “buona”
in ogni caso, come ben sapeva il saggio Socrate mentre beveva la cicuta. Del
resto la selezione dei cibi tra tutti
quelli possibili, spezie comprese, è interamente opera dell’Uomo. Già nel mio Manuale di Terapie con gli
Alimenti (1995) sulla base
di numerosi studi, anche di ricercatori indiani, che di piccante s’intendono e
vedono ogni giorno numerosissimi cancri alla bocca, allo stomaco e al fegato
(l’Estremo Oriente è primo al Mondo!) si poneva il problema dei danni da cibi piccanti.
Come, p.es, lo studio di oncologi di Bombay (India) sui topi, il quale
evidenzia che «chilli acts as
a promoter in stomach and liver carcinogenesis», cioè il peperoncino agisce come un
promotore della carcinogenesi in stomaco e fegato (Agrawal et al.), lo studio
di Toth e coll. che avevano osservato tumori duodenali in animali trattati con
capsaicina, e lo studio degli indiani Chitra e coll.
Un problema dibattuto
è se aumenti o diminuisca il rischio ulcera gastrica, e irriti o lesioni fegato
e reni. Su questo ci sono studi con esiti diversi: alcuni (Myers e coll). hanno
documentato danni al DNA e sanguinamenti nello stomaco simili a quelli ottenuti
con l’aspirina; altri dopo un pasto “messicano” con 30 g di peperoncino
jalapeño in 12 volontari non hanno visto erosioni allo stomaco (Graham e
coll.). Del resto, tutte le spezie se usate in eccesso, cronicamente e insieme
tra loro (il che spesso amplifica gli effetti, positivi e negativi), danno
rischi. Come la yaji,
popolare salsa ricca di spezie (peperoncino, pepe nero, chiodo di garofano e
zenzero) usata quotidianamente in Nigeria, che ha fatto mettere le mani nei
capelli ai biopatologi nigeriani in uno studio che riporta il maggior rischio
di necrosi del fegato (Nwaopara e coll.) e altri danni tra cui una potente
reazione immunitaria, infiammazioni, e nei casi più gravi nefropatie, lesioni
cutanee, fibrosi, cirrosi epatica (A.A. Eddy). Ma sono evidentemente, come
nella dieta di alcuni strati popolari urbani in Asia e Africa, casi legati ad
alimentazione carente di cibi antiossidanti, poco o nulla riferibili alla
nostra alimentazione. Però denunciano quello che potrebbero fare le
spezie se assunte in modo sbagliato e in diete sbagliate, come può accadere
anche da noi in anziani, malati, giovani, soggetti culturalmente isolati ed
emarginati. Più vicini a noi i rischi di irritazione e infiammazione nell’ultimo tratto intestinale e ancor più alle vie urinarie, e talvolta – nei
casi di abusi prolungati – con maggior rischio di prostatite (la prostata è molto sensibile alle spezie
irritanti) e perfino, a lungo andare, di tumore della prostata.
Il pungente
peperoncino aiuta come efficace mucocinetico a eliminare il catarro bronchiale, ma intanto
provoca quel sintomo leggero e passeggero chiamato ialoproctite (bruciore anale). Per uso topico, cosparso in
soluzione oleosa sulla parte dolorante, è un potente antidolorifico (infatti era presente nel rimpianto “Linimento
Sloan”), perché interrompe la trasmissione del dolore attraverso le fibre
nervose periferiche C (ma in alcuni casi agisce perfino sui neuroni centrali,
ha provato la rivista Pain),
attutendo o facendo cessare dolori e pruriti post-erpetici che magari duravano
da anni (“fuoco di S.Antonio” o herpes zoster).
Ma in individui e
diete a rischio può provocare nuovi e gravissimi dolori, quelli da tumori della bocca, della gola, dell’esofago
ecc. Vale la pena abusarne? No, decisamente no. E talvolta non vale neanche
la pena usarne. Ai primi problemi, ai primi sintomi anomali, meglio smettere
del tutto, e ricorrere semmai ad altre spezie. Oltretutto il peperoncino ha
sapore, ma non ha odore. Che per una spezia non è il massimo.
''Il peperoncino –
spiega il prof. Vincenzo Mirone, presidente della SIU (Società Italiana di
Urologia) – usato spesso come Viagra dei poveri, non deve essere consumato in
eccesso, se si vogliono evitare guai e rischi di tumore alla prostata. Un uso sconsiderato
infatti infiamma la ghiandola, stimolando il desiderio nell'uomo da una parte,
ma facendo venire anche la prostatite, legata ai tumori, così come dimostrano
gli ultimi studi scientifici'' (Giornata europea di informazione sulle
malattie della prostata. Ansa, 12 settembre 2007). E il tumore della
prostata è la principale causa di morte per tumore nella popolazione maschile,
dopo quello al polmone. “Il peperoncino non va consumato
più di due volte a settimana", raccomanda l'esperto. "Una notizia,
questa – commenta con ironia il prof. Franco Cuccurullo, presidente del
Consiglio Superiore di Sanità e rettore dell'Università di Chieti – che in
molte Regioni del Meridione potrebbe condurre alla pubblica lapidazione chi le
diffonde. Ma non bisogna avere paura di dire la verità quando di mezzo c'è la
salute". Perciò occorre maggiore divulgazione: “Al sud – ha ricordato – si fa un uso smodato di
peperoncino. Dobbiamo dire a tutti che non è senza conseguenze”(Agi, 12 settembre
2007).
E il prof. Fabrizio
Iacono, urologo dell’università «Federico II» di Napoli, conferma: «I cibi
piccanti, contrariamente ai luoghi comuni sul loro valore afrodisiaco, sono da
evitare perché creano infiammazione» (interv. M. Pappagallo, Corr. Sera. 20
agosto 2012). E soprattutto «Il peperoncino abbinato a un superalcolico
potrebbe essere causa di défaillance
imbarazzanti: o nulla o troppa velocità (eiaculatio praecox)».
Insomma, lavox populi e
tutti gli opuscoli e articoletti sul web e i dépliant del Capsor sbagliano. E
meno male che Iacono, Mirone e Cuccurullo sono tutti uomini di scienza meridionali! Essendo intelligenti prendono le distanze
dalle superstizioni tipiche del Sud.
Triste parabola del
piccante. Un tempo il pepe, altra spezia utile ma irritante, importato via
Samarcanda da Giava e Malabar, era un costosissimo condimento da Re. Nei
forzieri del Tesoro pubblico dell'antica Roma imperiale c'erano sacchi di pepe,
come se fosse oro, per tacere degli Horrea
piperataria. Per millenni i
poveri hanno invidiato ai ricchi due sapori che non potevano facilmente avere:
il dolce e il piccante. Ma il secondo è il più raro in Natura. Grazie a
Cristoforo Colombo che lo importò dall'America, col peperoncino, che è
economicissimo e cresce dappertutto, anche sul davanzale d’una finestra,
finalmente anche i poveri potevano conoscere il sapore piccante. E si sentirono
tutti Re.
Ma nel piccante c'è il
tranello. Già il sapore dovrebbe mettere sull’avviso. Il piccante, come
l’amaro, in una visione evoluzionistica dei rapporti trofici tra animali e
piante, è considerato una allarme. Nella lotta incessante tra piante e animali
predatori, la Natura sembra “difendere” le piante con pesticidi antibiotici o
antinutritivi o fitormonali o comunque tossici, che allontanano o puniscono la
specie degli invasori. Ma che pensare d’un veleno di difesa che
"tradisce" la specie vegetale che dovrebbe difendere facendosi
"scoprire" per il suo sapore piccante? Gli etologi e gli entomologi
ci diranno se insetti e bruchi siano in grado di percepire il piccante. E i
predatori mammiferi? E l’Uomo, che a differenza degli animali, consumatori
eventuali e casuali, ne è talvolta un grande consumatore? Quel che è certo, è
che gli uccelli non sentono il piccante del peperoncino, e infatti hanno
contribuito mangiandone le bacche a diffonderne i semi in varie parti del
mondo.
Dopo la pubblicazione
del mio "Manuale di terapie con gli alimenti" della
Mondadori, distrutto dallo stress e ancora timoroso su come un librone di 760
pagine, con 3200 riferimenti scientifici (una cosa che neanche esisteva nelle
università Usa, figuriamoci in quelle italiane), sarebbe stato accolto dal
largo pubblico italiano, mi rinfrancai solo grazie ad una commovente lettera
d'un anziano di 80 anni che mi ringraziava come se io fossi stato un
taumaturgo. Il poveretto soffriva da 10 anni di herpes zoster ("fuoco di
S.Antonio") con dolori lancinanti e-o prurito. Sul mio libro aveva letto,
alla voce "Dolore" lo studio con cui i ricercatori avevano provato
che la capsaicina – il principio attivo pungente del peperoncino – attraverso la sostanza P riesce, in un
complesso meccanismo d'azione, a interrompere la trasmissione del dolore. Il vecchio si era fatto da sé o aveva
commissionato in farmacia, seguendo le indicazioni del mio libro, un "olio
al peperoncino" non molto diverso da quello per uso alimentare, lo aveva
spalmato sulla parte dolorante, massaggiando bene. E, riferiva che per la prima
volta in 10 anni il dolore e il prurito erano del tutto scomparsi.
Oltre questo uso
"topico", locale, l'uso alimentare è ben noto. Porta vantaggi, come una capacità mucocinetica, ovvero tale da
umidificare l'albero respiratorio ed espellere il muco. Alle volte, quando si è
un po' raffreddati e intasati, un brodo piccante con peperoncino ci fa bene. Ed ha anche un’azione antiossidante. Ho letto studi che lo
considerano addirittura anticancro, ma evidentemente in organi diversi da quelli
di cui stiamo parlando. Ha anche un curioso effetto paradosso: secondo alcuni,
stimolando a reagire la mucosa gastrica (“reazione adattativa”), come dire,
ipotonica, in alcuni casi potrebbe aumentare perfino le difese anti-ulcera. Ho
proprio letto così in un lontano studio, e perciò ho inserito questa proprietà
difensiva nella voce "Peperoncino" dell’enciclopedico manuale Alimentazione
Naturale.
Ma alcuni studi più
recenti su giovani volontari sani consumatori della tipica "pizza di New
York" tanto di moda tra i latinos, perché al peperoncino piccante
messicano "jalapeno", hanno evidenziato preoccupanti microlesioni a livello dello
stomaco.
In epidemiologia, poi,
sono dolori. E’ ormai super-provato che i popoli dell’estremo Oriente, forti
consumatori di peperoncino, pepe e altre droghe molto piccanti (e tra i vari
cibi piccanti, come pepe e peperoncino, sono analoghi i pregi, i difetti e i
meccanismi d'azione, al contrario di quanto crede la gente), hanno un maggior rischio di tumori al naso, alla bocca,
alla laringe e all'esofago.
Quindi il sapore piccante, di per sé, è una spia di
cibo potenzialmente tossico, che solo una dieta antiossidante ricca di
verdure e frutta può neutralizzare e consentire, entro certi limiti (es: una dieta naturale
all’antica). Basti pensare ai tanti funghi piccanti, stupidamente
ricercatissimi e a caro prezzo, proprio nelle stesse province in cui si eccede
in peperoncino, tutti velenosi, poco, molto o
moltissimo (alcuni potenzialmente mortali: dipende dalla quantità e ripetizione
del pasto, perché la tossina si accumula), da Lactarius acerrimus, il fungo “asquant” del Barese,
a L. piperatus, in Calabria essiccato e
polverizzato come se fosse peperoncino, alle russole piccanti, come R. emetica o peperino.
Così come sono tossici
molti altri composti naturali anche poco piccanti, come gli
indolo-glucosinolati delle Brassicacee (rucola, ravanello, rafano, broccoli,
crescione, rapa, broccoletti di rapa, ecc.), che proprio grazie alla loro
tossicità spingono addirittura all’apoptosi o suicidio programmato le cellule
cancerose. La Natura ha tanti, apparenti contrasti: in questo caso “chiodo
scaccia chiodo”.
Fatto sta, e tutti i
medici urologi lo sanno, che molti, anche in Italia, dopo aver ripetutamente
consumato cibi ricchi di peperoncino manifestano bruciore e perfino difficoltà
alla minzione, o minzioni ripetute (stranguria, come l’eccesso di
crescione, in cui però prevale l’effetto anticancro dei tiocianati), o la già
detta ialoproctite, caratteristico bruciore anale alla defecazione.
Ma il maggior rischio
di cancro da spezie piccanti degli Orientali va interpretato con intelligenza.
Quei popoli per ragioni igieniche consumano di rado verdure crude (protettive
delle alte vie digestive) e poco o niente latte (tranne che in India),
anch’esso protettivo. E per di più hanno una dieta complessiva ad alto rischio,
perché insieme col piccante ingeriscono ogni giorno per tutta la vita anche una
quantità di salsa di soia, cibi affumicati o sotto sale (presenza del radicale
N-nitroso, quindi nitrosamine, e poi muffe, aflatossine e altre sostanze
cancerogene). Il piccante in eccesso, in quel contesto a rischio, è la
ciliegina sulla torta.
Da noi, in Europa e specialmente
in Italia, dove il piccante è meno frequente per l’idiosincrasia di casalinghe
e cuochi verso le spezie, e comunque il peperoncino viene tamponato dalla
tipica abbondanza di verdure, frutti
crudi, latte e latticini, il rischio è di gran lunga minore. Tanto
che, ma solo in rari casi, potrebbero prevalere i vantaggi del dannatissimo
"pepe rosso" o "della Cayenna", imitazione popolare del
pepe dei Re. Ma non in paesini e regioni dove il peperoncino è talmente diffuso
nella dieta da essere diventato ormai un condimento quotidiano, anzi, una sorta
di emblema abusivo del mangiar bene e della buona salute.
In ogni caso, prudenza
e molta moderazione con questi "veleni naturali". Non fatevi
convincere da certi opuscoli di esaltati, come capitò a me da giovanissimo,
quando spargevo peperoncino su tutte le pietanze, a pranzo e a cena. Non
imitate i montanari calabresi della leggenda che mangiavano il peperoncino
piccantissimo (“diavolicchiu”) a morsi, accompagnandolo solo con poco
pane e molto vino, e fumandoci pure sopra. Consumatelo di rado, in polvere,
quindi ben amalgamato ai cibi, in piccole quantità e durante pasti abbondanti,
ricchi di verdura e frutta fresca, per esempio arance. E, se siete uomini, non
più di una o due volte a settimana, come consigliano i medici della SIU. E ai
primi sintomi (bruciore, stranguria ecc.) smettete.
Alcuni costituenti del peperoncino sono irritanti, il che potrebbe plausibilmente aumentare l’infiammazione nello stomaco. In sintesi [sul forte consumo di peperoncino] “esiste una evidenza che suggerisce una sua associazione con un aumentato rischio di cancro allo stomaco”.
Alcuni costituenti del peperoncino sono irritanti, il che potrebbe plausibilmente aumentare l’infiammazione nello stomaco. In sintesi [sul forte consumo di peperoncino] “esiste una evidenza che suggerisce una sua associazione con un aumentato rischio di cancro allo stomaco”.
In altre parole, i
severi criteri scientifici usati dai due organismi nel valutare gli studi
finora pubblicati fanno sì che il maggior rischio statisticamente significativo
ci sia, anche se non alto. Il che non vuol dire "basso rischio", sia
chiaro, ma solo che finora non si è ancora riusciti ad avere le prove di un
rischio alto. Il che è comprensibile, vista la difficoltà estrema di separare
il consumo di un cibo – tanto più di una spezia che si misura in grammi o
decigrammi – dalla dieta generale di un individuo o di una popolazione. Fatto
sta che questa semplice prova di rischio deve mettere in moderato allarme,
spingendoci ad evitare ogni eccesso.
E tanti studi
epidemiologici in estremo Oriente mostrano alti tassi di tumori alla bocca, al
naso e alle alte vie digestive, per l’abuso tipico degli orientali di alimenti
piccanti, soprattutto peperoncino, uniti a cibi conservati sotto sale, e non
accompagnati da adeguati consumi di verdure e latticini, come invece accade in
Occidente.
Infine il problema
della eventuale cottura. Può essere cotto il peperoncino?
No, assolutamente: il calore distrugge parte dei suoi principi attivi. In
India, dove però si abbonda in piccante e anche il peperoncino viene mescolato
ad altre spezie (p.es. è nel curry), può capitare che sia cotto o più spesso (e
più correttamente) aggiunto in fine cottura. La differenza è una questione di
tempi e di consistenza. Si può tollerare che sia aggiunto a pezzetti in fine
cottura al riso e coinvolto in un minuto di cottura, ma non quando è in polvere:
va aggiunto a fuoco spento o direttamente sui piatti, a seconda dei gusti di
ognuno.
Fonte Nico
Valerio http://alimentazione-naturale.blogspot.it
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