POLONIA:
L’isola di Kunta Kinte e l’operazione Madagascar.
Era
un isolotto disabitato quando i primi coloni vi giunsero nel 1651. Un piccolo
isolotto alla foce del fiume Gambia. Un angolo sperduto di Africa,
senza nome né padrone. Ma i padroni si trovano in fretta. Così il duca di
Curlandia, Giacomo Kettler, comprò dagli inglesi i
diritti di commercio al largo delle
coste del Gambia.
Era un tipo intraprendente il duca Kettler, sostenitore delle idee
mercantiliste, amante dei planisferi e delle mappe geografiche che aprivano le
rotte verso nuovi mondi.
Fu
così che decise di spedire dei coloni laggiù, su quell’isolotto sperduto. E il
viaggio dal Baltico non deve essere stato agevole. Vale forse la pena ricordare
che la Curlandia corrispondeva a parte dell’attuale Lettonia, e il
duca era vassallo del Granducato di Polonia e Lituania. Era quello uno stato
enorme, che andava dai confini occidentali della Polonia all’Ucraina e – grazie
al duca Kettler – fino all’Africa. La piccola isola fu infatti la prima
colonia formalmente “polacca” nel continente africano.
Giunti
sull’isolotto i coloni costruirono un forte e ribattezzarono l’isola con il
nome di Sant’Andrea. Non ci rimasero molto: coinvolto in una guerra
con gli svedesi e fatto prigioniero, il duca Kettler vide la sua isola
africana conquistata dagli olandesi. Una volta liberato, ricostruì
la flotta e si riprese l’isola tenendola fino al 1661 quando gli inglesi la
presero senza nemmeno combattere facendone un caposaldo della tratta
degli schiavi. Non a caso oggi l’isola, che appartiene al Gambia, è
stata ribattezzata Kunta Kinte dal nome del famoso personaggio del
romanzo Radici di Alex Haley.
Quelli
della colonizzazione dell’Africa fu un’avventura breve per il Commonwealth polacco-lituano.
Dieci anni appena che devono però essere rimasti impressi ai polacchi poiché,
secoli dopo, a Varsavia pensarono che in Africa non si stava poi tanto male,
e progettarono di spedirci gli ebrei residenti in Polonia. Una
storia meno allegra ma altrettanto singolare, che si svolge negli anni Trenta
del secolo scorso.
Al
turbolento rapporto tra ebrei e polacchi avevamo già dedicato un articolo, ma in quell’occasione
non vi era stato modo di approfondire l’ipotesi di emigrazione forzata che
il governo polacco formulò per tentare di risolvere definitivamente la
questione ebraica. Alla crisi economica degli anni ’30 che aveva già
inasprito le relazioni ebraico-polacche si accompagnava un importante evento
oltreconfine, l’ascesa del Nazismo. Benché i nazionalisti polacchi
avessero molto da temere da una rinascita tedesca, il ruolo di punta che
l’antisemitismo ricopriva nell’ideologia nazista suscitava in loro profonda
impressione. Il Governo stesso da una parte professava di continuare la
tradizione di Piłsduski ma dall’altra se ne allontanava facendosi trascinare
da una corrente antisemita funzionale ad un obiettivo politico: indurre gli
ebrei superflui ad emigrare.
Proprio
l’emigrazione apparve negli ultimi anni l’unica definitiva scappatoia per
risolvere la questione ebraica, risollevare la bilancia dei pagamenti e
diminuire il tasso di disoccupazione. Obiettivi per cui sarebbe stato
necessario “liberarsi” anche del “surplus” di contadini e indigenti polacchi.
Tuttavia, il governo non poteva ammetterlo – per evitare di offendere
l’orgoglio nazionale – e la questione fu presentata come una necessità
confinata alla sfera ebraica. Una volta individuato il luogo in cui
collocare gli ebrei, i poveri polacchi – si diceva – avrebbero immediatamente
trovato lavoro ed agiatezza. Nel settembre del 1937, in seno alla
Società delle Nazioni, il Ministero degli Esteri Beck richiese formalmente dei
possessi coloniali “in comune con le altre grandi potenze europee”, così
recitava il documento noto come “Le Tesi Coloniali della Polonia”,
preparato qualche mese prima. La Lega fu sorda alla richiesta e anche il
Ministero lasciò cadere la proposta per l’evidente impossibilità di metterla in
pratica. Nessuna minaccia di forzata espulsione fu avanzata dal governo e
nessun piano concretizzabile fu effettivamente ideato. Questo portò a
concludere che l’intera campagna fosse un diversivo per distrarre la
popolazione dai reali problemi che andavano affrontati.
L’idea
che si trattasse soltanto di una montatura guadagnò credito una volta reso
pubblico il “Piano Madagascar”. Esistono pareri
contrastanti riguardo l’origine di questo piano: fonti polacche hanno suggerito
che l’isola, allora colonia francese, fu resa disponibile per un insediamento
polacco, ma è molto più probabile che la proposta sia stata avanzata dal
Colonnello Beck e i francesi risposero con cortesia ma senza impegno. Qualunque
sia la vera versione dei fatti, il governo polacco, nella primavera
del 1937, mandò una commissione in Madagascar per accertarsi sulle
possibilità di insediamento. Il rapporto riferiva che l’isola avrebbe
potuto assorbire tra le 15.000 e le 22.000 famiglie come coloni agricoli al
costo di 1000$ a famiglia. Alla fine di quell’anno, un comunicato ufficiale
diffuse la notizia che il piano di emigrazione sarebbe entrato nella fase di
realizzazione con l’attivo supporto francese una volta trovati i fondi e
completati i lavori organizzativi. La questione cadde nel dimenticatoio anche
perché economicamente insostenibile, ma la malvagità con cui la Seconda
Repubblica Polacca tentò di assurgere a grande potenza per sbarazzarsi di un
presunto nemico interno andrebbe ricordata ancora oggi. Soprattutto
quando si ama crogiolarsi nella rassicurante immagine di una Polonia eterna
vittima dei propri vicini.
Fonte :http://fai.informazione.it/
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