Le foglie carezzano, i fiori seducono, gli
animali spiano. Viene spontaneo trattenere il fiato per non disturbare la
quiete, camminare in punta di piedi, quasi a rallentatore, per assecondare
l’apparente immobilità degli alberi e dei loro ospiti
di Paola Cerana
Diceva bene Marcel Proust
sostenendo che il vero viaggio non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi ma
nell’avere nuovi occhi con cui scoprirli.
Ne ho avuto conferma anche
quest’estate, in Madagascar, durante un’escursione all’interno della foresta
primaria di Lokobe. Avventurarsi laggiù dà la sensazione d’essere avvolti dal
morbido abbraccio di piante gigantesche che con le loro liane invitano ad
addentrarsi sempre di più nel cuore vergine della primitività.
Le foglie carezzano, i
fiori seducono, gli animali spiano. Viene spontaneo trattenere il fiato per non
disturbare la quiete, camminare in punta di piedi, quasi a rallentatore, per
assecondare l’apparente immobilità degli alberi e dei loro ospiti. Ma
soprattutto viene naturale aprire gli occhi in maniera nuova, educare lo
sguardo a ciò che sembra invisibile e che tuttavia c’è: respira, si muove,
osserva e spera di non essere scoperto, se non con rispetto.
Mentre la mia guida
procedeva lenta nella delicata ricerca di serpenti e camaleonti rarissimi, io
ho casualmente alzato lo sguardo verso l’alto, più interessata ai lemuri che ai
boa. E frugando serendipicamente con gli occhi tra le palme frondose, ho
intravisto qualcosa d’inatteso. Una polposa macchia color giallo brillante
stava appesa a un robusto tronco di una pianta mai vista prima.
Non solo una ma altre tre,
quattro o forse più macchie gialle penzolavano pigre dallo stesso fusto.
Sottovoce ho pregato la guida di dirottare il cammino verso quegli stranissimi
spruzzi di sole per capire cosa fossero ed è stato così che ho incontrato per
la prima volta il Jackfruit. Quando si dice “amore a prima vista”!
La pianta appartiene al
genere Artocarpus, una famiglia di circa sessanta specie di alberi e arbusti
tropicali sempreverdi, di cui la più nota è il Breadfruit o Albero del pane. Il
Jackfruit è una variante meno nota, almeno nella nostra cultura.
La sua origine è asiatica:
dalla Thailandia l’albero è stato trapiantato fino in Brasile dai viaggiatori
portoghesi del sedicesimo secolo, anche se alcune ricerche farebbero risalire
la sua primissima coltivazione a seimila anni fa, in India. La cosa certa è che
il suo nome deriva dal portoghese “jaca”, inglesizzato nel 1563 dal naturalista
Garcia de Orta nel suo affascinante libro “Colòquios dos simples e drogas da
India”. Più tardi, un certo William Jack, un ambizioso botanico scozzese dei
primi dell’Ottocento, restò a sua volta talmente affascinato da questa bizzarra
pianta rinvenuta durante un viaggio in Malesia che millantò la paternità del
nome, Jack appunto.
Nome di battesimo a parte,
il Jackfruit oggi è uno dei tre frutti beneauguranti del Tamil Nadu - insieme
alla banana e al mango – oltre ad essere il frutto nazionale del Bangladesh.
Un’altra curiosità che lega il frutto all’Oriente, arte culinaria a parte, è
che da esso si estrae il colorante giallo utilizzato per tingere le tonache
sacre dei monaci buddhisti.
La
sua lunga storia ha permesso alla pianta di approdare molto lontano dalle terre d’origine ed è così
che anch’io ho potuto scoprirla in Madagascar, straordinario crocevia di
cultura africana e asiatica. Ogni Paese in cui è arrivata è stato contagiato
positivamente dalla sua esuberanza. In Brasile, paradossalmente, il Jackfruit
ha finito per diventare invasivo, soprattutto nella foresta secondaria del
Tijuca, dove piccoli mammiferi come il coati, essendone golosi, contribuiscono
a diffondere a dismisura i suoi semi nel terreno, alimentando così un’eccessiva
espansione della specie vegetale a scapito di altre.
In Madagascar, invece, la
presenza del Jackfruit è discreta ma generosa e rallegra la foresta
punteggiandola qua e là di queste sfere ovoidali gialle che possono raggiungere
anche il peso di cinquanta chili e un metro di lunghezza ciascuna. All’olfatto
il frutto non risulta immediatamente simpatico, perché l’odore che emana quando
è maturo è prepotente e ricorda un po’ quello aspro e pungente della cipolla.
Dev’essere un trucco che la pianta ha escogitato come naturale difesa verso certi
animali. Toccando il frutto, la prima sensazione è quella di scontrarsi con una
superficie rugosa e coriacea inespugnabile che sembra non promettere granché di
speciale con tutti quei bitorzoli tondeggianti. Invece, la vera sorpresa del
Jackfruit sta proprio nel suo cuore tenero, cosa che avrei scoperto con mio
grande piacere a cena, quella stessa sera.
Anche
grazie al Jackfruit, ho imparato che il vero viaggio non solo vuole nuovi occhi
con cui guardare ma anche una nuova bocca e un nuovo naso con cui sentire sapori del
tutto sconosciuti. Essere curiosi e lasciarsi stupire è indispensabile per
aprire i sensi con disinvoltura a nuove esperienze senza diffidenza né timore.
E questo vale anche a tavola, soprattutto quando ci si trova lontano da casa.
Prima di assaporare il
misterioso gusto del Jackfruit, ho voluto capire come venisse ricavata la polpa
dalla scorza brufolosa. E ho constatato che il lavoro d’estrazione non è
impresa da poco, anzi somiglia più all’arte fine dello scultore che a una
semplice opera culinaria. Dopo un primo taglio netto che squarta la sfera
ovoidale esattamente a metà, la scavatura deve essere eseguita da mani esperte,
decise ma delicate, di solito femminili. Il cuore carnoso del frutto si lavora
con un coltello flessibile con cui si ricavano decine e decine di petali,
simili a grosse fave o a patatine chipster, dal colore giallo tenue e lucente.
Io li ho mangiati crudi, perché il frutto da cui sono stati ricavati era maturo
al punto giusto. Quando invece il frutto è ancora acerbo o giovane, la sua
polpa viene utilizzata cotta in un’infinità di sfiziose varianti: bollita,
stufata, arrostita, lessata nel latte di cocco, speziata con aromi agrodolci e
piccanti, accompagnata spesso da gamberi o carne di zebù.
La consistenza del petalo del
Jackfruit crudo, così come l’ho assaporata io, è fibrosa ma cedevole e al primo
impatto, che risulta sonoramente croccante sotto i denti, segue una sdilinquita
scioglievolezza sulla lingua che ammutolisce dalla bontà. Il profumo si
percepisce appena, mentre il sapore è garbatamente dolce e sottile ma non
facilmente definibile. Immagino che la timbrica dipenda dalle papille gustative
di ognuno, perché mi è capitato di raccogliere sensazioni discordanti tra loro
da parte di chi, come me, assaggiava per la prima volta questa prelibatezza.
Banana, ananas, mandorla,
vaniglia, mela, soia e persino sapone: questi sono solo alcuni dei sapori che
questo frutto titilla al palato. In realtà, il Jackfruit è semplicemente unico,
ridente e sensuale. Questo è un motivo in più per assaggiarlo, giocando a dare
un nome al suo carattere senza confonderlo con altre unicità del mondo
vegetale. La possibilità ci sarebbe anche qui in Italia, poiché lo si può
trovare, anche se raramente, in qualche mercato etnico particolarmente curato.
Un delitto, invece, sarebbe provarlo in scatola, sciroppato, tostato o
essiccato, come mi è capitato di vedere in certe drogherie nel centro di Roma e
Milano. Non solo il Jackfruit inscatolato perde il suo fascino esotico ma
s’impoverisce anche delle virtù intrinseche, visto che non è solo bello ma
anche sano. Il Jackfruit è, infatti, una ricca fonte di vitamina B1, B2 e
potassio, con un concentrato minimo di grassi e massimo di carboidrati.
Quindi, se possibile,
meglio raggiungerlo e gustarlo laddove naturalmente prospera. E per completare
l’elogio del goloso frutto, aggiungo infine che se il Jackfruit mi ha
stuzzicato vista, tatto, olfatto e gusto è riuscito a sorprendere anche
l’udito. Il legno dell’albero viene, infatti, impiegato nella costruzione di
strumenti musicali dalle sonorità morbide e sensuali che hanno spesso animato i
tramonti infuocati di un Madagascar per me indimenticabile, in tutti i sensi.
Indimenticabile anche
grazie a quel giallo sole, odoroso e saporito, che spunta qua e là nella
lussureggiante foresta di Lokobe.
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